Cinquantaquattro
Torino, 3 aprile 2018
"La Juventus non è soltanto una squadra di calcio, è una società per azioni quotata in Borsa che viene rappresentata non solo da maglie bianconere dentro al campo di gioco, ma anche e soprattutto da eleganza, mentalità e stile di vita unici."
Leggo e rileggo l'inizio della mia tesi, provando a mettere nero su bianco delle parole che sono soltanto un vortice intricato di pensieri dentro alla mia testa. È presto o forse è tardi, ho perso la cognizione del tempo dato che non sono andata a dormire stanotte, ma sono rimasta in piedi a sdoppiarmi tra spulciare documenti sulla società bianconera e rivedere delle tattiche di gioco in vista del big match di questa sera.
Fin da piccola ho sempre amato essere indaffarata, fare tante cose, dare il massimo per portare a termine tutti i miei impegni e, già da quando ero bambina, ho sempre voluto avere un lavoro di importanza, che richiedesse fatica e dedizione. Ma ora che mi trovo dentro a questa situazione, mi sembra quasi impossibile uscirne con le mie sole forze.
È un periodo strano, non mi sono mai sentita così sopraffatta in vita mia e per la prima volta mi sembra di essere ferma in un punto senza riuscire a muovermi. Ci provo, mi sforzo, faccio di tutto per restare a galla ma qualcosa attorno a me mi blocca e non mi permette di concentrarmi al cento per cento su tutto ciò che devo fare.
Rimango un'altra ora e mezza a fissare lo schermo del computer con scarsi risultati: non aggiungo una parola alle poche che ho già scritto in quest'ultima settimana e mi decido a chiudere tutto e lasciar perdere. Oggi non riesco a concentrarmi, stasera c'è una partita importante e non posso farmi distrarre da altro, nemmeno dall'università.
Per le vie di Torino si respira un'aria tesa, quasi come se anche i monumenti e le vie sapessero chi sta arrivando nel capoluogo piemontese questa sera. La città è in attesa, un po' come tutti quanti, si sta preparando a mettere in scena uno spettacolo che – a prescindere dal risultato finale – sarà indimenticabile.
La suoneria del mio telefono mi fa sobbalzare mentre sono concentrata a guardare il paesaggio cittadino dalla finestra. Cammino senza meta per casa mia, provando a capire da dove proviene quel suono fastidioso che non sembra accennare a smettere. Quando finalmente trovo il cellulare sepolto sotto ai cuscini del divano, sospiro nel vedere il nome di Federico lampeggiare sullo schermo.
"Alleluia, avevo perso le speranze!" non mi saluta nemmeno e lo sento sbuffare pesantemente dall'altra parte del telefono.
"Scusa, non trovavo il cellulare" mi scuso, accasciandomi con poca grazia sulla poltrona in pelle.
"È la terza volta che ti chiamo e non rispondi ai messaggi. Cosa dovrei pensare?"
"Non l'ho sentito, ero sovrappensiero, Fede..." mi stropiccio gli occhi sentendo le palpebre improvvisamente pesanti, a quanto pare la stanchezza si sta impossessando di me tutta insieme.
"Ti va di venire qui da me? Così poi andiamo allo stadio insieme" propone gentilmente con un tono di voce normale, come se avesse già dimenticato il mio essere particolarmente sfuggente in questi ultimi giorni.
"Sarebbe bello ma non posso. Devo studiare" mi pento immediatamente delle mie parole, dato che sono uscite in modo più sgarbato di quanto volessi.
"Non insisto, tanto so che è una causa persa. Ci vediamo allo stadio, ciao" sbuffa poco prima di riattaccare, lasciandomi il respiro mozzato per aria.
Mi sento in colpa per come gli ho risposto, non volevo essere così aggressiva e di sicuro non era mia intenzione farlo arrabbiare. Mi accascio sul divano, mi rannicchio con le ginocchia al petto posizionata su un fianco e chiudo gli occhi, provando a riposarmi per qualche ora prima di andare allo stadio.
Sobbalzo sul divano ancora mezza addormentata, mi sveglio di soprassalto sentendo il campanello di casa suonare incessantemente da almeno due minuti. Cerco di ricompormi al meglio possibile e corro ad aprire, conscia di non essere del tutto presentabile.
"Stai di merda, fattelo dire" tra tutte le persone che potevo immaginarmi davanti alla mia porta d'ingresso, Paulo è certamente l'ultimo della lista.
"Che ci fai qui?" gli domando, ancora un po' sorpresa, facendolo entrare in casa.
"Passavo di qui" l'argentino alza le spalle e inizia a guardarsi attorno.
Scelgo di credergli, ma sotto sotto so che quello che mi ha detto non è la verità. Lui abita dall'altra parte della città e, anche se non è molto distante da qui, non mi sembra plausibile che lui passasse casualmente da queste parti proprio dopo il mio litigio telefonico con Federico.
