Fiori di luce
Nel Milleduecento il Medioevo aleggiava sospeso sopra l'abisso del tempo.
Il tempo era un campo arato da Dio, solcato dai rigagnoli delle ore, inondato dalle piene dei secoli, alluvionato dagli straripamenti dei millenni. Mille e non più mille si temeva e l'Apocalisse investiva e poi si ritirava, come la marea sulla riva.
Gog e Magog attendevano, incatenati oltre i valici montani, ammazzando l'attesa in laidi gozzovigli, tremando di fifa, vigliacchi impiastri d'inferno, al pensiero che un giorno il Signore li avrebbe sterminati, inviando loro palle di fuoco.
Il mondo si cavillava trepidante, sognando il Prete Gianni e il suo impero alle estremità inesplorate e selvagge della cristianità.
Il mondo era una miniatura di terra, aria, acqua e fuoco. Cieli stellati di lapislazzuli, fiumi ribollenti di veli d'argento, terra riarsa di venature ocra, stormente di malachite tritata, fuochi ruggenti di cocciniglia, lambenti tramonti lacrimanti rosa.
Terre di diavoli e mostri e cieli d'angeli e spiriti.
Il mondo era il palcoscenico del diavolo. Satana che arrotava gli artigli, peloso e nero e brutto, ingannando e truffando e impestando l'uomo con le sue legioni di demoniaci lacchè. Belzebù e Graffiacane, Barbariccia e Samael, Libicocco e Malacoda, Rubicante, Draghignazzo e Berlicche. Sgorbi delle fiamme, tentatori e messi del Gran Vanitoso, della Nullità del Nulla, che ringhiava e sbavava e i santi lo facevano fesso, rimandandolo a calci nel sedere nella sua fogna fitta di voluttà e illusioni.
Il diavolo si scornava e si avventava sui santi, ma ne usciva sconfitto, perché Dio disegnava il mondo, dipingeva i cieli, delineava montagne e componeva la musica dell'universo. Orchestrava e ordiva e vinceva, come aveva vinto crocifisso.
Cavalieri e paladini si buttavano al galoppo, lance in resta, all'attacco, giostrando e duellando e disarcionandosi e rovinando a terra. Squarciavano corazze d'anelli e seminavano i campi di budella e li innaffiavano di sangue, potando colli, sfondando elmi, tranciando braccia, segando gambe. Amputando e uccidendo e conquistandosi l'ardore passionale e bruciante d'una nobile dama.
Trovatori e cantori, menestrelli e giullari, guitti e buffoni, ballerini e poeti, gareggiavano sulle tavolate dei banchetti imbanditi, allo scintillio di torce e monili di nobildonne, consumandosi in strofe d'amori impossibili, sventurati, potenti, suonando la ribeca e strimpellando alla viella e pizzicando le corde del liuto.
Damigelle allo sboccio della primavera s'ornavano di fiori e boccioli e gemme, volteggiando leggiadre nelle sequenze di ballo, destreggiandosi sulla pista, nelle scarpine di velluto e raso. Copricapi a cono e soggoli ingabbianti visi etereii, diafani, spruzzati d'ultraterrena aura, oppure ammiccanti smaliziosi oltre l'orlo d'una coppa, chiocciolanti risatine da rondinelle, murati dietro apparati di telaio e ricamo.
I monasteri erano templi del sapere, vascelli d'erudizione sul mare pauroso e suscettibile dell'ignoranza e della superstizione. I monaci esaltavano la piatta vita umana nei bocconi di paradiso ch'erano le miniature, salvavano la conoscenza dal tempo che tutto fagocita, corpulento e taccagno. Cappelle fosche, impietrite nel ristagno della Fede, animi rinsecchiti d'Amore, devozione infiacchita.
Giovanni di Pietro di Bernardone, detto Francesco, natio della piccola Assisi, inondò questo mondo cupo e immanente della gioia, della freschezza della natura, sospingendo il profumo di vita e allegria nei chiostri aridi, rovesciando il mondo a battute d'Amore, corteggiando la natura, giocando con essa, demolendo la vanagloria, sotterrando l'egoismo, trasferendo il cielo, per un attimo, in terra.
Nel Milleduecento il mondo era bambino - un chiassoso, capriccioso, volubile bambino - incapace di spiegarsi, ma colmante il vuoto con un'impennata di fantasia.
Nel Milleduecento, lettore, per un bambino il mondo era una magia e un pericolo, una libertà e una prigionia, la fonte dei peccati e la sorgente della salvezza.
Inoltrati, lettore, in questo mondo di bambini e santi e giullari, di lazzi perversi e preghiere odorose, di pallide lune e rubicondi soli. Rifugiati tra le foglie, nel manto d'ulivi intarsiati d'argento, tra gli echi degli uccelli e lo spumeggiare del viavai di carri e buoi e mercati, tra papaveri e spighe e fiordalisi, nella piccola Assisi.
Assisi. Ascesi. Ascesi al sole, al cielo, azzurro da risvegliare capogiri.
Ascesi verso che cosa? Verso la roccia dura, gli zoccoli che sterzano? Verso la cima del monte incoronato di sole? Quale sole? Dalla tenera pietra rosa del Subasio, riflessi lattiginosi d'albe e sgargianti di tramonti, nasce un sole per il mondo?
O è un'ascesi... verso Dio?
«Mi raccomando, fate i bravi e ascoltate lo zio.»
«Sì papà...»
«E non cacciatevi nei guai!»
Piccardo ne ha fin sopra i capelli delle puntigliose, asfissianti raccomandazioni di suo padre. Sbuffa, rivolgendosi svogliato al cielo libero da nubi, una vertiginosa infinità azzurra. Le allodole si rintanano nel nido sotto il tetto.
«Sì papà...» lo rassicura per l'ennesima volta. È in procinto di partire Angelo - per un viaggio o altre faccende che terranno lontani qualche giorno lui e la mamma, affari con la bottega e cose così, cose da grandi - ma, quando il monito sembra l'ultimo, se ne profila sempre un altro, più zelante, rigido. «Te lo prometto.»
A compensare la lontananza dei genitori ci penserà lo zio. Ebbene sì: lo zio Francesco si occuperà di Piccardo e Giovannetto mentre mamma e papà sono via. Naturalmente con il sostegno di nonna Pica.
Nonno Pietro non appare molto propenso a immischiarsi con lo zio.
Non lo appare mai il nonno, con qualsiasi cosa, anche una nonnulla, dove sia implicato lo zio. Preferisce barricarsi dentro casa e chi s'è visto s'è visto. Piccardo ha rinunciato ormai a capirlo. A otto anni ci sono scoperte più affascinanti che lo ammaliano. Perché le allodole inneggino al sole e perché le bacche del cipresso siano dure e crepate come zolle di terra. Come mai le foglie d'alloro, quando le stracci, emanino quella caratteristica fragranza pungente. La verità dietro l'atteggiamento spocchioso di certe bambine.
Davanti casa, nel loro incrocio tra la contrada di San Paolo e la porta di San Niccolò, Piccardo e il fratellino salutano i genitori in partenza. Lo zio, frapposto tra i nipotini, circonda le spalle di entrambi, una salda stretta di spalle.
«Sicuro che non ti stiamo caricando d'un ulteriore fardello?» pone quieto e sommesso il papà allo zio Francesco, infilandosi i guanti in pelle.
Un sorriso balena sul viso dell'altro. La curiosità di Piccardo s'infittisce. Fardello? Come mai sarebbero un altro? Qual'è quest'altro? Cosa sta angustiando lo zio?
«Niente affatto.» Francesco scompiglia le teste dei bambini. «Sai quanto ami la loro compagnia.» Solleva da terra Giovannetto, il quale, nella vivacità dei suoi quattro anni, ride da strapazzo senza un minimo di senso. Meno senso c'è e più Giovannetto incontra pane per i suoi denti. Piccardo non lo capisce proprio. «E quanto mi diverta a rimettere in riga questi monelli impertinenti!»
S'accanisce in un attacco di solletico al pancino su Giovannetto, le sue grasse risate rimbalzano tra i muri del vicolo.
Le ultime resistenze di Angelo sono annientate da quella visione.
«Molto bene.» asserisce fiducioso, il suo verde acqua acceso dal figlioletto giubilante. «Li lascio nelle tue abili mani fratello.» Gli assesta una finale pacca sulla spalla. Lo zio, esile, geme. «Vedi di rimandarmeli interi.»
Smarrire un pezzo di Giovannetto non sarebbe questo crimine obbrobrioso.
«Stai tranquillo.» conferma Francesco, rimettendo Giovannetto al suo posto.
Angelo monta sul carro, balle di stoffa ammucchiate e buoi dagli zoccoli robusti aggiogati. Scocca l'occhiata finale ai figlioli, un sorriso appena accennato. Vanna si sbraccia in saluti lacrimosi, emotiva come tutte le femmine.
Appena scompaiono alla vista Piccardo tira un sospiro di goduria. Finalmente hanno la giornata tutta a loro disposizione! È sempre un'avventura favolosa passare il tempo insieme allo zio, dopotutto non è uno zio come tutti gli altri!
Gli altri bambini non vantano uno zio in fama di santità - questo concetto del santo deve ancora elaborarlo bene - e uno zio che parla agli animali. Quegli scontrosi guerrafondai della contrada di San Paolo sparano calunnie sul conto dello zio. Dicono che sia un matto, che solo i matti parlano agli animali. Piccardo è stato tentato di prenderli a botte, ma la coscienza pietrifica sempre il suo pugno, congela la sua collera, e affiora in lui in pensiero che allo zio non piacerebbe una baruffa.
Nemmeno alla mamma. Non ne trarrebbe nulla, solo una soddisfazione effimera. Prevalere per un pomeriggio e basta. Poi le mamme di quegli sgherri della contrada di San Paolo sbrigano il loro mestiere: tirano per le orecchie i loro sconci figli, trascinandoli sulla soglia di casa, li riempiono di sculacciate e li intimano a non diffondere fesserie sul conto del Santarello d'Assisi.
I santi non sono roba su cui scherzare, li minacciano.
Suo zio men che meno. Piccardo freme d'orgoglio.
«Ciao nonno!» A chi sta urlando eccitato Giovannetto? Piccardo scorge il nonno spiante la strada dietro una tenda, corrucciato e livido. Come ogni volta che c'entra lo zio in qualcosa. Quel grugno livoroso è puntato a lui, comprende. Il nonno è arrabbiato con lo zio Francesco, materiale quotidiano. «Vieni a giocare?»
Manco per idea. Nonno Pietro, con uno strattone, tira la tenda e si nasconde alla vista. Un netto rifiuto. Giovannetto non n'è minimamente affranto.
«A più taddi nonno!»
Pasticcia nuovamente con le parole. Giovannetto è piccolo, gli rimarca la mamma, le parole gli si ingarbugliano, impastandosi sulla lingua e lui s'impappina. In quanto rivestito del ruolo di fratello maggiore deve stargli vicino, aiutarlo ad allenare la facoltà verbale, affinarla, svilupparla. Le parole emergeranno dalla bozza come una scultura da un blocco di marmo, sostiene la mamma.
Che noia barbosa.
«Si dice tardi Giovannetto.» lo corregge Piccardo.
«Taddi.»
Seh vabbè, buonanotte.
«Che facciamo zio?» Rivolgiamoci a particolari più interessanti.
Francesco serra gli occhi, inala l'aria, le ventate birichine della brezza.
«Avete fame?»
La pancia di Piccardo brontola in effetti. Una merenda sarebbe ben gradita. Annuisce, sapendo già dove procurarla.
«Ce la prepara la nonna la merenda!»
Pane condito con una spalmata d'olio, non questo piatto da banchetto imperiale. Però è saporito e nonna Pica liquida gli sguatteri nelle cucine e li serve ai tre su un telo bianco. Una combinazione che stuzzica Piccardo. La mollica giallastra del pane. Il marroncino cotto della crosta, una cornice ruvida, infarinata. L'oro liquefatto dell'olio, le gocce splendenti che ungono le dita. Lo sbocconcella, non s'ingozza come Giovannetto, che strappa a morsi il pane e si concia peggio d'una belva sbranante la carcassa sanguinolenta e maciullata d'una preda.
È buono, il pane, anche lo zio lo mangia, bocconi lenti, quasi misurati, ingabbiato nei suoi pensieri lontani. Si sta bene, qui, seduti contro il muricciolo della scalinata esterna, la schiena rinfrescata dall'ombra, le punte dei piedi scaldate appena dal sole martellante, opprimente, sconfinanti oltre la linea d'ombra e luce tagliante il vicolo, che ora, all'apice del pomeriggio afoso, risalta spiccata.
Le allodole turbinano, si accapigliano. Giovannetto crede che si corteggino. Una serenata di giorno, secondo lui. In parte ha ragione, ma le allodole sono invasate dell'amore verso la luce, il sole, la sterminata ebrezza del giorno.
