III- ciò che la strada nasconde.
La strada era deserta, se non si contavano le pozzanghere intrise d'acqua e fango e una persistente umidità che sembrava voler scavare fin dentro le ossa.
Una pallida luna cercava di far capolino fra le nubi grigie, immergendosi in quel cielo ormai sgombro di pioggia ma comunque plumbeo. Gli occhi dell'Angelo scrutavano la strada con circospezione, le mani infilate nelle tasche del lungo e lacero cappotto nero, un passo dopo l'altro. Passi cadenti, pesanti, uno strascicare di piedi contro asfalto bagnato.
Camminava senza sapere bene dove andare, nonostante sapesse perfettamente chi cercare. Era un mondo a cui non era abituato, di cui non faceva parte, eppure la sua presenza lì, quella notte, era più che giustificata.
La ragazza è in pericolo, aveva detto Yaska con espressione greve, trovala e portala in salvo. Nella terra di Turon, la sua patria, riconsegnala alla sua famiglia.
Quale famiglia?, aveva ribattuto l'Angelo, suo padre è scomparso e sua madre è costretta a vivere nella stessa casa dell'uomo che l'ha torturata. Non ha piú una famiglia. Yaska aveva sospirato, lo sguardo abbassato sulle mani giunte in grembo. Se la pensi cosí, allora dovrai essere tu la sua famiglia. Portala al sicuro, Ridyan. Solo così Lui non la troverà. Quando sarà il momento, libereremo sua madre e continueremo a cercare suo padre.
Sono più di sedici anni che cerchiamo suo padre, aveva quasi gridato Ridyan, e non l'abbiamo mai trovato. Evidentemente non vuole saperne niente. E' inutile continuare a cercare qualcuno che non vuole essere trovato.
Yaska lo aveva ignorato, scuotendo la testa.
Trova la ragazza, aveva ripetuto, guardando fuori dalla finestra, trovala e riportala qui, alla terra cui appartiene.
E poi, il Maestro non aveva detto più niente. Le sue palpebre si erano abbassate, la sua testa inclinata di lato e il sonno se lo era portato via. Ridyan era rimasto a fissare la sua esile figura rannicchiata nell'enorme sedia di legno levigato, osservando le sue mani, le dita incastrate le une alle altre, le sottili ciglia argentate che creavano ombre leggere sopra le guance. Poi aveva lasciato lo studio, divorato dalla rabbia e la sofferenza, il cuore alimentato dal senso di ingiustizia che il destino aveva riservato alla sua gente. La missione che Yaska gli aveva affidato era tra le più delicate che si fossero mai presentate: trovare una ragazzina Mezzosangue in una strana cittadina chiamata New York, migliaia di chilometri lontano da Alaésia, la terra degli Angeli, e riportarla a casa era quanto di più arduo e difficoltoso esistesse. Ma Ridyan ci era passato tante di quelle volte, ormai, che era diventata una routine quotidiana.
O quasi.
Adesso, l'Angelo si sentiva sperduto, o quantomeno il suo istinto di cercatore non sapeva da che parte cominciare. Aveva camminato tutta la sera in cerca di un'abitazione, ma la via che aveva intrapreso era talmente deserta da fargli pensare che quasi sicuramente la ragazza non si trovava da quelle parti. Né una casa né un bar o qualunque altra cosa. Niente di niente. Sembrava di trovarsi in mezzo al nulla, con l'unica compagnia di una luna pallida e praticamente invisibile ad illuminare il cammino e un cielo nero come la pece. Man mano che avanzava lungo la strada, si immergeva in un fitto buio da cui sembrava non esserci ritorno, ma la cosa non lo turbava minimante: era un Angelo, un guerriero che aveva passato la vita a prepararsi per il mondo Terreno, ed ora che si presentava l'occasione non avrebbe esitato a farsi valere.
