Freddo, tagli nel cuore e un dolore insostenibile

Ludovica

Mi sembrava di poter sentire ancora il profumo di Filippo sulla mia pelle, tra le ciocche dei miei capelli, addirittura credevo fosse possibile sentirlo ancora sulle labbra, tra le pieghe attorno alla bocca.
Erano mesi che andava avanti quella situazione. Insostenibile. - Cristo, davvero insostenibile. -
Ormai sembrava che io e Lorenzo vivessimo in simbiosi e che il sedile blu di un treno diretto a Milano fosse diventato la mia seconda casa.
Succedeva sempre così: Lorenzo che mi telefonava perché Filippo non riusciva nemmeno a reggersi in piedi, perché non voleva uscire di casa, perché alzarsi dal letto o mangiare sembrava impossibile, perché dopo l'ennesima discussione usciva solo per andare a comprare qualche alcolico che, puntualmente finiva fino all'ultima goccia e che, puntualmente faceva di nuovo discutere i due amici. Mi chiamava in preda alla rabbia, al panico, alle emozioni peggiori perché stentava a riconoscerlo, in piena notte in balia di crisi di pianto perché gli sembrava che Filippo non fosse più la solita persona e di non riuscire più a salvarlo. - e cazzo, era la solita sensazione che mi prendeva lo stomaco. Quella di avercelo lì, guardarlo autodistruggersi e non poter fare nulla.
Quella orribile sensazione di sentirsi inutili. -

Erano mesi che continuavo a salire su quel treno, con la voce di Lorenzo dall'altro capo del telefono che mi ripeteva sempre le solite cose e quella dannata sensazione di paura nel cuore: arrivare a Monza e trovarlo sempre peggio rispetto alla volta precedente.
Entrare in quell'appartamento mi faceva stare male, tanto, tantissimo e sull'uscio di quella porta mi coglieva sempre un groppo alla gola, ogni volta. - ogni maledetta volta -
In alcune occasioni lo trovavo talmente ubriaco da non accorgersi nemmeno della mia presenza, altre con gli occhi gonfi e rossi dal pianto che stentava ad aprirli, altre ancora così debole da non avere la forza nemmeno per reggersi in piedi, altre arrabbiato, ma così arrabbiato da fare quasi paura. E ogni volta, il mio cuore si spezzava un po' di più, creava l'ulteriore crepa che non sarebbe mai riuscita a risanarsi, si apriva di più, di più, sempre di più. - tanto che a volte pensavo non potesse nemmeno resistere a tanta sofferenza -

Avevo la sensazione che ormai la mia vita fosse scandita dal rumore delle ruote del treno sui binari, esattamente quel rumore metallico - a tratti fastidioso, seccante - che aveva il potere di rendere tutto dannatamente estenuante.
In quei mesi capitava prendessi il treno a qualsiasi ora del giorno o della notte, che ormai vivessi su quei sedili blu che guardavano da spettatori lo sgretolarsi della mia storia d'amore - e forse contemporaneamente anche un po' della mia vita -

Quante lacrime versate su quei maledetti sedili, quante gocce di pianto asciugate con il dorso di una mano tremante all'ennesima chiamata di Lorenzo, all'ennesima crisi di Filippo, all'ennesimo viaggio.
Era un periodo che davvero stentavo a riconoscermi. Ero dimagrita molto, il viso scarno, triste, svuotato, gli occhi assenti, come se non volessero cedere alla cruda realtà. Nessuna risata, pochi sorrisi, - se non qualche espressione di un falso "va tutto bene, sto bene, posso farcela." - e una vita che sembrava scorrere tra le dita senza che avessi la lucidità per rendermi conto del passare inesorabile del tempo.
Ormai eravamo nel pieno dell'inverno ed era forse il periodo più brutto e duro vissuto fino ad adesso: Filippo in condizioni pessime, io e Lorenzo che cercavamo di sostenerci a vicenda per non crollare e la mia storia d'amore che si sgretolava come il muscolo cardiaco che portavo dentro al petto.
Erano mesi che un giorno era felice e sembrava andare tutto bene: ridevamo, scherzavamo, passavamo del tempo insieme, facevamo l'amore e tutto sembrava essere normale. Mentre il giorno dopo sembrava di essere catapultati direttamente all'inferno: urla, grida, la rabbia affogata in una bottiglia di vodka, attacchi di panico, sfoghi talmente dolorosi da finire a prendere a pugni il muro, la porta, i vetri o qualsiasi cosa capitasse a tiro.
E ogni volta, - ogni dannatissima volta - il mio cuore perdeva un battito, era come se fosse costantemente preda di centinaia di coltellate, come se degli spilli affilatissimi lo bucassero sempre, continuamente, ininterrottamente senza lasciargli tregua. - e non so per quante volte avrebbe ancora avuto la forza di reggere -