Gorgheggiano cantici di lode. Sono come lo zio. Lo zio si paragona spesso a un'allodola, che campa con poco e si abbiglia di terra e manciate di polvere.
«Zio?»
«Sì?» Sventra con le dita la concavità del pane, ficcandosi la mollica in bocca.
«Tu detesti il sale?»
Giovannetto ciuccia la crosta, l'ammorbidisce tra le gengive.
Lo zio s'aggrotta, una ruga sulla fronte bianca segnata da vene delicate.
«Come mai questa domanda bizzarra Piccardo?»
Se l'arrotolava intorno al dito da un po'. «Il nonno dice che il sale costa, che solo i ricchi se lo possono permettere. È un privilegio. Visto che è una ricchezza mi chiedevo se la detestassi. Ripugni tutte le ricchezze tu.»
Una risata infiamma lo zio. Olio spilla, si coagula tra le fenditure della strada.
«Il sale è un dono di Dio.»
«Ma lo usano i ricchi!» E lo zio ha rinunciato a ogni fronzolo di ricchezza!
«Se una pergamena avvolge degli escrementi decresce forse il suo valore?» pone calmo Francesco, un brio giocoso negli occhi grigi.
La pergamena è costosa, rara, pelle di pecora scuoiata e lavorata che rilega i tomi voluminosi e pesanti su cui rifulgono e s'attorcigliano stupefacenti miniature. Spirali e croci e motivi intrecciati, cartigli che s'annodano e mondi alla rovescia, scimmie che si grattano il deretano e uomini che trafiggono virginali unicorni.
«Nessuno la userebbe più.» medita Piccardo. «Sarebbe sporca e fetente.»
«Ma la pergamena tratta dalla pecora docile e amorevole e venduta a caro prezzo, concepita per colorarsi di meraviglie rimane. Giusto?»
«Penso di sì.» Lo scopo è sempre quello.
«Così come il sale rimane creato da Nostro Signore per allietare il nostro palato, ravvivare gusti insipidi e conservare le nostre vivande. E poi...» S'accosta a Piccardo in un bisbiglio. «... brilla da accecare!»
Una salina. Piccardo non l'ha mai vista.
Appurato che lo zio non odi il sale. La vigna che s'avvita sulla terrazza dei vicini getta ombre dalle sue colonne, la lontananza sfuma in ombre azzurrognole. Piccardo fessura le palpebre, il cielo disorientante, la geometria curata della campagna. I monti degradano, sono ritagli frastagliati avvolti da nuvolaglia spumosa, presagenti il mondo.
C'è il mondo immenso dietro le montagne, fuori dalle mura d'Assisi, lontano dal caldo stimolante il pisolino e acuente la sete.
Un mondo di demoni e santi e draghi e Dio.
Dio che è un burattinaio, sa Piccardo. Una ruota da cui dipartono altre ruote e l'universo è un girotondo infinito, il riverbero d'una melodia, un eco tonante che s'affievolisce a sussurro, ma gira e muove e ordisce.
Dio fila le trame della vita e Cristo segna la spaccatura dei secoli, il suo sangue lava i peccati e monda dalla paura. Ma la paura rimane, dimezzata, tranciata tra la certezza della protezione divina e la consapevolezza della tentazione. L'uomo è combattuto. Ruota su un bivio costante. Lusingato dal diavolo, ripreso da Dio. In tutto questo i draghi sputano fuoco, in Etiopia i cannibali strisciano sulla pancia e saltano su un gigantesco, abnorme piedone e la Madonna piange e salva i peccatori.
L'Abissinia è un concentrato di demoni e zanzare e il lupo divora i suoi stessi cuccioli e ulula ai sabba delle streghe che cavalcano diavoli e dai diavoli si fanno cavalcare.
È contraddittorio e smisurato e sbalorditivo il mondo.
D'un tratto dall'imbocco del vicolo sbuca un corteo di bambini, una profana processione di piccoli ostentanti fiori - violaciocche, ranuncoli, papaveri, fiordalisi, margherite e ciuffi d'erba - al posto degli ostensori sacri. Il canto balza subito all'attenzione del trio oziante all'ombra.
«Mille mille fiori a te Santa Maria!»
Il gioco dei fiori! Oh, oh mille fiori! Quant'è bello come gioco? Un bambino apre la fila detta il ritmo, ciabattando in rudimentali zoccoli di legno. Una bambina bionda è occupata da una ghirlanda di roselline. Al suo lato un signorino sui sei anni canta con un fervore, una devozione da togliere il fiato, reggendo un singolo, lungo stelo d'una calla spezzato, la punta ciondolante al filamento.
«Mille fiori!» esulta Giovannetto, scordando la merenda. Tira il saio allo zio, smanioso. «Giochiamo zio Cesco, giochiamo!»
Ma non possono giocare con gambi tutti sgualciti, fiori flosci e appassiti! Piccardo si sente in dovere di aggiustare quelle vegetali aste malconce.
«Dobbiamo procurare fiori più belli.» informa lo zio, preoccupato. «Non vanno bene quelli! Sfigurano, una processione curata abbisogna di fiori nel pieno della loro magnificenza.»
«Cosa proponi Piccardo?»
Crescono iris selvatici nelle fessure che venano i piedi della porta di San Niccolò e un arazzo di gelsomini tappezza il muro laterale della loro casa. Giacinti spuntano panciuti e folti tra le insenature scolorite dal sole davanti alla stalla retrostante, il grembo caldo e accogliente dove sono venuti al mondo sia papà che lo zio.
Un ricco bottino da spartire.
«Restate qui!» ammonisce alla banda, allo zio e a Giovannetto, correndo a recuperare il necessario.
Sguardi perplessi lo tampinano finché non gira l'angolo.
Piccardo recide in una manata gli iris, i bei calici violacei, con il centro che impallidisce e gli stami ricoperti di peluria. Scuote il cespuglio rigoglioso di gelsomino, raccogliendo una pioggia di fiorellini bianchi, cascata di stelle, nelle falde della tunica tenuta a grembiule. Ultimi, i giacinti, gli steli carnosi scricchiolanti nelle mani.
Arraffate le floreali insegne, Piccardo ritorna da chi aveva piantato in asso, le suole scalpiccianti sulle pietre dalla foga della corsa.
Le distribuisce, elargendoli uno per uno, con parsimonia, così che nessuno rimanga a mani vuote. Rovescia una pioggerella di fiori, insignisce lo zio dello scettro d'un iris. Però, fermi un momento...
«Zio, tu lo conosci mille fiori?»
Altrimenti sarebbe spaesato!
«Se lo conosco?» Francesco sgrana gli occhi, fingendo sorpresa. «Certo che lo conosco! Io e tuo padre abbiamo estirpato mezza Assisi a furia di cogliere fiori per la processione! E sai quanti balli!»
«Balli?» Si balla a mille fiori? Suona nuova.
«I balli in piazza, con pioggia, neve, vento... sono tradizionali!»
Non lo sapeva. C'è tempo per imparare ogni giorno. Piccardo n'è intrigato. Ballare a mille fiori, attizzare le fiamme già vigorose e gagliarde... sembra divertente!
«Allora andiamo!»
Risale, il buffo, sgangherato corteo, bambini e un adulto, il santo rinomato della città per giunta, risale lungo il vicolo, scandendo il canto a profusione, imbracciando fiori appariscenti, sbandierandoli, innalzandoli, le vocine acute impregnate di pietà.
«Mille mille fiori a te Santa Maria! Mille mille fiori a te Santa Maria!»
Fuoriescono nella piazza, fronteggiata dall'imponente monumentalità del tempio di Minerva, d'origine romana, risalente a quando Ottaviano Augusto regnava sull'Impero e il Cristo contava i giorni alla sua venuta. La processione diventa un ballo, come aveva preannunciato lo zio. Lo zio che si mette a saltellare e compie capriole e piroette e i bambini mantengono il ritmo battendo le mani. I piedi si spogliano dell'ingombro dei calzari, li sfilano e quelli volano in una montagnola nella polvere. Nudi, sfregano nella terra, scivolano sulle pietre, le piante sferrano scudisciate e balzano verso l'alto, tendendosi, provando ad acchiappare l'infinito.
Gli adulti additano straniti, alcuni indicano il santo, ridono, gongolano, arrossiscono, inteneriti, deliziati. Dalla discesa di San Rufino il vescovo Guido e la sua congrega scendono con solennità, aprendosi un varco tra la popolazione. L'espressione basita di Sua Eccellenza si tinge di paonazzo.
«F-Francesco?»
«Buongiorno Vostra Eccellenza!»
Sbocciano sorrisi sui volti dei bimbi, nascono risate e s'uniscono in un girotondo. Un girotondo che si trasforma in acchiapparello. Si rincorrono, s'accavallano addosso a Francesco, gli schiacciano il petto e lo seppelliscono sotto chili di diavoletti. Il tutto senza che muoia la risata da lui. Un riso vero e naturale, Piccardo n'è felice.
S'impiastrano e impolverano e le mamme d'Assisi stasera avranno un bel grattacapo con lo strigliare i loro figli scalmanati nelle tinozze da bagno.
«Francesco!» lo ragguaglia il vescovo Guido nel pieno della furia fanciullesca. «Si può sapere che diamine ci fai qui? Il Capitolo attende un tuo intervento!»
Il Capitolo! Intendeva questo come fardello il papà allora. Uno straordinario raduno di frati convenuti da tutta Europa, attratti dallo zio, dalla sua parola, dal suo esempio. Cinquemila hanno stimato, un manto di stuoie che rappezza il circondario della Porziuncola. Ma anche contestatori, scontenti, pignoli.
Muovono critiche allo zio, al suo stile non più perseguibile, fantasioso. Un'utopia. È il Capitolo per il quale Francesco ha nominato Angelo responsabile in una mescolanza di ruoli tra siniscalco-maggiordomo e detentore dell'ordine. Il papà gestisce la sicurezza. Ha placato la sfuriata dello zio quando questi, nero di rabbia, si è messo a scoperchiare le tegole dal tetto, infrangendole in cocci, calcinacci e schegge, un acciottolio furioso, protesta alla casa che lui non aveva approvato.
Ma che, purtroppo per lo zio, era un regalo del Comune, proprietà del Comune, e ha dovuto obbedire. Non gli piace starsene tra i frati? Strano, lo zio ama starsene in compagnia, ama i suoi fratelli e Sorella Chiara e le sue sorelle.
Come mai non vuole andare da loro? È stufo delle critiche?
«Hanno fatto a meno di me mentre ero via.» frena Francesco il puntiglio del vescovo, rialzandosi nel marasma vorticoso di polvere. «Deciso, ufficializzato, stabilito. Sembrano così sicuri da reggersi sulle proprie gambe...»
«Francesco, sono serio. Non puoi ignorarli.»
Lo zio si massaggia il collo dolorante. «Quanto vorrei essere ignorato! Ma questi figli sono ingordi del loro padre. Ambiscono a ridurlo a brandelli.»
Guido Spadalonga, vescovo d'Assisi, scuote il capo spazientito, proseguendo per la sua strada, pencolante nel mantello ricamato.
Francesco, tolti i seccatori, sospira e si stropiccia gli occhi alla maniera d'un bimbo insonnolito, i pugni chiusi. Ha sonno?
«Sei stanco zio?»
«Mh?» Una trama rossastra è germogliata intorno alle palpebre dello zio, viticci di macchie avvampanti. La sclera si ramifica di capillari, come quando piangi e ti s'incendiano gli occhi e il mondo affoga in un tremulo drappo acquoso.
«Ti stropicci gli occhi con tutte e due le mani.»
«Oh.» Grugnendo, lo zio si ristabilisce in piedi, stiracchiandosi le braccia, ingurgitando aria. «Mi è solo entrata della polvere Piccardo, non temere.» Posa lo sguardo sui bricconcelli, puntandolo al colonnato in penombra del tempio. «Chi gradisce una storia? Ne ho tante da raccontare!»
Passano alle storie! Piccardo lascia cadere l'argomento oculare, accalcandosi e sgomitandosi per aggiudicarsi le prime file. Lo zio si sistema sulle scale del tempio di Minerva, sedendosi nello scampolo d'ombra screziato di barbagli arcobaleno, sprigionati dalla vetrata del rosone incoronante l'ingresso.
«Che storia volete sentire?»
«Quella della pipì della palla del sole!» esclama pimpante Giovannetto.
Sarebbe la perla, la mamma la narra da anni. L'ostrica è timida, sta tappata e chiusa nel suo guscio, ma ogni tanto riaffiora dagli abissi. Beve la luce, s'ubriaca di luce e, infine, rubato un ricciolo di sole, sprofonda nuovamente nelle viscere tenebrose del mare a rifugiarsi, nascosta, sigillando il suo guscio e il ricciolo di sole, prigioniero, s'attorciglia e appallottola e si mischia anche con la pipì, perché l'ostrica piscia all'interno, e forma una palla.
Una palla di pipì solare chiamata perla.