Quella ragazza doveva essere allontanata da New York il più presto possibile. Doveva allontanarsi dalla stirpe Oscura, il popolo dei Diavoli a nord di Alaésia, che considerava i Mezzosangue alla pari di un sacco di immondizia. La loro legge diceva che i Mezzosangue erano errori e in quanto tali andavano riparati. Ridyan provava un disgusto abnorme verso quegli esseri, Diavoli che si credevano i padroni supremi del mondo. L'odio che lo animava era una forza potente e pericolosa. Sollevò lo sguardo verso il cielo, stupendosi ancora una volta di quanto potesse risultare triste e scuro. Ad Alaésia non aveva mai visto un cielo del genere. Tornò a guardare la strada, i residui di fango che gli si attaccavano alle suole delle scarpe, il passo cadente. Poi si rese conto di un dettaglio fondamentale: non conosceva il volto della ragazza. L'unica cosa di cui fosse a conoscenza era il suo nome, Alyssa e, approsimativamente, la sua età. Magari gli sarebbe bastato chiedere in giro di una certa Alyssa per riuscire a trovarla, ma l'intoppo era che quel posto sembrava più spento di una candela consumata. Non l'avrebbe trovata così facilmente come aveva sperato. Ma doveva scovarla prima che Reeg scoprisse che c'era ancora in vita un Mezzosangue. Prima che la togliesse di mezzo.
Con un respiro profondo continuò a camminare, un passo dopo l'altro, le mani sempre infilate nelle tasche, mentre la notte inghiottiva fino all'ultimo residuo della sua figura.
***
-La guerra d'indipendenza americana, denominata anche "Rivoluzione Americana" fu il conflitto che, tra il 1775 e il 1783, oppose le tredici colonie nordamericane alla loro madrepatria, il regno di Gran Bretagna. A partire dal 1778 la guerra assunse le forme di un conflitto fra le grandi potenze europee per il predominio sui...
-...sui mari e nei territori coloniali- borbottò Alyssa, rigirandosi la penna fra le dita e sospirando. Conosceva quella parte della storia praticamente a memoria, ma quella mattina la sua mente era occupata da un pensiero fisso e martellante: la voce che aveva sentito nella propria testa. Sebbene avesse trascorso i due giorni precedenti a cercare di convincersi che probabilmente la stanchezza le aveva giocato un brutto scherzo e di conseguenza aveva immaginato tutto, non riusciva a crederci. Quella voce era stata reale, fredda e stridente, come ferro e vetro. Impassibile. Nonostante Amber l'avesse quasi convinta a parlare con Luthien dell'accaduto, alla fine aveva deciso di celare quella brutta esperienza, cercando di dimenticarla. E nonostante i buoni propositi, naturalmente, non ci era riuscita. Perfino di notte sognava il suo nome, ripetuto in un'eco che pareva non finire mai. Quella situazione stava diventando insostenibile.
Una gomitata da parte di Amber la riscosse dai suoi pensieri.
-Lennison ti ha fatto una domanda- sussurrò, rivolgendole uno sguardo in tralice.
-Cosa...?
-Quali furono le nazioni implicate nella guerra d'Indipendenza- rispose repentina l'amica. -Muoviti o gli vedremo saltare quella vena sul collo per l'ennesima volta.-
-Ehm...
-Signorina Puddleton- il professore apostrofò Amber con un'occhiata gelida, incrociando le braccia sul petto. -Non un'altra parola.
Amber sospirò, tornando a voltarsi.
-Signorina Jefferson- la riprese il signor Lennison, con voce neutrale, -le ho fatto una domanda. Sarebbe così gentile da darmi una risposta?-
Alyssa si mordicchiò il labbro, cercando di sgombrare la mente. Naturalmente conosceva la risposta, era la parte di storia che più preferiva, ma la voce metallica le rimbombava ancora nella testa, offuscandole i pensieri, confondendole la mente.
-Io...io non lo ricordo, signor Lennison- mormorò abbassando il capo.
L'uomo inarcò un sopracciglio, assumendo un'espressione contorta.
-Da quanto mi è lecito ricordare, signorina Jefferson, mi sembra che se la cavasse abbastanza bene in storia. Mi stupisco, ora, delle sue parole.-
-Ha perfettamente ragione, signore, ma il fatto è che... ecco ho dei problemi a gestire...
-Se devo essere sincero, i suoi affari personali non mi interessano affatto- replicó l'uomo in tono tagliente.
Lei non aggiunse altro, abbassò la testa sospirando.
-Qualcun altro conosce la risposta?-
La voce del signor Lennison si rivolse al resto della classe, ma Alyssa non lo stava più ascoltando.
Amber si voltò verso di lei, con un'espressione talmente stupefatta da deturparle il bel volto olivastro.
-Seriamente? Che ti prende?-
-Lo sai che cosa mi prende- sbottò Alyssa sottovoce. L'amica si prese un momento per meditare; dopodiché corrugò la fronte, sospirando.
-Credo sia davvero il caso che ne parli con tua sorella. Questa storia sta degenerando, Ally.