Erano mesi in cui passavo le notti intere ad accarezzargli la testa per farlo addormentare, mesi in cui lo svegliavo al mattino con il bicchiere dell'acqua e l'aspirina per il mal di testa, mesi in cui lo raccoglievo da terra per portarlo a letto, mesi in cui spazzavo i cocci di qualche bottiglia rotta lanciata contro un muro quando era fuori di sè, mesi che gli facevo la barba quando era troppo debole per farsela da solo, mesi in cui lo imboccavo quando non ne voleva sapere di nutrirsi, mesi in cui mi sedevo al tavolo della cucina con Lorenzo e scoppiavamo a piangere guardandoci negli occhi, senza parole, senza dover dire nulla perché ogni discorso sembrava superfluo. - o forse perché ci mancava persino la forza per aprire la bocca e darle fiato -

Il ricordo di qualche notte fa mi si palesa in mente mentre sono qui, in una cucina troppo vuota e silenziosa per far smettere la mia mente di pensare. Poche notti fa avevamo passato ore e ore a fare l'amore, felici come non eravamo da tempo, spensierati, con i tratti del viso rilassati e sorridenti. Leggeri.
Il mattino dopo, all'alba mi ero svegliata non trovando nessuno accanto a me, come era già successo altre volte. - troppe volte -
Sulla federa del cuscino di Filippo, ancora intriso del suo profumo, solo un biglietto, un piccolo foglio di carta con qualche parola scritta di fretta nero su bianco.
"Qualche mese fa ti dedicai una canzone, chissà se ti ricordi..."Penso che forse non te l'ho mai detto, ma era una vita che ti stavo aspettando."
Ecco, io quella sensazione nel cuore non l'avevo mai provata prima, quella felicità, quella voglia di urlare al mondo quanto sei spensierato, quanto ti senti leggero. E ora sono qui, ti guardo dormire e mi sento un dannato idiota, uno stupido, un uomo di merda perché ti sto distruggendo e mi stai scivolando via tra le dita.....mi dispiace Lulù, non sono più in grado di essere la stessa persona di prima.
Se puoi perdonami, tuo F."
Quel biglietto ancora ripiegato nella tasca dei pantaloni, - quel dannato pezzo di carta che sembrava prendere fuoco ogni secondo che passava nascosto in quella tasca -  e una sensazione di vuoto dentro difficile da spiegare: era sparito, totalmente sparito.
Quella stessa mattina, aveva chiesto le chiavi della villa a Lorenzo per rifugiarsi lì e, forse, fare un po' di chiarezza tra i pensieri. - oppure per continuare ad affogare le insicurezze e la rabbia in litri di alcol. E questa sicuramente era la nostra più grande paura -

Sento il rumore della chiave nella toppa della serratura e vedo la faccia sorridente di mia mamma rientrare in casa, con quella capacità di illuminare anche i pensieri più oscuri.
"Amore mio, come stai?" domanda avvicinandosi e lasciandomi un tenero bacio tra i capelli.
"Bene, tutto bene..." rispondo sorridendole, con un sorriso così falso che non riesce a farle credere a questa frase.
E da quel momento iniziamo a parlare, le racconto ogni cosa, ogni dolore, ogni paura, le apro ogni crepa del mio cuore, - anche quelle che fanno talmente male da togliermi il respiro - le parlo degli occhi di Filippo: così diversi, così vuoti, della mia incapacità di sorridere, - o di avere voglia di farlo - dei problemi del mio ragazzo, dell'amicizia forte nata tra me e Lorenzo, di quel sentimento così difficile da far passare, le racconto delle scenate di rabbia, dei cocci raccolti per notti intere, dei viaggi in treno con quel senso di inquietudine nel cuore, della paura di varcare la soglia di quella casa e trovarlo sempre peggio, del sapore dei baci che non sembra essere neanche lo stesso, di ogni singolo particolare di questi ultimi mesi.
Stiamo sedute a quel tavolo per ore ed ore, con la musica dello stereo in sottofondo e i suoi sorrisi di conforto.
Poi, alla fine, arrivo a raccontarle anche di quel biglietto, di quelle parole che hanno lacerato ancora di più il mio cuore, di quell'assenza odiosa e di quel senso di vuoto che continuo a sentirmi dentro.

Era ormai notte fonda, quasi l'alba quando le note di "Ragazza magica" di Jovanotti riempiono la stanza, le mani di mia mamma prendono le mie e mi invitano a ballare. Ci guardiamo negli occhi, ridiamo e balliamo, balliamo, balliamo, volteggiamo sulle punte dei piedi, giriamo su noi stesse con gli occhi chiusi.
E ridiamo.
E balliamo.
E volteggiamo.
E mi sento bene, per un po' non penso, lascio in pace il mio cervello.
Spensierata, mi sento spensierata dopo mesi di tristezza, di buio, di cupo.
Spensierata.
Leggera, finalmente.