«O sennò Giovannetto?» Francesco vira su altro.
«Quella della pipì degli angioletti!» Che sarebbe la pioggia. Quando agli angeli scappa piove. E se grandina è perché Dio ha lasciato aperta la ghiacciaia.
Tutte storie incentrate sulla pipì. Suo fratello tiene gusti raccapriccianti. «Giovannetto il mondo non è impastato con la pipì!»
«Ma chiunque piscia!»
«Non significa niente!» Piccardo non sa più come raccapezzarsi con lui. «Preferisco la storia spiegante le piume rosse del pettirosso.»
Prima il petto dell'uccellino era d'un incantevole azzurrino polveroso, ma poi, un giorno, s'appollaiò sulle croce del Salvatore e, mosso a compassione, sfilò una spina dalla corona della Passione. Una goccia del Santissimo Sangue cadde e il piumaggio si bagnò d'un rosso intenso, a testimonianza perpetua della pietà dimostrata dal pettirosso a Cristo Signore.
«E se vi raccontassi la storia di Madonna Povertà?»
La sposa decantata dallo zio! «È vedova.»
«Era, io me la sono accasata!» ride lo zio e la storia si dipana.
Madonna Povertà delicata e dolce, sensibile, innamorata della vita, toccata dall'umano. Lieta dei suoi stracci e che danza sotto lo scroscio dell'acquazzone, schizza nelle pozzanghere. Vende e dona senza distinzione, generosità e carità i pilastri di Madonna Povertà. La più pia e disprezzata.
«È bellippima!» storpia Giovannetto, rapito.
«Bellissima Giovannetto.» Quanto ancora Piccardo dovrà correggere le sue intemperanze grammaticali? Rotea gli occhi, scocciato.
Alla sua età potrebbe smetterla d'inciampare.
«Mi ha fatto innamorare.» illustra zio Francesco, animando la narrazione con gesti e facce e boccacce da giullare. «Di Dio, del Creato, di Chiara.»
Le voci su Francesco e Chiara innamorati sono fondate dunque!
«Di Sorella Chiara?» Piccardo è esterrefatto.
«Soprattutto. Siamo innamorati dell'Amore, il nostro è...» Schiocca la lingua, inceppato sulla definizione conveniente. «... è un amore sopra l'amore. Non serve baciarsi, perché nei nostri incontri si baciano il cielo e la terra. La carne è vana, fatua, uno straccio logoro. Mi specchio in lei, non reggono segreti.» Trascina i bambini, la storia assume i connotati d'un corteggiamento cortese, la dama ritrosa e pudica e il galante cavaliere. «Siamo gemelli separati, però congiunti nell'amore. Non ci dividiamo mai anche quando le nostre scorze umane si distanziano l'uno dall'altra. Chiara è l'anima che arde, è una parte della mia anima...»
«Come hai fatto?» Giovannetto pende dal racconto, immerso nell'icona classica e romantica della bionda punzella e del suo protettore. Certe volte però, Piccardo è posseduto dall'impressione che, specialmente di recente, sia Sorella Chiara a ergersi a protettrice dello zio, celante una forza guerresca.
«A fare cosa Giovannetto?»
«A spaccare la tua anima e dividerla con Chiara!»
Lo zio intendeva a livello metaforico! Che tonto gli hanno assegnato come fratellino? Tonto e instancabile, parla a raffica questo piccolo rompiscatole.
«Non lo so.» Lo zio fomenta la fantasia spiccata del nipotino. «È successo.»
«Caspita...» Suo fratello è a bocca asciutta, entusiasticamente costernato.
Tonto, instancabile e credulone.
«Insieme siamo completi.» si riallaccia al filo lo zio. «Non ci estinguerà nessun male.»
Piccardo incrocia le gambe. Il male. I preti ampollosi e cantilenanti scrivono che il male coincide con il Diavolo. S'incarna nei demoni neri, irsuti e animaleschi, che la notte s'accovacciano sul grembo delle fanciulle e le inseminano, fecondandole di abominevoli creature deformi, rimescolando il calderone degli incubi.
Ma lo zio cosa ritiene sia il male?
«Che cos'è il male zio?» Il ranuncolo solitario gli dondola tra il pollice e l'indice, fine.
La particolarità della domanda non l'ha turbato minimamente. Francesco scrolla spallucce indifferenti. «Nulla.»
Vaga e indefinita come risposta.
«In che senso nulla?»
«Nulla.» ribadisce sintetico lo zio, come se aggiungere dettagli fosse insensato. «Il male è nulla. È niente. Mancanza, assenza. Il male non è e grida, ringhia e sputa perché desidera essere. Riempire il suo vuoto. È un'illusione.»
L'illusione del non essere che crede d'essere. Il più grande, il più forte, il supremo quando invece è il più vile. Tipo un copione. Il male imita, capisce Piccardo, ma imita in una copia orrenda e sgraziata e s'infuria perché vuole imitare alla perfezione il bene. Il male è falso, un bugiardo riconoscibile.
«Un gioco di specchi!» sbotta la bimba bionda coronata dalla ghirlanda ultimata.
«E come lo sconfiggi?» Piccardo è restio a mollare l'argomento, appiccata la curiosità. Tramite un esorcismo? Attraverso una benedizione?
«Mostrandogli il suo riflesso, ponendolo di fronte alla realtà, faccia a faccia con se stesso. Il suo nulla. Il vuoto.»
Costringendolo. Al fuoco si risponde con il fuoco, capito.
Piccardo annuisce serio.
«È vero che ti è apparso Nostro Signore?» starnazza il bambino della calla moscia e rotta, una testolina castana.
«Mia nonna dice che parli con gli angeli!»
«Che aspetto hanno? Mangiano i dolci in paradiso?»
«E ti fanno giocare a nascondino?»
Fiocinato di domande, lo zio tenta d'arginare il flusso. «Bambini, bambini! Non ci sono ancora andato nel Regno dei Cieli! E non mi reputo meritevole per accedervi...»
«Ma tu sei santo! Compi miracoli!»
«Stringi amicizia con i lupi! Canti con gli uccelli!»
«Sani gli ammalati, purifichi dai peccati!»
Giovannetto si lancia a stringere la mano dello zio, sparpagliando i petali del suo giacinto spelacchiato, spezzato dal trastullo. «Un giorno domandi a Madonna Povertà se può venire a trovarci? Voglio conoscerla!»
«Anch'io!»
«Sembra simpatica!» afferma un piccolo dalla dentatura bucherellata, il foro dei denti da latte.
Madonna Povertà è simpatica, conosce Piccardo. Gioiosa e spensierata e foriera di libertà. L'ha donata allo zio. Ammette che la povertà, il radioso appagamento che si diffonde sul volto dello zio Francesco quando incensa la sua mistica sposa, l'attirano come pochi altri. Vuole viverlo anche lui, vuole respirare quell'appagamento. Il brio. L'entusiasmo. Gustare la prelibata felicità dello zio.
Scoprire quell'inspiegabile, quell'arco teso al cielo.
Serve farsi frate per scoprirlo?
«Lo è, lei è m-meravigliosa...» tossisce lo zio, battendosi il torace. «Valorosa...» La tosse scompagina il discorso, Francesco non si arrende. «S-Soave...» Soccombe ai colpi di tosse, incurvandosi, tenendosi la pancia. Ma non scolora il suo istinto al gioco con i piccoli. «Sapete... la prossima volta chiederò al Signore c-che... mi mandi un bello sciroppo per la tosse!»
Risate dilagano nei presenti, curiosi, piccoli ascoltatori ficcanaso.
«S-Scusate... un m-momento...» smozzica lo zio Francesco tra un attacco convulso di tosse e un altro. Su un'andatura instabile s'apparta dietro l'angolo, mentre un vociare caotico fermenta tra i bambini. «Torno s-subito...»
Una tosse persistente. Oh misericordia dell'Altissimo. Lo zio sta forse male? Impossibile, i santi perseverano tra molte prove e tribolazioni, martirii e torture, ma dalle malattie guariscono per miracolo. È la norma e la regola delle storie.
I santi li accoppano solo sciami di frecce o graticole arroventate o spade decapitanti teste. Ansioso, Piccardo mozza la corolla al suo ranuncolo. I bambini sparlano e lo zio non si palesa. Magari è stato male veramente. Magari i suoi timori si sono avverati.
No, sul sepolcro del santo vescovo e martire Rufino patrono di Assisi, no.
Decide di controllare. Giovannetto se la può cavare per due secondi da solo. Scende il breve tratto di scalinata e lo inquadra.
Gli si ghiaccia il sangue nelle vene, inchiodandolo sul posto.
Lo zio, accasciato contro il muro, reggendosi su gambe malferme, è sconquassato da violente tossite, piegato, una mano... insanguinata...
Sangue s'addensa, colando dalla bocca dello zio Francesco, si espande mucoso sul palmo, filtrando tra le dita. Piccardo è pervaso d'un brivido, come una lama di ghiaccio conficcata tra le scapole.
«Z-Zio...?»
Francesco si volta a fatica, le fattezze distorte dalla sofferenza. Un sorriso sorge immediatamente a disperdere la tetra apparenza. Ma non eclissa le labbra insanguinate, come se si fosse sbrodolato con la linfa vitale di qualche premio di selvaggina, il pallore cadaverico, disumano.
Lo zio sta male. Sta concependo doti di preveggenza?
«Piccardo...» gracchia lui con voce rauca, spolpato dalle energie. Cerca miseramente di darsi un contegno, rassettarsi, davanti al nipote. «N-Non era niente...»
Niente? Quello niente?! Sostengono due concezioni di niente assai diverse se così si rivela! «Z-Zio... tu...»
Il pianto incombe, impetuoso, partorito dalla paura, la paura affilata di perdere lo zio. A Piccardo trema la mascella, si doma mangiandosi il labbro.
«Piccardo tu s-sei un bambino m-molto intelligente e-e-e intuitivo...» Incede a passi lenti, strascicati, lo zio, ponendo una mano - sebbene suggerisca l'impressione di stare più appigliandosi - sulla sua spalla. «Confido c-che non lo spiffererai a nessuno. Ti prego, n-non dirlo...»
«Ma andresti curato! Se stai male, se peggiori-»
L'indice dello zio tappa la sua valanga. Zitto.
«Cosa ris-risolverebbero i m-medici con qualcosa che è g-già in corso?»
In corso? Che significa? Da quanto lo zio accusa questi episodi? Piccardo sente il terreno cedergli sotto i piedi. Lo zio sta male e lui è restio a condividerlo con chi potrebbe fornirgli supporto. Quale testardaggine!
«Sono tutti farfalloni blateranti d'intrugli e cataplasmi e impiastri a base di sterco e liquami.» Lo zio non spende parole benevole. «Non mi serve un medico. Passerà vedrai. Tutto passa. Ho battuto di peggio.»
Va bene, però il sangue...
Francesco ha riposto in lui la sua fiducia. Piccardo s'irrigidisce, steccato come il legno. Non potrà dirlo a nessuno.
Quello che non svelerà l'uomo lo sveleranno Dio e il tempo. Tuttavia se buttasse una parola adesso si potrebbe salvare il salvabile... e tradirebbe lo zio.
«Stai in pace zio.» Si fionda ad abbracciarlo, circonfondendogli le gambe, il saio che graffia sulla guancia, spinoso, pungente. «Il tuo segreto è al sicuro con me.»
Una carezza gli si strofina sul retro della nuca. Mano magra e scavata e sudicia tra i boccoli castani. «Bravissimo il mio nipotino.»
«Ma promettimi che ti riguarderai...» Ci manca solo che ci rimanga secco lo zio, il santo e mattacchione zio Francesco.
Un sospiro arrendevole contrae la cassa toracica. «Te lo prometto.»
«Giurin giurello?» Leva il mignolo speranzoso.
Lo zio l'incrocia. «Giurin giurello.»
Piccardo imprime il viso nel saio dello zio, custodisce nella memoria il suo profumo, racchiude nel cuore la pulsazione della sua carne, i palpiti del sangue schiumante nelle vene. Il respiro grave, stanco. Le sue cavità, le sue rientranze.
Il suo pazzo e santo zio Francesco.
«Ti voglio tanto bene zio.» Il tessuto spesso del saio ovatta la voce, la camuffa nelle sue setole raspose. «Tanto tanto.»
«Anch'io te ne voglio Piccardo. A te e a tuo fratello.»
«E al papà?»
«Soprattutto.»
«E ai nonni?»
«Molto.»
«Persino al nonno Pietro?»
«A lui più di tutti. È speciale.» Gli spilucca un bacio sul ciuffo penzolante sulla fronte, rivoltandolo, sospingendolo dalla loro folla affamata di sapere. «Andiamo adesso, stiamo abusando del tempo dei nostri amici!»
Ritornati in cima alla scalinata, lo zio s'assume l'onere di spiegare cosa sia il male sfruttando un esempio. Si posiziona a quattro zampe, ginocchia e mani a carponi, come quando Giovannetto s'intestardisce di giocare a cavallina.