"Sento odore di Miralem" incrocio le braccia al petto appoggiandomi contro lo stipite della porta, squadrando l'attaccante seduto comodamente sul mio divano.
"Okay, beccato. Mi ha detto di passare di qui perché sei strana in questi giorni e siamo tutti preoccupati, se proprio devo dirtela tutta" l'argentino si posiziona meglio e appoggia i gomiti sulle ginocchia, piegando la schiena in avanti.
"Ma si può sapere che vi prende? Io sto benissimo, non c'è niente di cui preoccuparsi" sbotto, sospirando rumorosamente e alzando gli occhi al cielo, visibilmente infastidita da quelle continue e non necessarie attenzioni.
"Sì, lo vedo che sei tranquilla e rilassata" scherza alzando un sopracciglio, mentre un sorriso si fa spazio sul suo bel viso, facendolo sembrare più piccolo della sua età.
"Non preoccuparti per me, sono solo molto impegnata ultimamente e forse un po' nervosa" ammetto a fatica, dato che non sopporto quando ho troppe attenzioni su di me in un momento di difficoltà.
"Smettila di dire minchiate, Olivia! Devi parlarne con qualcuno oppure scoppi" mi risponde Paulo alzandosi in piedi per venire verso di me.
Non so cosa rispondere. In effetti Paulo ha ragione, perciò rimango in silenzio e lo abbraccio, non riuscendo a dire nemmeno una parola. Mi faccio coccolare dalle sue braccia, delle lacrime salate solcano il mio volto e non posso fare a meno di stringerlo forte a me, ringraziandolo mentalmente per aver capito che ho bisogno d'aiuto anche se non voglio ammetterlo.
Rimaniamo insieme tutto il pomeriggio, stacco la testa per tutto il tempo e l'argentino riesce anche a strapparmi qualche risata che onestamente mancava nelle mie giornate. Parliamo di tutto: dell'università, di mio papà, della tesi, di Federico e della partita di stasera, ormai imminente.
Quando il sole scende sulla città, mi incammino verso lo stadio, sia per evitare il traffico sia per arrivare un po' in anticipo per prepararmi mentalmente alla gara. Entro all'Allianz pochi minuti dopo e approfitto della solitudine per andare sul campo di gioco, dove solo alcuni addetti si stanno occupando delle zolle d'erba prima di attivare gli idranti agli angoli del rettangolo verde.
Mi siedo sulla panchina, leggermente più in alto rispetto al campo, e rimango lì per un'infinità di tempo a fissare il vuoto, incrocio le gambe e mi stringo nel giubbotto della squadra. Provo a rilassarmi, a farmi venire in mente tutte le imprese che ha compiuto la Juventus nella sua storia, cerco di non pensare al peggio, ma è impossibile.
Penso solo a Cardiff, penso a quella partita maledetta, a quell'avversario troppo più forte di noi, che ci ha schiacciato imponendo la sua supremazia. Penso a quanto abbiamo lasciato che il destino scegliesse per noi invece di cambiarlo, penso alla rabbia e alla delusione che abbiamo provato, penso ai nostri sogni infranti ad un passo dalla vittoria, penso alle nostre forze che sono state spezzate quando ci credevamo di più.
Penso al nostro avversario, alla sua squadra composta da campioni straordinari, che non ci renderanno la vita semplice, proprio come a Cardiff meno di un anno fa. Il Real Madrid è una squadra forte, difficile da affrontare, ben organizzata e pericolosa in qualsiasi parte del campo. Penso a Sergio Ramos, uomo dal temperamento aggressivo e spesso falloso, ma con una tecnica ed un livello di esperienza tale da alzare un muro davanti alla porta per non far passare nemmeno le mosche. Penso a Luka Modric, uno dei centrocampisti più forti del mondo, con una visione di gioco ed un tocco sul pallone invidiabile. Penso a Karim Benzema, il Mario Mandzukic del Real Madrid, un giocatore che si fa sentire in area di rigore per fisicità e capacità di fare gol. Penso a Cristiano Ronaldo, il calciatore più forte del mondo, un animale in campo, dotato di un fisico impressionante e di una tecnica sublime. Penso a quanto sarebbe bello, un giorno, vederlo in Italia, magari proprio alla Juventus. Sono certa che avrebbe la sua storia da raccontare anche qui.
Ed è proprio quando nella mia testa si palesa un'immagine di Cristiano Ronaldo con la maglia numero sette bianconera che ritorno alla realtà, scuoto la testa e cerco con lo sguardo la fonte di un vociare indistinto non molto distante da me.
Inforco gli occhiali da vista e metto a fuoco in pochi secondi: i campioni del Real Madrid – gli stessi che stavo immaginando fino a due minuti fa – sono in piedi in carne ed ossa davanti a me, passeggiano tranquillamente sull'erba per valutare le condizioni del campo e famigliarizzare con l'ambiente.