Nonostante sia gennaio, faccia terribilmente freddo, ci sia il ghiaccio che ricopre i vetri delle macchine e sia ancora buio, decidiamo di sederci in terrazza chiuse nelle nostre giacche, con le sciarpe che ci ricoprono gran parte del viso per fumarci una sigaretta. E mi sembra che tutto questo non accada da troppo tempo, che erano mesi che non parlavo così con mia mamma, che non riuscivo a trovare un momento da dedicare solo a noi, che non ero felice con lei, che non le raccontavo la verità, tutta la verità. - anche quella più dolorosa -
Ormai il cielo si sta facendo chiaro quando il suono del campanello del citofono interrompe la nostra pausa, mentre entro in casa vedo riflesso allo specchio, il mio viso e inevitabilmente sorrido: è rosso, quasi paonazzo, a chiazze chiare e scure probabilmente per il contrasto tra freddo e caldo.
Appoggio il mio orecchio al campanello, chiedendomi chi potesse essere a quest'ora del mattino e quando sento la sua voce stento a crederci.
"Sono io, non lo so scusa, non so neanche cosa mi sia venuto in mente di passare di qui...è successa - la sua voce è affannata, triste, preoccupata - è...Adri, nonna Adri sta male...mi...mi hanno chiamato ora i miei genitori dicendomi di andare al più presto in ospedale e non so...non so...cioè lo so avevo bisogno di te..."
Per un istante il cuore si blocca, rimane in gola, rimane senza un battito.
Si ferma perché la sua voce, così di colpo, senza preavviso, in una fredda mattina di gennaio dopo giorni di totale assenza mi destabilizza; poi perché quella notizia, Adri e quella sensazione che qualcosa stia per andare male.
Respira.
Respira e rispondi.
"Filo, dammi dieci minuti e scendo."

Lo trovo lì, appoggiato alla portiera della macchina, tra le dita una sigaretta e lo sguardo perso nel vuoto. Per un attimo non so che dire, che fare, come salutarlo e mi sembra tutto dannatamente così strano. - Dio, fa che non si giri - Si gira, incastra i suoi occhi nei miei e sento un groppo in gola, deglutisco per cercare di farlo scomparire e sussurro un semplice "ciao".

Irama

Sono stati mesi pessimi e penso a quante cazzo di volte ho ripetuto questa frase durante l'ultimo periodo. - tante, troppe volte -
Mesi in cui non ho fatto altro che distruggermi, - o meglio lasciarmi distruggere da quel mostro che si è creato al mio interno - mesi in cui ho trovato conforto solo nell'alcol, solo nel bruciore alla gola dopo aver buttato giù, tutta d'un fiato, mezza bottiglia di vodka, scotch, rum o qualsiasi altra bevanda in grado di farmi girare la testa facendomi sentire leggero.
Leggero.
Ed è incredibile come la mattina dopo, al posto di sentirmi leggero mi sentissi sempre più pesante, oppresso, affaticato. Come se non riuscissi mai a trovare un antidoto adeguato alla malattia che mi portavo dentro, a quel peso sul cuore. - forse perché non sapevo neanche se esistesse una cura per quella brutta sensazione -
Sono stati mesi in cui ho fatto soffrire troppe persone, ho fatto del male a troppe persone.
Ho allontanato tutti quelli in grado di farmi stare bene: mia sorella, Alessandro, tutti i miei amici, persino mia nonna. Lei che, in questo periodo, non ha fatto altro che chiamare, che preoccuparsi per me, che soffrire per me, che cercare di comprendermi, di capire cosa mi stesse succedendo. Lei che, per tutte le sere, - o meglio, per quelle sere in cui ero abbastanza sobrio o in grado di parlarle - non ha fatto altro che ripetermi che passerà, che c'era lei al mio fianco e non dovevo avere paura di niente, che ero forte, che mi aspettava a casa per prepararmi uno di quei pranzi da campione che mi avrebbero tirato su il morale in un batter d'occhio. Lei che si trovava a chiamare Ludovica in piena notte, per sapere come stesse, come stava andando, per saperne di più, per vedere se almeno con lei mi fossi confidato e io li ricordo, li ricordo tutti quei sospiri, quei silenzi, quei singhiozzi trattenuti per non rovinare il mio sonno e per paura che mi svegliassi. - cazzo se li ricordo, li ho tutti impressi nella mente, anche se facevo finta di dormire con gli occhi chiusi e le spalle girate, anche se facevo finta di fregarmene, anche se avrei voluto strapparmi le orecchie pur di non sentirli. Li ricordo tutti, ed è allucinante come li abbia impressi nella mente, come riesca a sentirli distintamente appena chiudo gli occhi. Come fingessi di fregarmene, ma poi mi spezzassero dentro, come avessero la potenza di farmi a pezzi il cuore -

Poi ho continuato ad allontanare lei, come se potessi farne a meno, come se non fosse l'unica ragione di vita. Lei che, durante questi mesi, non ha fatto altro che esserci, - che farsi a pezzi per me - che passare ore intere su un treno solo per raggiungermi, non ha fatto altro che tentare di farmi ragionare per tirarmi fuori da quel dannato oblio, non ha fatto altro che starmi vicino dicendomi che sarebbe tutto passato, che accudirmi come un bambino indifeso, mettendo da parte se stessa e me in primo piano. Persino quelle notti in cui l'unica cosa che sembravo sapere fare era urlare, urlarle contro, gridarle le peggio cose, lei è sempre stata lì, senza abbandonarmi mai.
E non faccio altro che sentirmi un uomo di merda, non faccio altro che vedere i suoi occhi socchiusi e lucidi, quasi umidi, per la paura, la paura di avermi affianco. - paura che potessi farle del male -
Invece, in quei rari momenti di lucidità e serenità che ho nella mente, ho il ricordo del suo sorriso appena sveglia, della luce del suo viso accanto a me. Ed anche se più sciupata, più magra, più vuota, più triste, con le occhiaie e senza trucco, in quelle volte non ho desiderato vedere nient'altro, perché era così dannatamente giusta accanto a me, così terribilmente bella che un po' mi faceva tornare a respirare dopo mesi di apnea.