Piccardo s'asciuga il moccio e le lacrime evaporano, invogliato nello spettacolo. Una messinscena di quelle dello zio! Animate da canti e grani di note provenzali - le arie trasmesse dalla nonna - e giravolte e risate!
Francesco inarca la schiena, tira fuori la lingua, ulula.
«Cosa sono?»
«Un lupo!» Giovannetto si pronuncia con sicurezza.
«Un cane!»
«Un cammello dei Saracini!»
«Un abitante dell'Abissinia!»
«Sbagliato, sbagliato, sbagliato e sbagliato!» li boccia tutti, snudando i denti in un ghigno burlesco. Risate germinano, scrocianti. «Aguzzate la vista!»
«La mamma a letto con il papà!» Che cavolo ha visto Giovannetto per spararla così grossa e indecorosa?! Piccardo arrossisce.
Se il male è un travestimento del niente, un illusione che sogna d'essere realtà...
«Mio zio che fa lo scemo!»
Piccardo vince: lo zio si rimette in ginocchio, ansimando.
«Bravo Piccardo! Hai visto il vero, non una maschera. E il male è questo: un qualcosa che si finge altro, la verità del nulla che diventa falsità ingannevole, si veste da qualcosa che non è ma che si strugge per essere, per raggiungere, e che tuttavia non raggiungerà mai.»
Verità e falsità e ancora verità... un concetto un po' contorto. Semplice, ma articolato.
Ci pondererà sopra più tardi.
Salutano il gruppo, separandosi. Appesa una trave sporgente da un lato del duomo, su, nella parte alta della città, dietro il palazzo degli Scifi, qualcuno ha montato un'altalena, molto raffazzonata e basilare. Un'asse di legno allacciata a due corde. Piccardo non sa dire da quanto sia lì. Forse esisteva già quando lo zio, il papà e Sorella Chiara erano piccoli. Si saranno dondolati anche loro, sognando di poter sfiorare il cielo, scrostarne un frammento e ficcarselo in tasca?
Giovannetto vuole volare, comunica allo zio Francesco, e gli ordina di impiegare tutte le sue forze, perché vuole saltare nell'aria. Se saltasse nell'aria e si sfracellasse da qualche parte a volte... pensieri cattivi. Piccardo non lo pensa veramente.
Giovannetto è un tormentone, ma gli vuole bene. A suo modo.
Sgambettando allegro, serrato alle corde, il suo fratellino sprona lo zio a spingere con più solerzia, più forte, più veloce.
«Spiggi zio Cesco! Spiggi!» Spingi sarebbe corretto e rimarchevole, se vuole imparare a masticare bene le parole. Quelle di Giovannetto sono trucioli, parole troncate. I preti inorridirebbero. «Voglio sfondare il cielo!»
«La torre di Babele progettava lo stesso e fallì Giovannetto!» ansima lo zio, imperlato di sudore. Piccardo è tentato dall'imporgli di fermarsi. E se stesse male ancora?
«Io sono io, non una todde!»
Modesto suo fratello.
«Creeresti un cratere!»
«No, poi lo richiuderei!»
Rimarginare una ferita celeste? Il cielo va a piani, a gradi, come gli strati d'una torta. A che velocità vuole schizzare Giovannetto per arrivare al cospetto del Creatore?
«Zio tu sei un muratore!» rammenta suo fratello, il cespo biondiccio dei riccioli che oscilla, seguendo il suo andamento, sbattendogli sulla fronte al ritorno. «Mi pottesti aiutare! Ripareremmo insieme la falla!»
La intavola semplice lui.
«Ma non restauro chiese da una vita nipotino!»
Sta sbiancando. Piccardo non lo guarderà subire un tracollo. Si apposta al suo fianco, cogliendo al volo la corda dell'altalena. Quella sbanda, ondeggia, Giovannetto si lagna. Il legno rallenta la sua corsa, frenandosi.
«Ehi!» Suo fratello è indignato.
«Andiamo alla Porziuncola!»
Deve sviare senza piantare semi di dubbio in Giovannetto, altrimenti strepiterebbe a tutti che lo zio si sente poco bene.
La Porziuncola è un piacere unico, la casa degli amici dello zio e dei loro amici. Giovannetto impazzisce per i compagni dello zio. Frate Bernardo e Frate Leone, Rufino, Egidio, Ginepro, Pietro Cattani, Silvestro, Elia, Masseo, Angelo e Filippo Longo. E tanti altri. Simpatici e amichevoli. S'inventano sempre un modo per spassarsela. Accompagnare i fraticelli nei dintorni, pregare insieme a loro, cucinare con Frate Ginepro, spaccare la legna, affastellarla, stracciare i bendaggi per i lebbrosi e giocare a nascondino nella selva con i loro coetanei meno abbienti che vivono nelle topaie in riva al fiume. Raccogliere le ciliegie per portarle a Sorella Chiara e alle Povere Dame di San Damiano che ne sono golose.
«Sì!» La stizza per l'altalena è tramontata. «Alla Porziuncola!» Riprende a tirare come un disperato la manica dello zio. «Forza zio! Forza! Addiamo!»
Ridacchiando, conquistato dalla loro energia, dalla loro prorompente, rosea vitalità, Francesco si lascia trascinare, affrettandosi con loro sull'acciottolato.
«Vengo!»
A corse, saltelli e soste ruzzolano felici giù dal declivio, dove la collina s'appiattisce in campagna e le tende, le capanne e i ripari s'indovinano tra i bagliori argentini dell'uliveto. Cinquemila persone. Piccardo non credeva si potesse toccare un picco simile. Quanti ha accalapiato con la rete della sua predicazione lo zio?
Dai bivacchi s'arricciano colonne di fumo, lumignoli trapungono il rabberciato quadro di teli, tendaggi e carri. La chiesina naufraga in questo mare burrascoso. Il fragore d'onde umane, di voci, un assaltarsi di voci e suoni, rimbombante, violentante la pace di cinguettii e fievoli aliti di brezza tra le spighe e i papaveri.
Gente d'ogni nazionalità - radici francesi e spagnole, portoghesi e alemanne e di chissà dove, dagli estremi capi dei territori cristiani - s'industria a ordinare il suo giaciglio, si genuflette a pregare, dibatte in conciliaboli intorno alle braci incenerite d'un fuoco, ramazza, traffica con le provviste. Un mosaico di lingue e culture e fisionomie. I biondi del Nord e gli olivastri del Sud, i diafani delle corti francesi, i denti prominenti dell'isola di Britannia, gli scuri delle frontiere con l'Impero Orientale.
Folle oceaniche assiepate solo per ascoltare lo zio. Ma dallo zio traspare l'insegnamento di Gesù. Quindi ne deriva che siano qui per ascoltare Gesù che incanala il suo messaggio servendosi dello zio.
Giusto?
Ma Gesù sfogliava libri dalle copertine ricercate come quei frati là in fondo? O si sfamava con un fagiano arrostito tipo quei due all'ombra del faggio? E portava calzari trinati e foderati di velluto rosso come i due neofiti che s'infervorano in una diatriba teologica su un dogma incomprensibile e pomposo sotto un graticcio di rami?
Si concilia poco, molto poco, con lo stile di vita condotto dallo zio e dai suoi amici. Piccardo afferra perché Francesco schivasse quanto più possibile gli incontri e gli appuntamenti con questa massa assetata di strutture, schemi, volente imbrigliare l'umiltà dettata dal Vangelo dentro rigori e murature compatte, dentro regole.
Povero zio, quanto deve farlo soffrire contemplare a una povertà rilassata, languida, Madonna Povertà schernita una seconda volta!
Il suo sguardo bigio vaga, velato. Piccardo gli prende la mano, un silente conforto. Anche Giovannetto percepisce quanto lo zio Francesco sia demoralizzato da quest'affluenza in torto a Madonna Povertà e infila la manina nella stretta.
Inspirando amareggiato, lo zio ripiomba a concentrarsi su di loro.
«Povertà travisata nipotini miei.»
«Sbagliano zio?» pigola flebile Piccardo, intimorito dalla moltitudine.
A voler definire e incasellare e la Curia a volersi appropriare di questo accattivante, succoso nuovo frutto?
«Non sono nessuno io per dichiararlo Piccardo.» mormora scoraggiato.
Oh. Va bene. È umiltà. Ma nessuno si accorge quanto tutto questo rinnovamento, uno smalto lucente, rattristi lo zio? Una secca sferzata, alternata, attira Piccardo altrove.
Due frati, sotto un tetto di frasche storto, puniscono le loro carni frustandosi con un groviglio di cordicelle che si diramano in tentacoli terminanti in denti di metallo, acuminati, penetranti nella schiena, mordenti con segni insanguinati. La fustigazione. Piccardo conosce la bacchettata sulle mani a scuola, le cinghiate e manate arrossanti il culetto, i castighi nell'angolo.
Questa... questa che è? I frati dovrebbero gioire, cantare le lodi del Signore. Perché questi si lamentano e gemono e salmodiano avviliti?
«Zio?» Gli tira il saio, indicando la strana coppia. «Che fanno quelli?»
Zio Francesco è spiazzato. «Signore no! La flagellazione no!»
Sfreccia dai due, strappando di mano a uno un frustino uncinato. La tonaca del penitente è lacerata, la pelle uno strazio di rivoli e piaghe.
«Ridammi il mio flagello!» brontola il derubato.
Ma lo sa quello a chi si sta rivolgendo? Ha riconosciuto lo zio?
Forse non l'ha mai visto prima.
«Perché mortificate in maniera così svilente i vostri corpi?» Lo zio getta lo strumento di penitenza a terra come se scottasse. «Come farete a lodare Iddio, ammirare il cielo, gli uccelli e sentire il calore della terra quando siete inginocchiati a infliggervi supplizi? A... a fornire aiuto ai poveri? Con quali forze se vi massacrate?»
L'altro lo fissa storto, come se stesse delirando. «Ma di che stai parlando? Sto espiando i miei peccati! Lui.» Tira in ballo il suo amico. «Digiuna da due giorni.»
Anche lo zio digiuna e pure Sorella Chiara, ma non impongono quel muso mogio!
«E devi rattristartene? Declamarlo quale questo immenso sacrificio?» Francesco sembra un sano capitato in un manicomio. «Tanta gente patisce la fame per giorni, tanti fratelli e sorelle si trascinano senza addentare un boccone. Dovresti provare contentezza nel digiunare perché assimili le tue sofferenze alle loro! Sei un uomo tra gli uomini, un povero tra i poveri! Non-»
«Ma ti senti?» ghigna il compagno flagellante. «Che farnetichi?»
«È una qualche branca teologica la tua?» Il penitente aspetta che gli sia restituito il suo flagello, corrucciato.
«B-Branca teologica?» Lo zio barcolla, Piccardo gli stringe tenace la mano.
«Sì, l'hai studiata? Dove?»
Lo zio non sa che pesci pigliare. I membri del suo stesso Ordine gli sono estranei. Lontani. Sbarrati in boria e tracotanza e una concezione tetra, raggellante.
Vecchia.
Ma loro non lo capiscono.
«L-La teologia dell'Amore!»
«Senti.» Il flagellante è ai ferri corti della pazienza. «Se hai finito di appioppiarmi assiomi infantili ridammi il mio flagello, prendi i tuoi mocciosi e vattene. Non è opportuno che dei bambini stiano tra i piedi a tediarci nelle nostre pratiche.»
Lasciate che i bambini vengano a me! Mai sentito? Lo zio eguaglia la sfumatura del latte cagliato quando escono all'aperto, nel cuore del subbuglio. I penitenti riprendono a sferragliare dentate e vibrarsi colpi. Francesco s'aggrappa alle spalle dei nipoti. Alle frustate serra gli occhi, quasi ambisse a cancellarle dalla memoria.
Piccardo non sa cosa accampare per consolarlo. Giovannetto nemmeno. L'allegrezza svampita del suo fratellino è spenta, comprende il malessere dello zio.
«Zio Cesco?» borboglia discreto.
Con un sospiro disperde tutto, sfregandosi le palpebre arrossate e sorridendo al nipotino. «Cosa c'è Giovannetto?»
«Andiamo a vedere le campanelle?»
La teoria di campanelle squillanti sopra un'arcata di rami collocata sull'altare. Alla Porziuncola. Sono un balsamo, suonarle è divertentissimo.
«Certo Giovannetto, certo.» asseconda lo zio e li pone in guardia di stare accozzati a lui, tenerlo per mano. Corrono il rischio di smarrirsi in questo dedalo.
I cavalli in paramenti raffinati e una portantina deposta dinanzi alla chiesetta testimoniano la venuta del Cardinale Ugolino, vescovo di Ostia, tutelare dell'Ordine. Uno che s'intromette, sa Piccardo. Che c'è venuto a fare qua? Il vescovo Guido scendeva a incontrarlo e omaggiarlo? E ci saranno anche Frate Elia e i suoi leccapiedi, a cui lo zio ha affidato le responsabilità di quest'Ordine esigente?