-Non so se sia la cosa giusta da fare- replicò Alyssa, mentre Brian Kellington, il classico giocatore palestrato da cui non ci si aspetterebbe un grande intelletto, rispondeva alla domanda del signor Lennison.
-Dubito che Luthien mi crederebbe. Esattamente come hai fatto tu.
-Sì, è vero, ma poi mi sono ricreduta. Ora so che stai dicendo la verità, per quanto assurda possa sembrare. Luthien farà lo stesso o, cosa molto più probabile, ti crederà all'istante.-
Alyssa appoggiò il mento sulla superficie del banco, sospirando.
-E come fai ad esserne sicura? È una storia assurda, a sentire te.
-Beh- ribatté Amber con un lieve accenno di sorriso -perché è tua sorella. Le sorelle si fidano l'una dell'altra, no? O più o meno.
-Luthien è strana, non so mai come prenderla, sinceramente- replicò Alyssa, abbassando lo sguardo.
-Rispondi a una semplice domanda: ti fidi di lei?
-Credo di sì.
-Allora non c'è ragione per cui tu non debba dirglielo.
Amber ignorò l'occhiata stranita del professore e le assestò una pacca leggera sulla spalla, mentre la campanella suonava, segnando la fine della lezione.
-Oh, fantastico! - esclamò, alzandosi dalla sedia.
-Ora di pranzo! Il cibo ti aiuterà a fare chiarezza su questa situazione...- con aria di finta solennità sollevò il mento, offrendole il braccio come avrebbe fatto un gentiluomo quando questo mondo era più giovane.
-...o forse no, ma l'importante è mettere qualcosa nello stomaco. Quindi muoviamoci o non troveremo posto in mensa ed è davvero l'ultima cosa che vorrei.
Amber la trascinò oltre la soglia della porta, mentre Alyssa scuoteva la testa e alzava gli occhi al cielo.
La mensa era affollata, come praticamente ogni giorno. Il chiasso era assurdo, considerando la regola che nessuno avrebbe dovuto fare baccano nei luoghi pubblici della scuola -la mensa era uno di quelli- ma la maggior parte degli studenti preferiva trasgredire.
Alyssa puntò un tavolo in disparte e Amber le sedette di fronte, appoggiando lo zaino sulla sedia vuota accanto a lei.
-Questo è in assoluto il momento della giornata che preferisco: cibo, pace -più o meno- e assenza da quell'aula che puzza di alcool e gel per quarantacinque minuti. Non potrei chiedere di meglio.
-Lo so, Amber.
Alyssa sospirò, tirando fuori dal proprio zaino il panino che aveva preparato la sera precedente e una lattina di aranciata.
-Lo ripeti ogni giorno di ogni anno scolastico. L'ho imparata a memoria, questa manfrina.
Amber le rivolse un'occhiata stizzita, sbuffando.
-Smettila di essere così acida, Ally. Sto cercando di alleviarti dal peso dei tuoi loschi pensieri. Dovresti almeno mostrare un po' di riconoscenza!-
Scosse la testa, estraendo a sua volta dalla borsa il suo panino e una mela.
-E poi- aggiunse brontolando -sono la tua migliore amica. Non merito un trattamento simile.
Alyssa si abbandonò a una risata, per la prima volta da giorni, vera. Amber aveva la capacità di allontanare tutti i brutti pensieri, e questo la spinse a sentirsi in colpa per il trattamento che le aveva riservato.
-Hai ragione- disse, ridacchiando-perdonami, migliore amica. Non lo farò più.
-Sarà meglio per te- sbuffò l'altra, ridendo e addentando il suo panino.
-A proposito- farfugliò fra un boccone e l'altro, -come va con Nicholas?-
Alyssa si strinse nelle spalle, sospirando.
-Non bene- ammise, abbassando lo sguardo. -Ma non me ne importa più niente, ad essere sinceri. Ho altri pensieri per la testa per occuparmi anche a lui.
-Certo, hai ragione.
Amber sembrava seria, ora.
-E poi ci sono io per compensare l'assenza di un fidanzato, no?-
Alyssa scoppiò a ridere, rischiando di strozzarsi con il panino. Amber riusciva sempre a farla ridere, in qualche modo.
-Naturalmente- accondiscese con aria di finta solennità. -Tu basti e avanzi anche per farmi uscire di testa.
Entrambe risero, e le loro risate sembrarono, anche se solo per quei pochi istanti, cancellare il ricordo della voce che ripeteva quel nome, Alyssa, come fosse stata una oscura litania.
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