Appena la vedo quasi mi perdo nell'osservala, scruto ogni dettaglio, ogni particolare come se il mio cervello non riuscisse a ricordali bene; poi mi avvicino, le corro proprio incontro e mi tuffo tra le sue braccia, ne ho bisogno perché è l'unica forza che ho, quasi mi ci perdo in quell'abbraccio. - o forse mi ci ritrovo -
Lei è imbarazzata, lo noto dalla freddezza del suo viso, dal tocco delle sue dita sulla mia pelle che sembra dannatamente diverso, lo sento da quel "ciao" distaccato e appena sussurrato. - e la capisco, cazzo se la capisco, non mi merito più niente e lei continua ad esserci -

Ludovica

Saliamo in macchina senza dirci una parola, ho ancora il suo profumo sui vestiti che indosso e riesco solo a pensare a quanto mi sia mancato, al tuffo al cuore sentito durante l'abbraccio di prima e un po' mi odio, mi odio perché continuo a provare quei sentimenti così forti dopo tutto il dolore che mi ha causato, mi odio.
Mi odio.
Mi odio.
Dio, quanto mi odio.
Vorrei sbattere forte la testa contro il muro per far sparire questa voce che continua a ripetermi che dovrei odiarlo.
Dovrei odiarmi.
Ma non ce la faccio, non riesco.
Davanti ho l'amore della mia vita e questa è una certezza, - una delle poche rimaste - non potrei mai odiarlo.

Sento lo sguardo di Filippo che continua a posarsi su di me, si volta di poco, toglie l'attenzione per un millesimo di secondo dalla strada e tenta di incrociare i miei occhi, ma no, questo non riesco a farlo. No. Perché lo so l'effetto che mi fanno i suoi occhi, quel tuffo al cuore, quella sensazione di protezione e non voglio cedere.
Per l'ennesima volta si volta e non sapendo cos'altro fare smorza quella dannata aria di tensione con un po' di musica, io continuo a guardare il paesaggio scorrere attraverso il vetro e mi sento il cuore bloccato, come fosse in apnea. - come fosse stremato -
Penso ad Adri, in lei c'è un pezzetto della mia nonna vera, in lei ci sono nascoste così tante cose belle che ho paura.
Paura, di nuovo quella sensazione.
È un periodo che vivo di paura, ma questa è così terribilmente forte che non riesco a non crollare.
Ho paura che se ne vada anche lei, che mi lasci di nuovo sola, che senta di nuovo quel vuoto come quando è volata in cielo la mia di nonna, paura di non sentire più l'odore di quelle cose buone, paura di non poter più essere coccolata dalle sue braccia in un momento di tristezza, paura di non sentire più quella sensazione di protezione speciale, paura che tutto possa finire in un istante.
Paura, una dannata paura della morte.

Le immagini che scorrono al di là del finestrino sembrano sempre le stesse: case, asfalto grigio, lampioni, erba, alberi, macchine, altre case, altri lampioni, altri alberi, qualche punto di erba secca e io continuo a pensare, a intravedere il suo volto tra le nuvole, tra le luci dei fari delle macchine e mi sento crollare.
Cerco di respirare piano per non farlo sentire a Filippo, di autocontrollarmi e deglutire, continuo a deglutire per mandare giù quel groppo alla gola e non farlo esplodere.
Ma non ce la faccio, le lacrime iniziano a scendere e io continuo solo a pregare che Filippo non se ne accorga.
Capisco di aver fallito miseramente quando sento il tocco delle sue dita sul mio viso, nell'intento - vano - di asciugare quelle lacrime che ormai sembrano essersi trasformate in un fiume in piena.
"Scusa, scusa è che....fanculo, dovrei essere io a darti forza, a dirti che andrà tutto bene e invece...e invece mi sento una stupida..." sussurro tra un singhiozzo e l'altro mentre il castano ha accostato la macchina in un piccolo spazio al lato della strada per dedicarmi la giusta attenzione - o forse per mettere in ordine i pensieri -
"Ho paura Fil, paura, paura di tutto ormai e non ce la faccio più...non riuscirei a sopportarlo....non riuscirei a sopportarlo se lei..." - morisse - non riesco nemmeno a trovare il coraggio per pronunciare quella parola, perché è così grande e fa così tanta paura che al solo pensarla mi vengono i brividi.
Per un istante mi guarda, fisso negli occhi - Dio quanto mi sono mancati, quanto sono diversi, più spenti ma belli come li ricordavo - e lo so che anche lui in questo momento pensa le mie stesse cose, ha le mie stesse paure, ma ho anche la certezza che continuerà a nasconderle fingendo di essere forte. Si avvicina e con una mano mi fa voltare leggermente verso di lui, mi accarezza la guancia e io socchiudo gli occhi come beata da quel tocco e poi si avvicina, respira sulle mie labbra e le fa scontrare in un bacio.
Il suo sapore di nuovo mischiato con il mio e mi sembra l'unica cosa in grado di darmi la forza necessaria per affrontare anche le cose più terribili, mi sembra l'unica cosa in grado di salvarmi da quella paura.
"Andrà bene amore mio, te lo prometto, tutto....tutto andrà bene!" mi guarda e sorride, e lo so, lo so quante cose sono nascoste dietro a quel misero andrà tutto bene, quante parole vorrebbe dirmi ma non ce la fa, quante promesse cerca di racchiudere in quelle tre parole, quante scuse racchiude quella frase e allora gli sorrido di rimando, mi sento incredibilmente più forte, so di potercela fare se c'è lui al mio fianco.