Aspetteranno lo zio?
Sono dentro, spiccando i piedi sollevati quando Francesco e nipoti entrano. I due prelati, imponenti e infagottati nei loro orpelli, farfugliano tra di loro lieti. Elia, Frate Cesario e altri nuovi maggiorenti dell'Ordine, vengono incontro allo zio, grati della sua venuta.
Francesco prosegue imperterrito fino all'altare, manco fossero invisibili.
«Vuoi scuotere i campanellini Giovannetto?»
«Sì!»
«Francesco.» l'apostrofa Elia. «Disperavamo del tuo ritardo. Ci sono importanti questioni che riguardano-»
Lo zio solleva Giovannetto in braccio, sporgendolo sopra l'altare. I campanelli tintinnano, le risate di suo fratello pure.
«Il canto della Madonna!»
«Puro e cristallino.» concorda lo zio Francesco, continuando a ignorare le rimostranze e i brontolii alle sue spalle.
«Francesco, noi avremmo delle urgenti... » Il vescovo Guido batte il tempo, la manona guantata sul ginocchio indorato. «Ma ci senti figliolo?»
Ugolino manifesta altrettanto spaesamento. «Sta bene?»
«E io che ne so!»
«Che preghierina recitiamo a Nostra Signora bambini?» Sbaciucchia il lobo di Giovannetto, indifferente agli adulti livorosi. «Quale?»
Piccardo l'ha imparata a memoria!
«Salve, Regina, Madre di misericordia. Vita, dolcezza e speranza nostra, salve.» sciorina in sintonia con il fratellino, mani giunte. «A te ricorriamo, esuli figli di Eva. A te sospiriamo, gementi e piangenti in questa valle di lacrime. Orsù dunque, avvocata nostra, rivolgi a noi gli occhi tuoi misericordiosi e mostraci, dopo questo esilio, Gesù, il frutto benedetto del Tuo seno.» Si conclude con la parte più bella. Una filastrocca alla mamma celeste! «O clemente, o pia, o dolce Vergine Maria!»
È la Madonna che salva peccatori dalle fiamme! Mica i flagellanti livorosi e smunti!
«Francesco!» esplode Elia in un sibilo gelido. «Non stiamo cincischiando!»
«La Madonna ci avrà sentiti zio?» Se lo zio li ignora può concedersi il lusso d'imitarlo.
«Lei sente tutto e sbroglia le matasse dei nostri intoppi.»
Dopotutto è intermediaria, avvocata dell'uomo. Piccardo ha fede nella Madonna, sfavillante di bagliori dorati e servita da stuoli d'angeli.
«Francesco!» Il Cardinale Ugolino alza la voce, roboante. Lo zio rotea gli occhi, sfregandoseli, le spalle cascanti e una smorfia piccata, stufata. Accertato d'aver agganciato con il fraticello, Ugolino modera l'acredine. «Diletto figliolo, abbiamo percorso miglia e miglia, cammini impervi e salite scoscese, per ritrovarci qui oggi. Avresti la gentilezza di conferire con noi almeno per un pochettino?»
«Tutto quello che dovevo dire.» Riaccende il mozzicone di lampada spento, una pozza d'olio nella ciotolina in terracotta. «L'ho già abbondantemente detto.»
«Demolendo una casa per poco!» Elia infierisce inviperito oggi.
L'eloquenza del gesto. Piccardo non ci intravede nulla di molesto.
«La mia opinione l'ho espressa.» Lo zio non si gira, steccato. «E la esprimono anche coloro che là fuori hanno tramutato il regno della Povertà in un covo di letterati, dotti, filosofi, sapienti e flagellanti!»
Una staffilata cocente. Lo zio si sta agitando. Non succede mai.
Apparte, vabbè, con la casa.
«Confluiscono dei nuovi.» espone Ugolino pacato. «È normale.»
Francesco si agguanta all'altare, le nocche sbiancano. «Noi non abbiamo intrapreso questa via...» Piccardo lo abbraccia, seguito da Giovannetto. Lo zio non deve arrabbiarsi! «La povertà...»
«Tratteremo questo e altri punti salienti se avrai la buona grazia di trattenerti a disquisirne con noi e i tuoi fratelli.» lo interrompe Ugolino.
«Cos'altro c'è da trattare oltre il Vangelo?» sbotta lo zio, ormai al limite. Stanno infierendo su qualcosa a lui d'inestimabile! «Non si negozia sulle parole di Cristo, anzi risuonano chiare e limpide! Di non portare nulla! Non possedere un accidenti!»
L'ha detto e ridetto, sottolineato, ribadito, esortato, ma qualche diavolaccio deve assordare i nuovi confratelli. Povertà e umiltà, la bassezza dell'ultimo, fedeli alle norme impartite nell'Evangelo. Hanno adottato la povertà che affratella l'uomo al Creato, lo riabbassa a creatura, granello, una pennellata dispersa nell'affresco ineffabile del piano divino. Per questo si è ritirato, facendo un passo indietro e mollando la dirigenza ufficiosa dell'Ordine, consegnandolo all'esperto, giurista e dotto Pietro Cattani, vicino dai primi, acerbi tempi.
La retrocessione dello zio, però, ha saputo Piccardo, viene letta da molti, i più vanesi e pignoli, alteri nei loro titoli di studio, come un rifiuto a fornire all'Ordine la Regola - i chiarimenti, la direzione - di cui ha disperatamente bisogno.
No, lo zio Francesco si è ritratto nell'ombra cosicché al Vangelo sia lasciato il brillante ruolo preminente che gli spetta. La direzione. La via.
Sono tutti così orbi da non individuarla? Il Vangelo, lì, lampante!
I grandi s'aggrovigliano in matasse da loro stessi prodotte.
Francesco si strizza gli occhi, aguzzando l'iride arrossata nello sforzo di centrare a fuoco i volti fluttuanti dei nipoti quando li riapre. Si china all'altezza di Piccardo e suo fratello, distendendo le labbra in un sorriso.
«Giovannetto, Piccardo, devo discutere per un attimo con questi signori. Intanto che ne dite d'andare a giocare sotto il faggio qua fuori? Lo fareste per me?»
Piccardo annuisce diligente. Ottempererebbe qualsiasi comando dello zio.
Giovannetto rende noto il suo parere. «Cetto zio Cesco!»
Prende il fratellino per mano, liberando il campo delle discussioni importanti degli adulti. L'avviso dello zio si leva alle loro spalle.
«E restate dopo sono sicuro di trovarvi! Non allontanatevi!»
In un raspare di suole Piccardo e Giovannetto corrono al faggio, il tronco rugoso e striato dai sentieri delle formiche. Scie nere trasportanti bricioline e pollini. Giovannetto, eccitato, comincia a gironzolare intorno alle radici contorte, le calpesta, finge che siano strisce di terra su un lago di lava.
«Sono un saracino sull'Etna! Entro nella fucina dei diaboli!»
«Diavoli Giovannetto...» Se lo ficcherà mai in quella zucca?
«Adesso li cuocio tutti nella fornace e preparo uno stufato di peccatori!» Un sasso diventa suo stilo con cui scarabocchiare nella polvere. Un cerchio per il pentolone, dotato di due manici sproporzionati, all'interno omini stilizzati e piangenti. «Però poi arriva l'angelo buono e li sadda tutti! Perché Dio è buono come dice lo zio!»
Che inventiva... è divertente leggere delle torture più astruse negli inferi, che fanno avvicinare l'Eterna Dannazione a una cucina.
«Una ranocchia!» trilla suo fratello estasiato. «Guadda Piccardo!»
Il cisposo, pingue anfibio gonfia il gozzo, emettendo un sonoro gracidio. Scappa via saltellando appena Giovannetto gli corre dietro.
Dove sta andando? Lo zio ha espressamente detto di rimanere qui!
«Ranocchietta torna qui!» piagnucola Giovannetto, inseguendo il visitatore dallo stagno e dai canneti. Si fionda nel marasma di tende e fuochi. Non lì! Piccardo lo perderà di vista di sicuro! «Ranocchietta!»
«Giovannetto torna indietro!»
Suo fratello è un ciuffo di riccioli biondi e spettinati che si muove, sguscia, salta, scansa e raggira una fiumana umana di sai, corde e mille idiomi diversi. Piccardo cerca di non perderlo mai. Ma non sta fermo? Non si stanca! Appena lo prende gliene rifila tante di percosse, ma tante! S'inoltra a gomitate e timidi permessi tra i frati e i tendaggi, inseguendo quel disgraziato che gli è capitato come parente.
«Lo zio Francesco non vuole che ci allontaniamo!» gli urla dietro. «Si arrabbierà!»
«Ranocchiettaaa!»
La conferma che sia scemo è arrivata. E sordo!
Giovannetto s'arresta finalmente, urtando contro qualcuno, cascando.
Piccardo freme dall'impulso di schiaffeggiarlo. Bene, pure una figuraccia devono sorbirsi ora! E tutto per colpa di questo scalcagnato e della sua ranocchia!
Si sbriga a riparare al danno, finché è in tempo, agguantando Giovannetto da terra per il gomito. «Mi dispiace signore, mio fratello non badava a-»
Questo frate è un gigante.
Piccardo alza gli occhi meravigliato, il volto del colosso in controluce, un'aureola di sole a lambirgli la tonsura castana. È tonsurato, lo zio invece no. Novità dell'Ordine? Fatto sta che è... enorme. Non ha mai conosciuto qualcuno di tanto grosso, altissimo, ben piazzato e, quando si curva a controllare di non aver arrecato danno, dal suo viso, abbronzato, lineamenti fini e regolari, traspaiono bontà e perspicacia.
«State bene piccoli?» L'inflessione del suo italiano lo connota subito come straniero, ma lo padroneggia con maestria. Solleva, tra le sue manone, Giovannetto, spazzandogli il pulviscolo dai vestiti. Suo fratello lo squadra ammirato. «State tranquilli, non è successo niente di grave.»
«Sei un gigante!» esclama d'impeto Giovannetto, la ranocchia un lontano ricordo.
Eccolo che guasta l'atmosfera.
Il frate misterioso ride. «No, sono Antonio.»
«Antonio?» fa eco Piccardo. Nome diffuso. È felice che, almeno lui, non li scacci come seccature agli esercizi spirituali. Un grande assennato. «Di dove?»
«Vengo da Lisbona, in Portogallo.» Ah sì, lo spicchio al confine con la Spagna.
«E sei qui anche tu per le riforme? Vuoi contestare lo zio?» Che ne ha già a palate di gatte da pelare, non lo lasciano mai in pace! Piccardo è pronto a proteggerlo.
«Sono qui per incontrarlo.» illustra calmo Antonio. «È grazie alla forza del suo esempio, che mi ha raggiunto e illuminato, che oggi m'inerpico su questa strada. Prima non ero frate sapete? Non ero neanche Antonio.»
DI lingua è pratico, svelto. Inanella le parole con scioltezza, come dovrebbero fare, secondo quanto Piccardo ha raggranellato, i più ferrati predicatori.
Potrebbe starci bene su un pulpito, a spiegare la Parola, quest'Antonio portoghese.
«E chi eri prima?» Giovannetto inclina il capo, riccioli spioventi.
«Fernando, erede d'una benestante famiglia.»
«E dove punti d'andare?» Piccardo è incuriosito. La storia di questo frate trapiantato in Italia dalle sponde portoghesi - dove il mare mugghia e beccheggia in ventagli inclementi di schiuma e salsedine - l'avvince con fascino.
«Dovunque il Signore e Francesco giudicheranno opportuno mandarmi.» spiega il nuovo amico. «Padova magari, m'intriga.»
«Dove sta Padova?» lo tempesta di domande Giovannetto. «Vicino all'Islanda?»
L'Islanda è un'isola nel freddo e remoto Nord, funestata da ghiacci naviganti nel mare imbufalito e butterata da vulcani eruttanti schizzi di lava incandescente dove pongono i loro antri i draghi nemici degli elefanti. Si è convertita alla Vera Fede relativamente da meno d'un secolo e mezzo. Chissà, congettura Piccardo, magari il Prete Gianni si nasconde lì con i suoi tesori.
«No.» Antonio ride di gusto alla geografia balorda di suo fratello. «Si trova vicino a Venezia, in alto, nelle latitudini settentrionali della penisola.»
«Secondo me è comunque vicino a Padova l'Islanda! È molto lontana l'Islanda!»
Grazie dell'ovvietà.
«Avete chiamato Francesco zio.» Il loro nuovo amico si dimostra un acuto osservatore. «Devo dedurre che siate imparentati.»
«Siamo i figli di suo fratello.» chiarisce Piccardo, determinato a preservare il papà dal dimenticatoio in cui spesso sono condannati i famigliari d'una persona celebre. «Suoi nipoti. Oggi papà non c'è, perciò si occupa lui di noi! Ma adesso ci aveva chiesto di restarcene sotto il faggio fuori dalla Porziuncola e ci saremmo rimasti se non fosse stato per una qualche peste...» Scocca a Giovannetto uno sguardo irato.
Pestifero dei suoi calzari!
«Sono venuto per Francesco e m'imbatto nei suoi nipoti, guarda un po'.» Antonio arruffa loro i capelli. «Non temete, vi riporterò io al vostro luogo dei giochi. Non sia mai che si dica che vostro zio vi ha trascurato!»
Adombrato dalla frastagliata ombra dell'immenso faggio, un cappello di foglie e vento, Antonio sosta con loro a giocare. Piccardo trova simpatico questo frate gentile, pacifico, la cui vasta erudizione non trapela di primo impatto. Si stupisce che nessuno lo conosca al Capitolo. È venuto solo con un manipolo di amici e via, affidati alla volontà del Signore. Sa penetrare nei particolari più sottili, sondare campi del sapere con estrema facilità e te li espone basilarmente, terra terra, non presuppone che, per comprenderli, tu debba aver studiato o possedere un qualche titolo di laurea.
Antonio rende comprensibile anche il più arcano passo del Vangelo. Arcano agli occhi d'un uomo medio del volgo, illetterato o con un'infarinatura minima d'istruzione. Parla benissimo, con eloquenza, ma senza scadere nell'ampolloso, con trasporto, ma senza mai annoiare. È un vero oratore, come quelli pagani.
Quando Piccardo gli racconta dei flagellanti scontrosi con lo zio, colpevoli di non averlo riconosciuto oltre che d'essersi mostrati sgarbati fuori da ogni logica, la luminosità s'oscura sull'espressione di Antonio.
Piccardo teme d'averlo scosso.
«Sei triste?»
«Per tuo zio, il suo trattamento. Ha reagito da vero cavaliere di Cristo, applicando la Perfetta Letizia.» Subire bastonate e insulti e sberleffi e pensare alle sofferenze di Gesù inchiodato in croce. «Ma la rotta verso cui certi stanno virando...»
«Non ti piace?»
«Agiscono come gli scarabei. Hai presente uno scarabeo no?»
Sì. Lucido e operoso, ronzante con il suo nasone a uncino.
«Lo scarabeo raccoglie il suo sterco, lo appallottola.» Come l'ostrica raccoglie il filamento di sole e lo appallottola nel suo palato rivestito in madreperla, mescolandolo con la propria pipì, «Ma, all'improvviso passa un cavallo.»
«Cavallo!» s'infervora Giovannetto, nitrente e galoppante tra le radici su un destriero immaginario. «Trotta, trotta, trotta!»
«Il suo zoccolo spiaccica lo scarabeo e la sua palla di sterco.» continua Antonio.
«Tutto il lavoro dello scarabeo è andato sprecato!» Piccardo s'impietosisce per la sua triste sorte. «Povero! Povera la sua palla!»
«No, non era affatto povero.» gli insegna Antonio. «Cercava di farla passare per la rientranza della sua tana. L'uomo tenta di invaligiare la sua ricchezza e oltrepassare con lei l'angusto ingresso della morte, quando, a stento, riesce ad attraversarlo l'anima nuda. Lo sterco rimane sterco. I soldi soldi. Ambedue: superflui.»
I soldi sono la merda del diavolo, sostiene lo zio. È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio, recita il Vangelo.
La metafora di Antonio lo colpisce: ha ragione! È vero!
«Ma lo zio non può forzarli a cambiare, non vuole. Dice che un padre non impone.»
«Come Dio.»
Riposte le lezioni e le immagini, Antonio s'offre d'intrattenerli ancora un poco. Tanto, appunto, non lo conosce nessuno, uno tra i tanti. Se si recherà veramente dalle parti di Padova un giorno, ci rimugina sopra Piccardo, gli abitanti saranno fortunati! Ne ha incontrati pochi di predicatori, ma Antonio li sorpassa tutti.
Pensa che Gesù doveva esprimersi con questa colta, disarmante semplicità. Un ampio bagaglio, diluita la spiegazione. Non come i canonici e i preti e il loro latino aggrovigliato e altezzoso e incomprensibile!
Da un vecchio cordone il loro nuovo amico ne ricava due in miniatura, annodandoli intorno ai fianchi suoi e di Giovannetto. Il suo fratellino scalpita entusiasta.
«Adesso posso paddare con gli uccelli come lo zio Cesco!»
Parlando dello zio... Elia, Ugolino e gli altri dilemmi degli alti vertici avranno finito di salassargli la pazienza? Giovannetto non vuole ascoltar ragioni e schiamazza bizzoso perché Antonio li accompagni dallo zio, tirandolo per il braccio.
«Vieni anche tu!»
Sulla soglia della Porziuncola Piccardo poggia la fronte contro la pietra grezza e assorbente la luce, irradiante il calore del giorno. Un intenso aroma d'incenso trasuda dalle pareti nude, spoglie. La lanterna traballa nel suo contenitore sull'altare.
Il vescovo Guido, il cardinale Ugolino, Elia e gli altri se ne sono andati. Al loro posto, ascoltatore dello zio, placido come l'acqua morente in uno stagno, siede in terra un uomo in un saio bianco, ammantato d'una cappa nera. Rossiccio di tonsura e barba, un poco di grigiore incipiente, al primo colpo gli viene da dichiararlo più maturo dello zio Francesco, che invece gli marcia davanti, in tondo, sfogandosi impetuoso quanto uno schizzo d'acqua che s'infrange sulla roccia.
È pallido, l'uomo misterioso, ombre livide di stanchezza gli scavano i tratti. Lo darebbe quasi malato. Assente, ogni tanto, al rumoreggiare liberatorio di Francesco, le dita intrecciate, ascoltando in silenzio.
«Non capiscono! Non so più in che lingua spiegarmi! Gli uccelli sono più disponibili all'ascolto che loro! Erudizione e scuole, salmi, latino, case! Case ti rendi conto?! Ci siamo votati alla povertà, povertà di corpo e di spirito! Il Vangelo ci chiama a non possedere nulla, a sgravarci dagli affanni generati dalla proprietà che è il germe di tutti i mali! Dell'avarizia, del consumo, della gelosia... invece, invece si ostinano a non vedere, disdegnano la povertà! Come possono aiutare l'uomo se non studiano l'uomo? Il libro dell'umanità, non manuali e volumi!» Torcendosi le mani, lo zio cammina avanti e indietro. «Casti come angeli, umili come rondini, allegri come fringuelli, umili come asinelli, appagati come allodole, puri come colombelle. Questo! Questo dobbiamo essere! La Regola è scritta direttamente da Nostro Signore, stabilita nel Vangelo! Cosa vogliono da me?»
«Una via.» L'accento dell'uomo appesantisce il suo italiano, roco, sibilante. Non è originario dello Stivale. «In termini umani.»
«La fornisce direttamente Dio in persona! Il Vangelo Domenico!»
Domenico. Porta nome Domenico. E indossa un contrasto di bianco e nero... balza alla memoria improvviso, travolgendo Piccardo. Sarà quel Domenico proveniente dalla spagnola - famiglia o località Piccardo ancora non l'ha ben compreso - Gúzman, fondatore anche lui d'un movimento ispirato alla povertà e che si contraddistingue per questa stessa uniforme?
Circolano voci, piovono dicerie. Gli sarebbe apparsa Nostra Signore, incaricandogli di diffondere la devozione a una corona di grani. Il Rosario. Alcuni lo osannano già come santo. Domenico di Gúzman.
Lo zio lo conosce?
«Zio!» Giovannetto, in barba all'intimità, si lancia dentro, esibendo il suo ultimo accessorio. «Guadda! Siamo frati come te!»
Di suo malgrado, Piccardo è costretto ad appressarsi al fratello.
L'ansia scivola via dallo zio appena li scorge, traendo un festoso Giovannetto in braccio, omaggiando lui e Piccardo d'un sorriso e posando lo sguardo su Antonio, che timidamente s'azzarda a entrare, la testa a filo contro l'arcata dell'ingresso. La sproporzione tra i due, Antonio e Francesco, risalta prepotentemente. Tanto piccolo e mingherlino, gracile sotto certi aspetti, è l'umbro, quanto enorme, mastodontico, un armadio a due ante dal cuore tenero e dolce, spicca il portoghese.
«Avete conosciuto Frate Antonio vedo.» nota lo zio, spupazzando Giovannetto, spremendogli una pernacchia sulla guancia rubizza. «Me ne compiaccio.»
Antonio non lo conoscerà nessuno, ma lo zio sì. Quando si dice pochi, ma buoni!
«Sa tantissime cose!» lo pone al corrente Piccardo. «È dotto, ma non si vanta. Come Pietro Cattani.» E diversamente dalla superbia di Frate Elia.
«Lo spirito della santa orazione arde in te Antonio.» Francesco lo guarda dal basso all'alto, appuntando il gigante con arpioni di nebbia. «Vedi? Persino i miei nipoti se rendono conto. Dio ti ha benedetto con un grande dono.»
Colore accende le gote dell'altro. «Va a lui il merito Francesco.»
«Mente acuta e lingua svelta.» Domenico s'erge in piedi, barcollando, un debole mugolio. «Talenti preziosi, ma ti consiglio d'addomesticare bene la parola. Un dono va coltivato se vogliamo che produca frutto.»
«Certamente Domenico.»
Francesco, Antonio e Domenico. Un mazzolino di santi, ma questo Piccardo lo apprenderà tra decenni. Le aureole non dipartono ancora dai loro capi, raggianti sfolgorii di predilezione divina.
La fortuna che bacia lui e Giovannetto, in questo momento, al confronto tra tre spettacolari giocatori di Dio davanti a loro, la capiranno solo tra molto.
Davvero molto tempo.
Lo spagnolo si copre la bocca, vittima della tosse. La sua salute deve vegetare in uno stato malsano. Gli dispiace per Domenico.
«Riponi la tua fiducia nel Signore Francesco.» ragguaglia il più giovane con il piglio d'un maestro all'allievo. «Egli laverà i tuoi dubbi, ordinerà secondo il suo volere.» Gli batte una mano sulla spalla, sollecito nonostante la brutta cera. «È stato un piacere essere tuo ospite. Pregherò perché la tua strada sia sgombra dai pericoli.»
«Ci lasci di già?»
«Devo procedere verso Roma.»
Una frase stemperante il dispiacere del commiato. «Prima benedicimi Domenico, te ne prego. Non invoco niente di più da un uomo della tua santa caratura.»
Lo zio s'inginocchia remissivo, ossequioso, capo chino nell'attesa.
«Santo... io?» Colore scoppietta sull'infossato Domenico, rinato con la risata.
«Tra me e te corre un abisso.»
«Solo mare, golfi e catene montuose.» Non esita ad accontentare la richiesta di Francesco, apponendogli il palmo sopra il capo corvino. «Che il Signore ti benedica e ti custodisca, mandi i suoi angeli a vegliare sul tuo cammino. Che ti mostri misericordia e accresca il tuo amore per lui e i travagli di quest'umanità. Il Signore abbia pietà e ti conservi nella fede, nella speranza e nella carità.»
«Amen.» ridonda all'unisono, in una voce sola, intrisa di rispetto e fervore.
Domenico tira Francesco in piedi e in uno slancio lo serra nella morsa fraterna d'un abbraccio, lo scuro mantello che si confonde con le stinte toppe del saio, un frusciare di tessuti logori e vissuti.
Si sciolgono, mantenendo ininterrotto lo scambio visivo, sorridendosi vicendevolmente, simili a fratelli che stanno per imbarcarsi su sentieri diversi lungo la vita. Stringendosi vigorosamente le spalle, chiusi nei loro loquaci silenzi - quei silenzi intessuti di parole e sguardi che solo i santi riescono a decodificare - i due s'allontanano. Domenico, prima d'uscire, depone i suoi magnetici occhi e il suo cherubico sorriso su Antonio, il quale s'imporpora, arrangiando a sua volta un sorriso sghembo, imbarazzato dall'essere epicentro dell'attenzione d'un venerabile.
«Che il Signore sia munifico di benedizioni anche su di te, Frate Antonio.»
«Grazie Domenico.»
Il mantellato traccia il segno della croce sopra il molosso. Antonio piega la testa, accogliendo il benevolo gesto, la protezione divina.
Un nodo stringe la gola di Piccardo quando Domenico si focalizza su di lui e Giovannetto, elargendo un fugace sorrisetto, buffetti sotto il mento e carezze tra i capelli. Quest'uomo è un santo, avverte. Non gli rimane molto da scontare sulla terra, presto ascenderà da Nostro Signore. Santo e buono, l'ondata di bontà che promana dai suoi modi, dai suoi atteggiamenti, gli ruba il fiato.
Glielo sussurra ogni poro della pelle, ogni fibra dell'anima.
Sta interagendo con un santo sul ciglio del paradiso.