Arriviamo nel parcheggio dell'ospedale e il mio cuore inizia ad accelerare i suoi battiti, mentre Filippo rimane fermo immobile, con una mano sul volante e l'altra sulla chiave inserita.
Non si muove, sembra quasi una statua di pietra, deglutisce, - forse per farsi forza - lo vedo dal pomo di Adamo che fa su e giù nella gola, non sa che fare, non sa se riuscirà ad essere forte.
Lo capisco, quanto lo capisco, anch'io vorrei poter fermare il tempo e avere la possibilità di non varcare mai la soglia di quell'ospedale, butto indietro la testa sul sedile e cerco di respirare normalmente anche se risulta difficilissimo farlo, ho un nodo in gola che sembra ingrossarsi sempre di più.
Ora, però, devo essere io a fare forza a Filippo, anche se è difficile, anche se sembra impossibile.
Lo guardo e poggio la mia mano sulla sua coscia, gli accarezzo la guancia "Fil, dobbiamo entrare, ce la puoi fare ok? Andrà tutto bene ok?" - vero? Vero che andrà tutto bene? Dimmelo! Ho bisogno che lui mi dica che sarà così, ho bisogno che il suo sguardo mi rassicuri, non glielo dico ma dai suoi occhi capisco molto di più - capisco che quell'enorme masso di paure ora lo stiamo dividendo.

Proviamo a chiamare la mamma di Filippo per sapere in che reparto dirigerci, ma lei risponde che forse è meglio aspettarla fuori, ci guardiamo e per un istante tratteniamo il respiro.

Andrà tutto bene.

Succede tutto nel giro di pochi istanti, ci dicono che purtroppo le cose non sono andate bene, che lei e il marito sono arrivati giusto in tempo, che l'hanno vista distrutta, al capolinea e mille altri giri di parole inutili che continuano solo a confonderci le idee e a farci girare la testa.
Che non eravamo arrivati in tempo nemmeno per salutarla l'ultima volta, ecco la consapevolezza più dura e terribile della giornata.
Così secca, feroce, spietata.
La verità sputata in faccia come un proiettile in pieno volto.
E nel cuore quella dannata consapevolezza: la paura l'ha avuta vinta per l'ennesima volta, ha vinto l'ennesima battaglia cogliendoci impreparati, senza le armi giuste per combattere e lasciandoci completamente sconfitti.

Ho bisogno di sedermi un attimo.
I genitori di Filippo sono rientrati in ospedale per delineare le ultime volontà, mentre lui è ancora esattamente fermo nella solita posizione e io accanto a lui.
Ho bisogno di sedermi, la testa mi gira e spero di potermi svegliare immediatamente da questo incubo.
Penso a quante cosa avrei voluto dirle, a quante cose avrei potuto dirle, penso al dolore immenso che sento dentro al cuore per aver perso l'ennesima persona importante della mia vita, penso a quanto la nostra esistenza sia effimera, a tutti i momenti vissuti insieme, a quanti ricordi dentro a quella casa, al suo profumo di nonna.
Ho bisogno di sedermi, penso poco prima di sentire un fischio forte nelle orecchie, avvertire le forze venire meno fino a perdere i sensi per un secondo e aggrapparmi alla giacca di Filippo.
"Oddio amore...amore mio, tranquilla, tranquilla vieni" mi prende in braccio e mi porta fino alla macchina per farmi riprendere.

Andrà tutto bene, che cazzata!

Siamo nei sedili posteriori della macchina da minuti infiniti, forse ore, abbracciati con le sue mani che accarezzano i miei capelli. I telefoni che continuano a vibrare per decine di chiamate in entrata e il ticchettio fastidioso della pioggia sui vetri. Anche il cielo non ce l'ha fatta a trattenersi e piange, butta fuori tutte le sue lacrime, con ferocia, con il bisogno di sfogarsi; i vetri sono appannati, colpa dei nostri respiri caldi a contrasto con le temperature di gennaio, ci guardiamo e sembriamo pensare la stessa cosa.
Scoppiamo a piangere, urliamo, gridiamo, ci lasciamo sopraffare dalle emozioni più nascoste, senza vergogna, senza il minimo timore,  asciugando uno le lacrime dell'altra, asciugando una il dolore dell'altro, aggrappandosi uno all'altra per non crollare.