«Siate bravi e buoni fanciulli.» caldeggia loro, sollevando un dito.
«S-Sì signore...» Piccardo si conficca le unghie nel palmo, emozionato.
«Ci guadagneremo il cielo!» esclama giocondo Giovannetto.
«Ci conto. Il vostro zio potrebbe aprirvi una scorciatoia tra le nuvole un giorno!»
I grandi ridono. Piccardo s'acciglia. Era una battuta? O i santi facilizzano l'entrata nel Regno dei Cieli? Loro salgono diretti in paradiso, risparmiandosi la tappa obbligatoria tra le fiamme epuratrici del Purgatorio. Gli angeli comunicano loro la data fatidica e i santi si preparano, pregando, espiando e benedicendo in attesa del giorno lieto. Succede secondo questo schema, immutabile, nei racconti e nelle leggende di santi e sante, eroi e martiri della cristianità. Loro sanno il precluso, scostano la cortina nebulosa della realtà e conversano con spaccati di cielo, aulenti di gigli, abbaglianti di luce, impalpabili, eterei, frementi d'ali, orlati di gocce e perlacei di trasparenza.
Domenico avrà ricevuto un messaggio dall'alto? E lo zio? Lo zio è acclamato santo a furor popolare, dai devoti e pii d'Assisi e anche da chi devoto e pio lo è assai di rado. Sono protettivi, non più scherzosi o irritati, della presenza dello zio.
Se lo zio è un santo, come voce vuole, parlerà veramente con gli angeli.
Quando? Dove? In che lingua?
«Ti ringrazio Antonio per averli sorvegliati.» Domenico è andato, rimangono solo Francesco e il confratello portoghese. «Temevo che si sarebbero cacciati in qualche guaio o smarriti in quella selva là fuori.»
«Sono due bambini adorabili e beneducati, tuo fratello dovrebbe andarne fiero.»
Oh papà ne va fiero! Lo ripete sempre! Piccardo e Giovannetto consistono nella sua gioia e nel suo orgoglio. Uguale si potrebbe dire della mamma e della nonna.
E il nonno, probabilmente.
«Angelo non potrebbe aspirare a niente di meglio... e neanch'io.»
Piccardo lotta contro gli occhi che a momenti gli fuoriescono dalle orbite. L'ha detto veramente lo zio? Non potrebbe aspirare a niente di meglio. La dichiarazione d'affetto più bella della storia! Si lancia sullo zio, attorniandogli le gambe, inzuppandogli il saio di lacrime e moccio. Giovannetto non rimane escluso dall'abbraccio.
«E noi non potremmo aspirare a zio migliore!»
«Lo zio Cesco più bavvo e forte e divettente di tutti gli zii Ceschi!»
Reclinato al loro livello, lo zio sprofonda nell'abbraccio, il suo viso strusciante sopra le loro teste, placcandoli per le spalle.
«I miei nipotini... i nipotini che mi ha affidato Gesù...»
Tutto è in prestito, nulla ci appartiene. Giusto.
Vapori rossastri attenuano il tramonto, una foschia drappeggia l'orlo dei monti in lontananza. Francesco domanda loro se desiderano tornare a casa, dai nonni, per la cena e trascorrere la notte nei loro lettini.
Non sia mai! Quando ricapita l'occasione di cenare e dormire presso lo zio e i suoi amici? Condividere il pasto e stendersi sotto un tappeto di stelle, su una coltre d'erba e cantare intorno al fuoco? Esagitato dalla prospettiva, Giovannetto per miracolo non si rovescia la minestra - tozzi di carote bitorzolute e verdure tritate - sui piedi, saltellante anche in fila davanti al pentolone da cui Frate Ginepro serve il pasto.
Mangiano in pochi quanto da lui cucinato, scopre presto Piccardo.
Pochi in termini di frati. Loro quattro, Antonio compreso nel conto, Leone, Bernardo, Silvestro, Rufino, Egidio e il gruzzolo della prima ora, quei dodici, sottratto Elia, ch'è introvabile al calar violaceo della sera. Sarà appartato in compagnia d'Ugolino e sodali. Radunati in circolo intorno al guizzar delle fiamme, sono gli unici che ingollano il poco bene raccolto nell'elemosina.
Gli altri, novellini e viandanti, mangiano nei loro ripari, talmente numerosi che, a pensarci bene, si dovrebbe riproporre la moltiplicazione dei pani e dei pesci affinché li si possa sfamare tutti a mestolate di minestrone.
Lo zio usa le mani, suggendo dal bordo tenendolo la scodella a coppa. Scarseggiano le posate. Pazienza. Sembra originale il suo modo di sorbirsi la pappa.
Piccardo lo imita, Giovannetto imita Piccardo e si sbrodola sulla bocca in un alone gocciolante. Il maggiore roteerebbe gli occhi, la pazienza accorciata. Stasera, vuoi la vicinanza dello zio, vuoi il clima informale, esplode in fragorose risate.
«Sei tutto impataccato!»
«È buona la pappa!» Giovannetto deve, suo solito, annunciarlo al mondo. «Zio è buona!» Lo zio trangugia e annuisce. «Ginepro!» Schizza in piedi, rivolto all'artefice della delizia. «La pappa è buona!»
«Ne sono lusingato Giovannetto!» risponde Ginepro dal lato opposto del fuoco.
Spuntano le prime stelle, il giardino del firmamento rigoglioso e incantato. Un corteo di lucciole svolazza sopra i prati. Lucciole! Piccardo le adora. Suo fratello non s'incarta in sogni immobili, ma scapicolla nell'erba, inciampando e infangandosi i calzari, tendendo le manine grassottelle agli emissari delle sere d'estate.
«Lucciole! Sorelle Lucciole!»
Sorelle lucciole che danzano e turbinano, uno sciame luminoso, baluginante. A Giovannetto s'aggrega Piccardo e lo zio non si ritaglia dall'ebrezza della caccia. E vengono gli altri, Bernando e Leone, Rufino, Egidio e Masseo, Silvestro e il goffo Ginepro. Ridono e si rincorrono, urtandosi nel buio.
Alla cieca, come un cieco, un bendato dalla benda traforata. I fori sono le stelle e la luna uno squarcio nella tela notturna. S'appende frammentata, incuneata tra le nuvole, gravitante sopra Assisi. Piccardo si scontra, cade, si rialza e il riso gli fermenta nei polmoni, fili d'erba e fiori campestri gli s'impigliano nei capelli, fango e zolle gli s'incagliano sotto le suole, appiccicosi. Non crede d'aver mai riso così tanto! Ribolle nella pancia, risale e si riversa fuori dalla bocca. Gli dolgono le guance a furia di ridere. Che bello! Stare con lo zio è un'esperienza fantastica! Unica!
Non solo è santo, non solo è un giullare, ma pure un cantore provetto!
Arringando gli amici intorno al focolare, Francesco proclama che si esibirà in una canzone. Attacca il ritornello, una melodia familiare a Piccardo e Giovannetto.
Le rime ariose e zeppe d'amore e cavalleria della nonna.
«Amors de terra lonhdana, per vos totz lo cors mi dol! E no·n puesc trobar meizina, si non vau al sieu reclam, ab atraich d'amor doussana, dinz vergier o sotz cortina, ab desiderada companha.»
Amore di terra lontana, per voi soffre tutto il mio corpo, e non posso trovar medicina, se non accorro al suo richiamo, tanto mi attrae il dolce amore con la compagna desiderata dentro il giardino o dietro la cortina.
Francesco si munisce d'un ramo, raccattandolo a caso, e lo strofina contro un altro, bloccandoselo sulla spalla. Suonante un archetto invisibile, cavalcando le ali della sua voce limpida e intonata. Come canta bene lo zio! Piccardo riconosce il vezzoso timbro provenzale, l'eco dei canti di nonna Pica.
Battono le mani, lui e Giovannetto e i frati, tenendo il ritmo.
«Pois del tot m'en falh aizina, no·m meravilh s'ieu n'aflam: quar anc genser cristiana
non fo, ni Dieu non la vol, juzeva ni sarrazina. Ben es selh pagutz de mana. qui ren de s'amor gazanha!»
Ma poiché non ne ho mai l'occasione, che meraviglia se m'infiammo di passione? Mai è esistita donna cristiana, né, grazie a Dio, giudia o saracina, più bella di lei. Gusterà le gioie del paradiso chi otterrà un po' del suo amore!
A chi sta dedicando queste strofe lo zio? Quale donna spadroneggia sul suo cuore? Piccardo cova già la risposta: Madonna Povertà. S'affaccerà alla balaustra del paradiso, in questo momento, sedotta dal suo trovatore matto di lei, lei, la vedova, libera da qualsiasi marito geloso che, a questo punto, l'avrebbe già perduta.
Chiude gli occhi e, sul sipario rosato delle palpebre, si staglia un mondo scaturito dalle note dello zio. Cieli di cristallo, tralci dorati s'avviluppano ai rami, corolle di fiordalisi e papaveri sprigionano inebrianti profumi, i fiumi ingurgitano spuma e acqua, un rullio fresco. Uccellini cantano, il vento fischia, geme e spettina il verde folto degli alberi. Allodole e rondini e fringuelli in una cacofonia di cinguettii.
Solo lo zio può evocare tanta pura, incontaminata bellezza.
Solo un santo... deve verificare che parli con gli angeli!
«A nanna.» Boccheggiante, buttati i legni, Francesco sospinge Giovannetto e lui a sollevarsi. Sudore gli lucida la fronte. La preoccupazione s'insidia nuovamente dentro Piccardo. Tutto bene? «Coraggio, è tardi.»
Srotola una coperta pesante, dispiegandola, appiattendo il terreno da sassi e altre scomodità. Il loro letto. Loro. Suo e di Giovannetto. Appena stesi, Piccardo scopre che lo zio non si ritaglierà il medesimo lettino.
Dormirà sull'erba.
«Siete comodi?» Rimbocca la coperta, avvoltolandoli per bene.
A un cenno d'assenso, lo zio Francesco s'accuccia al loro fianco, Giovannetto pigiato tra lui e Piccardo.
«Tu non dormi con noi zio?» Il più piccolo sbadiglia, stropicciandosi gli occhioni azzurri. «Avrai feddo senza la copertina!»
«Il Signore mi ha sprimacciato un soffice cuscino d'erba e mi riscalda con la brezza della sera.» Tira su il cappuccio, nascondendo le mani nelle ampie maniche, allacciando i nipoti nella stretta. «Buonanotte nipoti cari.»
«Buonanotte zio.»
«Buonanotte zio Cesco!»
Giovannetto collassa seduta stante, il suo respiro un russare abbozzato, tenero. Piccardo stenta ad addormentarsi. Come può appurare che lo zio parli con gli angeli? Lo guarda, la chioma nera persa nelle tenebre, incappucciato, proteggente sia lui che suo fratello. Dorme. Non parla con gli angeli adesso.
Ma lo zio s'alza a recitare le preghiere, ricorda. Il papà - e questo caldeggia il sospetto di Piccardo sulla salute malmessa dello zio - si lamenta spesso, in privato, con la mamma, di quanto lo zio dovrebbe smetterla di macerarsi di digiuni e veglie. Non vede che si sta distruggendo? Il grido di Angelo.
Quale preghiera manca al completamento della liturgia delle Ore? La Compieta.
Lo zio s'alzerà a recitarla, come di consueto e, scivolandogli lo sguardo sul cordone intrecciato da Antonio per gioco, Piccardo escogita il suo piano.
Si sveglia nel buio che camuffa, lima e abbellisce. Un fascio d'argento lunare filtra tra le nuvole. Folate di frizzante aria notturna investono il volto di Piccardo.
Il nodo che aveva praticato, in segreto, tra il suo cordone e quello dello zio, approfittando del sonno di lui, è slegato. Lo zio se n'è accorto e l'ha sciolto. S'accusa di stupidità per essersi illuso che funzionasse. Logico che Francesco l'avrebbe notato! Però... eh però del suo illustre parente non c'è traccia, il suo lato vuoto.
S'è alzato a pregare.
Può ancora beccarlo a dialogare con gli angeli. Sorridendo furfantesco, Piccardo accantona di lato la coperta. I frati sono ammassi di tenebra, incappucciati, rannicchiati su stuoie e nuda terra. Nella tendopoli regna l'assoluto silenzio. Piccardo cerca di non infrangerlo con i suoi passi, muovendosi quatto nell'erba.
Dove può essersi ritirato in contemplazione lo zio? Nella Porziuncola? S'affaccia all'entrata e la lucerna magnifica di faville dorate la pala celebrante Nostra Signora, un mazzo di fiori di campo casca sbilenco sull'altare, onorante il crocifisso.
Non c'è nessuno. Allora nei dintorni? Può darsi.