Andrà tutto bene, che grande cazzata.

I giorni sembravano non passare mai, alloggiavamo in villa insieme a Lorenzo, che dopo il mio messaggio si era subito precipitato qui per starci il più vicino possibile.
Erano giorni davvero strani, non parlavamo, non scherzavamo, non mangiavamo, non riuscivamo nemmeno più a piangere, come se avessimo esaurito tutte le energie del nostro corpo.
Come se fosse difficile persino trovare un senso al susseguirsi dei giorni, al suono dei respiri, alla vita che continuava inesorabile il suo cammino.

Il giorno prima, poi era stato qualcosa di orribile. Eravamo entrati dalla porta dell'obitorio tutti e tre insieme, ma le gambe sembravano bloccarsi, sembravano non rispondere più agli impulsi come fossero immobilizzate e bloccate. Non avevamo avuto nemmeno il coraggio di vederla un'ultima volta, non eravamo stati in grado di essere forti.
Eravamo scoppiati a piangere come degli stupidi, uno dopo l'altro, nel parcheggio dell'ospedale come due giorni prima, con la consapevolezza nel cuore di non poterla più vedere e quella sensazione di sconfitta nello stomaco.

È gennaio, non piove ma l'aria è umida, oggi in particolare, il freddo è in grado di entrarti nelle ossa e insidiarsi dentro.
Siamo appoggiati alla macchina di Filippo, tutti e tre con una sigaretta tra le dita e i pacchetti praticamente vuoti, sembra essere l'unico rimedio in grado di farci stare meglio: aspirare il fumo e buttarlo fuori insieme a tutto il casino e alla sofferenza che ci portiamo dentro, giù nel profondo dell'anima.
Vediamo il carro funebre avvicinarsi e le persone radunarsi davanti all'entrata della Chiesa, noi preferiamo restare in disparte poi, quando tutti hanno preso posto all'interno, ci decidiamo ad entrare.
Tutti ci guardano, tutti sembrano avere occhi solo per noi mentre raggiungiamo il resto dei parenti nelle prime panche. Filippo accanto ai suoi genitori, a suo nonno e a sua sorella, mentre io e Lorenzo qualche panca più indietro.
Inizia la cerimonia e io continuo a fissare il ragazzo davanti a me con la mano stretta in quella di Lorenzo, - forse pure troppo - mentre Filippo ha lo sguardo fisso sulla bara coperta di fiori al centro della navata, come se fosse totalmente assente, come se con la testa fosse altrove.
Passano minuti in cui anch'io mi assento, percepisco le parole del prete in lontananza quasi ovattate e inizio a piangere, sento le mani di Lorenzo stringermi in un abbraccio mentre noto la figura di Filippo alzarsi dalla panca e uscire di corsa dalla chiesa.
"Lori, Lori devo andare..." dico poco prima di fare la stessa cosa per raggiungerlo.

Andrà tutto bene, che grandissima cazzata.

Esco dalla Chiesa e con gli occhi cerco la macchina di Filippo che, per fortuna, è ancora parcheggiata nello stesso punto.
Decido di seguire il cuore ed andare in un posto speciale che Filippo mi aveva mostrato qualche mese fa, sperando di trovarlo lì.
E infatti come pensavo, lui è lì, a terra in mezzo ad un grande prato,tra gli alberi appoggiato con la schiena contro un tronco, con lo sguardo basso e le mani che continuano a torturarsi. - fai un respiro e vai -
Mi siedo accanto a lui, appoggiando la mia mano sulle sue per cercare il contatto e restiamo così,  avvolti dal freddo e da un silenzio assoluto, imbarazzante quasi irreale che riesce a rendere quel gelo ancora più pungente, lo fa insidiare di più dentro le ossa. - e dannazione fa freddo, fa terribilmente freddo e non è solo colpa delle basse temperature di gennaio -
"Sai è da ore che continuo a pensare ai miei nonni, forse addirittura giorni che ci penso ininterrottamente e, credimi, che nessuno può capire il tuo stato d'animo meglio di me." mi volto verso di lui, sperando di incrociare i suoi occhi e farlo reagire, ma niente. - e allora vai, sfogati tu -
"I miei nonni sono stati una parte fondamentale della mia vita, se ne sono andati che ero ancora una bambina ad un anno di distanza l'uno dall'altra.
I giorni dei loro funerali nemmeno me li ricordo con lucidità, come se vivessi in una bolla, oppure come se il mio cervello avesse eliminato quei ricordi terribili e avesse lasciato solo i più belli." inizio a pensarci ancora di più, ho i loro volti impressi nella testa, come se fossero qui davanti a me e la voce inizia leggermente a tremare.
"Non ricordo i fiori sopra la bara, di che colore fossero, le parole del prete, ho solo qualche sfumato flashback di tutti quei parenti che nemmeno conosci che ti guardano con quello sguardo colmo di pietà e ti baciano le guance come a dire "passerà, prima o poi passerà". Invece, non lo sanno che la botta vera ti coglie quando torni a casa, dopo quei giorni di adrenalina e frenesia, e senti quel vuoto avvolgerti lo stomaco, quando sembra che quelle quattro mura non siano nemmeno le stesse, quando senti che tutto è dannatamente reale, quando fai mente locale e ti accorgi veramente che manca qualcosa.
Mancano tutti gli odori, i profumi, manca il disordine, la confusione, le loro voci, mancano un sacco di dettagli a cui prima non facevi neanche caso. È quando ti ritrovi a dover sistemare tutto, quando ti ritrovi dentro l'armadio con i vestiti da buttare intrisi di profumo, quando ti ritrovi dentro ai cassetti con gli anelli e le collane che lei metteva tutti i giorni, quando ritrovi il pigiama nel letto, il profumo nel mobiletto del bagno, il rasoio per la barba, o le loro cose preferite in frigo, quando ritrovi la tazza della colazione nella lavastoviglie che avevi dimenticato di sfare, quando ritrovi nel vaso i fiori recisi che le piacevano tanto ormai secchi, quando sulla poltrona vedi i suoi occhiali da vista, o il bastone appoggiato...
È lì che ti senti impotente e incredibilmente piccola, quando tutti si aspettano che ti passi in fretta, che tutti quei dettagli si infilino in un cassetto della mente e non ti facciano stare terribilmente male.
Fil non devi fingere che vada bene, non devi fingere di essere forte se dentro stai una merda" - non con me, non tirarmi fuori anche questa volta (avrei voluto avere la forza di sussurrargli) - le lacrime iniziano a scendere senza sosta, perché forse in questi anni il dolore si era affievolito, o almeno avevo cercato di riporre tutto in quel famoso cassettino della memoria cercando di aprirlo il meno possibile, per non sentire questa orribile sensazione nello stomaco.
"Tante cose mi mancano, tantissime, a pensarci nemmeno riuscirei ad elencartele tutte.
In questi anni non ho fatto altro che collezionare rimorsi quasi fossero figurine, rimorsi per ogni mia vittoria che avrei voluto condividere con loro, per ogni minimo dettaglio, per ogni cosa bella.
Rimorsi su rimorsi, ma forse quello più grande è quello di non potergli presentare te. Perché lo so, lo sento dentro al cuore che ti avrebbero amato quanto me, saresti entrato nel loro cuore come hai fatto con il mio. Lei...lei..." non ce la faccio a continuare, ora che il dolore sta aumentando e il groppo alla gola si sta ingrossando. Ora che sto dicendo ad alta voce tutti quei pensieri che mi tenevo dentro da più di un anno rendendoli dannatamente reali. Lui si avvicina più a me e mi cinge la vita con il suo braccio facendomi appoggiare la testa sotto al suo collo e io mi sento subito protetta come a casa.
"Lei ti avrebbe preparato uno dei suoi pranzi, con i piatti del servizio buono, la tovaglia speciale, il centrotavola con i fiori e l'attenzione per ogni minimo particolare. Ti avrebbe accolto in casa vestita e profumata di tutto punto, dopo aver passato almeno due ore a prepararsi, ma con il suo inconfondibile grembiule da cucina e il suo dolce sorriso. Ti avrebbe subito chiamato "nini" affibbiandoti il suo soprannome preferito, quello dato solo alle persone speciali.
Lui invece, magari un po' meno socievole e sorridente, però ti avrebbe portato sicuramente in salotto, rigorosamente davanti al camino per guardare una partita di calcio e guai a dire che non fosse una tua passione. Poi, dopo pranzo, ti avrebbe messo subito alla prova: una bella partita a briscola o a scala quaranta per vedere se eri davvero degno di far parte della famiglia.
Invece, se fosse stata la bella stagione: lei ti avrebbe portato fuori in giardino, tra il profumo dei fiori riempiendoti lo stomaco di gelato, biscotti e succhi di frutta; mentre lui con il suo inconfondibile bastone ti avrebbe accompagnato a vedere l'orto accanto al fiume e ti avrebbe fatto sedere al sole con lui vicino alla sua adorata casetta degli attrezzi.
Ed è tutto così strano...a pensarci mi viene automatico sorridere e pensare a come si sarebbero comportati; però allo stesso tempo il cuore un po' mi muore dentro per la consapevolezza che tutto questo non potrà mai accadere..." ormai piango, ho il viso completamente bagnato dalle lacrime e il cuore leggermente distrutto, continuo a pensare come se la mia mente non fosse in grado di darsi qualche minuto di pace.