Un vociare improvviso lo paralizza. Al principio fievole come un sussurro, ma, man mano che Piccardo lo segue, le vocine si tramutano in vocione, distinguendosi, melodiose e soavi, cristalline, in un baccano... un baccano strano. S'incalzano, le voci, ma non si spintonano o ammassano in un caos dove non si capisce che mezza parola. Seguono un ordine, queste voci, una loro sequenza e armonia. Parlano in contemporanea eppure non rincitrulliscono.
Che sono? Sono... umane?
Dal cespuglio di biancospino, tra le fronde, traspaiono strali luminosi, come se qualcuno avesse acceso una lanterna all'interno. È sicuro che lo zio si trovi qui. E se la luce fosse di natura angelica? Soprannaturale?
Ha formulato piani e fantasie, ma, ora che può sbirciare, la paura l'attanaglia. Potersi pregustare un assaggio di paradiso... chi ha l'arroganza di credersi? Un santo? Piccardo non ci si avvicina manco a pensarci seriamente. È contaminato dai peccati. Lo zio Francesco invece...
Al diavolo! Quando gli si ripresenta un momento simile?
Si sporge, le foglie titillanti le guance, e il respiro gli muore in gola.
La Vergine. Cristo Signore. San Giovanni Battista. L'Evangelista.
Nuotanti in un cerchio fiammante di luce, una luce chiara e morbida, che non ferisce la vista. Vestiti di luce, ricoperti, scintille che sprizzano dai loro corpi, stilla dalle loro vesti. Fattezze cesellate e perfette, modellate dal paradiso, che nessun artista mortale sarebbe in grado di riprodurre identiche su carta.
Nella loro mandorla fiammante discutono con lo zio, inginocchiato a terra, cristallizzato nell'estasi, schegge di luce che si riflettono nelle sue pupille.
Piccardo è... è... povero di parole per descrivere un evento... gli tremano le gambe, il terreno sembra vorticare, volersi spaccare per inghiottirlo, il fiato accellera.
Sviene come tramortito, il buio lo seppellisce.
Quando riapre gli occhi e la foschia si dirada, qualcuno lo sta trasportando in braccio.
Lo zio Francesco.
La testa gli pulsa, martellata da un'incudine invisibile. I ricordi risaltano subito nitidi, scioccanti. Ultraterreni.
«Zio...»
«Se volevi alzarti dovevi dirmelo Piccardo.» lo rimprovera bonario. «Ti avrei assistito.»
Assistere? Ma se... lui... prima... quello-Ah! Perché finge?! Era lui il protagonista di quell'evento irripetibile! Oppure si verifica con puntualità?
«Lasciare Giovannetto incustodito è pericoloso e irresponsabile.» riprende Francesco. «Ma ringraziamo il cielo che non dorme solo.»
Ma cosa svia a fare? «Zio, io ti ho visto! Parlavi con Gesù e la Madonna e-»
Francesco, repentino, gli tappa la bocca, rinchiudendo il suo impeto. Getta occhiate tutt'intorno, assicurandosi che nessuno abbia udito.
«Puoi custodire un altro segreto? Per me?» Uno secondo segreto, ovverosia che lo zio percorre un ponte tra terra e cielo. Sgrana gli occhi, implorante, un contorno di rossore irritato. «Mi fido della tua discrezione Piccardo.»
Si fida di lui. Mai Piccardo si è sentito insignito, oggi, di tanta autorità da grande. Rizza il collo, assumendo una posa dignitosa.
«Non lo dirò a nessuno finché vivrai zio, hai la mia parola.»
Ha assunto un impegno, non lo dismetterà finché non sorgeranno i tempi in cui dismetterlo. Francesco s'addolcisce, l'accarezza sui boccoli castani, gaudenti di riflessi. Piccardo gli si butta intorno al collo, ritraendosi spaventato.
«Zio... tu scotti.»
«Sono infuocato d'amore divino nipotino!» la declina sul ridere, scopiazzandogli l'incavo del collo in una pernacchia, generando gorgoglianti risatine.
Più che altro infuocato di febbre, ma non gli pare opportuno osservarlo ora.
Si limita ad alleviare le pene dello zio con quel poco di cui dispone il suo repertorio di bambino: spiccando due baci sulle palpebre gonfie, infettate dal male che lo porta a sfregarsi e stropicciarsi in continuazione.
«La mamma sostiene che non ci sia nulla che il bacio della bua non possa guarire.»
«Hai una mamma molto saggia.»
E lui, Piccardo d'Angelo della Pica, uno zio fenomenale.
Angelo non sa se i tre giorni in cui i suoi figli hanno scorrazzato in lungo e in largo con Francesco siano da incolpare ma, fatto sta, che il suo ritorno - e il ritorno dei bambini alle mura domestiche - coincide con l'insorgere d'una febbriciattola maligna nel corpo secco e provato del suo irriducibile fratello maggiore.
Siede al suo capezzale, un tetto di frasche addossato alla Porziuncola, inumidendogli la fronte, lottando contro il presentimento insito dentro di sè che Francesco stia cominciando la sua fase calante da quando è riapprodato sulle italiane sponde.
Seppur cereo e incavato, gli occhi due tizzoni sanguinanti lacrime - glielo ripete allo sfinimento che dovrebbe farsi visitare, ma ti pare che lui ascolti? - suo fratello accoglie chiunque entri a rallegrarlo d'una visita con un sorriso smagliante.
«Spero che non lo dirai a Piccardo e Giovannetto.» gli sibila rauco, l'aria preludio del mezzogiorno greve d'odori, versi selvatici e rintocchi d'Assisi. «Non sopporterei che si pensassero responsabili.»
«Qui l'unica responsabile è la tua capoccia cocciuta.» Intinge una pezza, bagnandola per bene. «Non ti costa nulla una visita.»
«Adesso l'unica salute di cui m'importi è quella dell'Ordine.»
«Ma se non curi la tua quella ne risente!» gli fa il verso Angelo e si merita una spintarella di piede sul ginocchio.
Il minore annaspa, preda d'incontrollabili, sguaiate risate. Il maggiore coglie l'occasione e gli si getta addosso, scompigliandogli i capelli, sordo al dimenarsi impazzito dell'altro. Si staccano ansimanti, infervorati dal gioco, un barlume d'infanzia risorto, scoppiando in risa ancor più sguaiate e deliranti.
Francesco non illuminerà le loro vite ancora a lungo, lo percepisce, lo sa, ma, fintanto che il tempo, e Dio - che traina i millenni e impronta il destino del genere umano - gli accorderanno del tempo, si beeranno di questa sua solare luce.
Lui. Assisi. Il mondo intero.
E soprattutto i suoi figli.
Vedi lettore? Il Milleduecento, l'occhio nella spirale del Medioevo, era il tempo del meraviglioso e del pauroso, della fede e della ragione. Si vigilava nell'attesa dell'Apocalisse. Si sperava l'avvento del Regno di Dio.
Il mondo apparteneva a Dio, governato da Dio, amato da Dio, punito da Dio, quando si decideva che il peccato dilagasse e che la vita fosse una fogna di ratti e miasmi di nefandezze. Papi e imperatori e santi e giullari non erano altro che attori.
Il Milleduecento era vivace, spericolato, eccitante, contorto, bizzarro, grottesco.
Era il sogno d'un bambino, tracciato a carboncino sulla tela intonsa della Storia.
Francesco d'Assisi scompigliò l'ordine del disegno, ribaltò la trama.
Per questo oggi, che il Milleduecento giace morto e sepolto in sepolcri di polvere e pagine incartapecorite, lo ammiriamo.
Per questo oggi lo chiamiamo santo.
Note
Se siete arrivati fino alla fine avete tutta la mia stima, seriamente😅giuro che non pensavo che questa roba uscisse così lunga. E mi dispiace se vi ho annoiato nel caso.
Ma veniamo ai fatti interessanti!
Il cosiddetto gioco dei fiori non è un'invenzione mia, ma è tratta da un racconto di Hermann Hesse "il gioco dei fiori, dall'infanzia di Francesco d'Assisi" correlato al libriccino dedicato a Francesco. Uno splendido testo, stile poetico e lirico, tra la favola e la biografia. Se amate Hesse ve lo consiglio.
Giuro che un giorno finirò Narciso e Boccadoro e inizierò Siddharta Hermann, lo giuro💀
Antonio di Padova ha davvero preso parte al Capitolo delle Stuoie, incontrando anche Francesco. Come detto, all'epoca non lo conosceva nessuno, l'ultimo arrivato proprio, ma Francesco dovette notare qualcosa in lui, al punto che gli scrisse, più avanti, quando la fama di Antonio quale sorprendente predicatore cominciava ad affermarsi:
«A frate Antonio, mio vescovo, frate Francesco augura salute. Mi piace che tu insegni teologia ai nostri fratelli, a condizione però che, a causa di tale studio, non si spenga in esso lo spirito di santa orazione e devozione, com'è prescritto nella regola.»
Il Capitolo durò all'incirca poco, dal 30 maggio all'8 giugno 1221, e ci viene descritto dal contemporaneo Frate Giordano da Giano:
«Un Capitolo così, sia per la moltitudine dei religiosi come per la solennità delle cerimonie, io non vidi mai più nel nostro Ordine. E benché tanto fosse il numero dei frati, tuttavia con tale abbondanza la popolazione vi provvedeva, che dopo sette giorni i frati furono costretti a chiudere la porta e a non accettare più niente; anzi restarono altri due giorni per consumare le vivande già offerte e accettate.»
Comunque, spero che abbiate colto e apprezzato il rimando a Padova e all'Islanda del bambino dello Zecchino d'Oro, una pagina di tv italiana 🤣
Per quando riguarda gli incontri tra Domenico e Francesco invece... beh, gli storici si sono lambiccati un pochettino, divisi. Che dicono le fonti? Le Fonti Francescane (FF 2706) riportano la testimonianza di Pietro di Giovanni Olivi il quale, a sua volta, riferisce quanto dettogli da Bernardo Barravi, anch'egli frate Minore. Egli affermava di aver sentito proprio dalla bocca di Domenico che aveva incontrato Francesco durante il suo viaggio verso Roma "per l'approvazione del suo Ordine", circostanza nella quale "ebbe l'occasione di passare da Assisi e di vedere Francesco con alcune migliaia di frati là convenuti per il Capitolo generale".
Ma quale Capitolo? Uno precedente, avvenuto nel 1218, poco prima che Francesco partisse per l'Oriente, o quello dall'immensa affluenza del 1221, quello delle Stuoie?
Ci soccorre uno degli studi più importanti su San Domenico, Storia di San Domenico, di fr. Humbert Vicaire OP. Nel capitolo XI del suo libro il Vicaire si chiede se i due, Francesco e Domenico, si siano mai incontrati. Citando fonti e studi scientifici, egli ritiene che Domenico e Francesco si siano forse incontrati, senza però averne la certezza, nel 1215 presso il Cardinale Ugolino, loro amico. Sembra invece assodato che i due si siano incrociati certamente al Capitolo della Porziuncola ad Assisi nel 1218. Per ultimo, appare abbondantemente confermato dalle fonti storiche il loro incontro a Roma, sempre dal Cardinale Ugolino, nel 1221.
Tuttavia, la testimonianza delle FF riporta l'alto numero di frati, migliaia sottolinea, e sappiamo che la cifra portentosa venne raggiunta al Capitolo delle Stuoie (sebbene nulla vieti che possa essere stata sfiorata anche in precedenza).
Per tirare le somme: Francesco e Domenico si sono incontrati? Sì. Quando di preciso? In più occasioni, più specifico di così non possiamo pretendere di sapere.
Il motivo per cui Domenico viene descritto fragile e infiacchito dalla malattia e dalla stanchezza è che semplicemente da lì a due mesi... morirà😅il 6 agosto 1221, a Bologna. Al suo funerale parteciperà Ugolino, mentre alle esequie di Francesco, cinque anni più tardi, del Cardinale dalla paventata amicizia neanche l'ombra, nonostante... ecco... Assisi sia più vicina a Roma che a Bologna eh Ugolino? In sua difesa si trovava a Bologna in quei giorni, venuto per stare vicino al morente Domenico, ma con Francesco si fece vivo solo per sballottarlo da un medico deludente all'altro.
Capite che non l'ho propriamente in simpatia🤣anche per il filo da torcere che darà a Chiara una volta nominato Papa.
L'episodio di Piccardo e la visione di Francesco sono invece ispirati dai Fioretti: "Come uno fanciullo fraticino, orando santo Francesco di notte, vide Cristo e la Vergine Maria e molti altri santi parlare con lui."
Ora, Piccardo non era un frate, ma da adulto aderirà al Terz'Ordine Secolare, una branca della famiglia francescana, quindi può valere questa rilettura?😅🤣
La canzone in provenzale è del trovatore Jaufré Rudel, "Amore di terra lontana" o "L'amor de lohn". Francesco l'avrà conosciuta di certo, data la sua giovinezza tra romanzi cortesi e ballate materne.
Grazie mille per la sopportazione - se vi siete sorbiti tutto questo pippone siete santi quanto Antonio, Chiara, Domenico e Francesco - e a presto!❤️
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