"Sono tre giorni che continuo a pensare senza interruzione e dentro alla chiesa ho capito di non riuscirmi più a trattenere. Sentivo tutti quegli sguardi addosso pieni di compassione, il mormorio della gente che continuava a pensare che fossi un mostro perché non riuscivo a cacciare nemmeno una lacrima. Guardavo quella bara, quel color marrone e non riuscivo a vedere mia nonna, darei delle testate contro il tronco di questo albero perché non riesco a ricordarmi il suo viso." lo guardo e gli dico che del parere della gente se ne deve fregare, che non si misura l'amore verso una persona in base alle lacrime versate al suo funerale, ma sembra che abbia ancora tanto da dire.
"Sento un peso qui, - indica con il dito il petto - proprio sul cuore, non riuscirò mai a perdonarmi di non averla vista, di non aver avuto la possibilità di salutarla almeno l'ultima volta.
Mi sento una merda, davvero una merda, sono mesi che mi ripete che mi stava aspettando, che aveva preparato in freezer teglie su teglie di lasagne così da tirarmi su non appena sarei stato meglio, mesi che si preoccupa per me, che soffre per questa situazione del cazzo che ho creato e lo so, lo so che tutto questo è colpa mia.
Che se n'è andata per colpa mia, per tutto il male che le ho fatto!" le lacrime gli rigano il volto e le mani sono chiuse a pugno talmente strette da fargli venire le nocche bianche.
"Ma che dici? Che cazzo dici Fil? Non ti far mai più venire in mente una cosa così terribile, non c'entra niente tutto quello che è successo in questi mesi. Lei non avrebbe mai scelto di andarsene e lasciarti solo proprio in un periodo del genere, ti prego, ti prego non pensare mai più una cosa così. Lei ti amava e se avesse potuto scegliere ti sarebbe stata accanto, nonostante le tue mille paranoie, nonostante le tue cazzate, nonostante tutto." si alza e inizia a camminare avanti e indietro, con le mani tra i capelli e una voglia di spaccare qualsiasi cosa gli capiti a tiro.
"Stanotte non sono riuscito a dormire, - mi sono pure dimenticato come si fa a dormire negli ultimi giorni - ho scritto una canzone per lei, così di getto, come mi veniva, le parole sembravano uscire spontanee come se la mano scrivesse da sola senza neanche il bisogno di pensare.
Sai cosa ho fatto poi con quella canzone? L'ho bruciata, sono andato in balcone per accendermi una sigaretta e l'ho bruciata, le ho dato fuoco trasformandola in cenere e l'ho lasciata lì, a farsi trasportare dal vento.
A giugno, dopo il Coca Cola Summer Festival, le avevo promesso che sarebbe stata la prima a ricevere un biglietto per il mio concerto, glielo avevo giurato che le avrei procurato quel biglietto e invece guardami: sono un fallito, un cantautore mancato, non so fare più niente, le persone non mi seguono più e io continuo a sentirmi una merda...lei un nipote del genere non se lo meritava, lei credeva in me e io ho saputo ripagarla solo con una misera canzone quando ormai era troppo tardi, quando ormai mi era tutto scivolato tra le dita.
Non se lo meritava un fallito come me, si meritava di stare bene, di essere felice e invece non ho fatto altro che trascurarla, che prometterle cose che non sono riuscito a mantenere, non ho fatto altro che rifugiarmi nell'alcol quando tutto ciò di cui avevo bisogno era il vostro amore...e ora non posso più tornare indietro...
Glielo avevo promesso, quel biglietto...glielo avevo promesso, cazzo!" urla prima di sferrare un pugno contro un tronco poco distante e crollare a terra sconfitto da un dolore più grande di lui.
Mi avvicino, anche se sono spaventata dal suo comportamento, sento che è la cosa giusta da fare, che nessuna parola di conforto sarebbe in grado di aiutarlo.
"Ehi...ehi guardami - dico sollevandogli dolcemente il viso - ora andiamo a casa, medichiamo questa mano e cerchiamo di trovare un senso a tutto questo tormento, insieme ok? Insieme."

Andrà tutto bene, davvero una grandissima cazzata.

Ed è incredibilmente difficile accettare che non è più la stessa persona, incredibilmente complicato pensare che forse il peggio deve ancora arrivare, difficile trovare il modo giusto per stargli vicino.
Però sento che è l'unica cosa in grado di sollevarmi in questo momento, l'unica cosa che Adri vorrebbe che io facessi, l'unica cosa in grado di affievolire un po' tutto questo dannato dolore, l'unica cosa che mi fa sentire utile e da un senso a tutto questo.
Gli starò vicino, nonostante tutto, fino a perdere persino un pezzo di me, fino a sentire la stanchezza fin dentro alle vene.
Lo amerò fino in fondo all'anima, questa è una promessa.


Angolo autrice
Buon mercoledì a tutti, come state?
Eccoci con un nuovo capitolo, spero che vi piaccia! Continuate a commentare, a votare e a dirmi il vostro parere perché sapete quanto ci tengo! ❤️
Ormai siamo agli sgoccioli di questa storia e mancano davvero pochi capitoli...chissà come andranno le cose...secondo voi? 🤔
Grazie e un forte abbraccio 🌹
~R. 🦋

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