Mi prendo qualche istante per guardarli e noto con piacere che, nonostante siano calciatori pluripremiati con stipendi che farebbero girare la testa a chiunque, sono dei ragazzi normali uguali a tutti gli altri. Parlottano e ridono tra loro, con le mani in tasca e lo sguardo ad esaminare l'interno dello stadio. Sul mio viso si fa largo un sorriso di fierezza: attorno agli anelli dell'Allianz ci sono tutti i trofei che la società ha vinto da quando è nata. Perciò guardateli, non siete gli unici ad avere un club vincente.
Mi alzo poco dopo, scendo lentamente le scale e mi dirigo nel tunnel che conduce agli spogliatoi, provando a mettere da parte l'ansia tipica di ogni partita di Champions League e cercare di focalizzare tutte le mie energie su quello che sarà uno spettacolo garantito.
L'Allianz Stadium è una bolgia piena di tifosi pronti ad urlare, mascherano la tensione intonando cori da stadio e mostrando con fierezza cartelloni e striscioni di supporto alla squadra e questo non può che rendermi felice. Tutti abbiamo voglia di vendicare Cardiff, dai giocatori ai tifosi sul divano di casa, e siamo pronti a scendere in campo per affrontare a viso aperto la nostra bestia nera.
L'arbitro fischia l'inizio della partita e lo stadio non smette di cantare finché, al terzo minuto, sono i blancos nello spicchio a loro riservato a cantare di gioia per il gol della loro squadra. Cristiano Ronaldo porta il Real Madrid sull'uno a zero in meno di cinque minuti e questo non è un buon segnale.
"Ecco, lo sapevo" sbuffa Claudio Marchisio alla mia sinistra sulla panchina bianconera.
"Quell'uomo è una garanzia" gli fa eco Daniele Rugani, una fila dietro di noi.
"Chiudete la bocca, tutti quanti. La partita è appena cominciata, mancano ottantasette minuti, non parlate come se fossimo al novantesimo sotto di otto gol" alzo leggermente la voce, questa volta non per sgridarli, ma per provare a trasmettergli tutta la fiducia che io stessa ripongo nei miei ragazzi.
Voglio crederci, bisogna crederci, mai partire sconfitti. Questo lo fanno i perdenti. E se c'è una cosa che la Juventus sa fare è soffrire. Non mi lascerò trasportare nello sconforto che aleggia sulla panchina in questo momento, perciò mi avvicino a Juan Cuadrado che sembra l'unico ad incitare i compagni tanto quanto me.
Il primo tempo si conclude con poche emozioni nella metà campo juventina e con nessuna altra rete in quella madridista, fortunatamente. Rientro nello spogliatoio per prima, aspetto i ragazzi e, non appena entrano, chiudo la porta a chiave e mi siedo sulla panchina insieme a loro, in fianco a Gigi Buffon.
"Non vi mentirò, sarò sincera. È dura, durissima. So che sono forti e non a caso hanno vinto la Champions dodici volte. Lo sappiamo noi, lo sanno loro, lo sa tutto il mondo. Ma hanno fatto solo un gol. Possiamo farne uno, anche un pareggio può andare bene e poi ce la giochiamo a casa loro. Siamo acciaccati, ma non voglio vedere nessuno con la paura di giocare. Loro sono forti, è vero, ma noi abbiamo il loro stesso diritto di essere in questa competizione e combattere per andare avanti. Crederci, fino alla fine" dico in tono neutro, senza troppe pause o gesti particolari.
Dico quello che penso e mi alzo dalla panchina, lasciando i minuti rimanenti dell'intervallo a loro per concentrarsi e trovare le energie per continuare a lottare sul campo di gioco. Distrattamente, vado a sbattere contro un giocatore della squadra avversaria, dato che ero presa a leggere alcuni dati sulla mia cartellina.
Mi scuso immediatamente e mi abbasso per raccogliere i pochi fogli caduti a terra. Non appena alzo gli occhi mi trovo davanti Cristiano Ronaldo con un sorrisetto stampato sul viso e un braccio allungato per stringermi la mano. Imbarazzata, sento le guance andare a fuoco e le ginocchia tremare. Non voglio risultare maleducata, perciò gli stringo la mano con una stretta vigorosa e sicura, cercando di mascherare l'emozione che provo in questo momento.
"Lo siento, no te vi" (Scusami, non ti ho visto) farfuglio, spulciando nella mia mente le lezioni di spagnolo che ho frequentato in tutta la mia vita.
"No te preocupes, no hay problemas" (Non preoccuparti, non c'è problema) mi risponde Cristiano in uno spagnolo perfetto ma decorato con un marcato accento portoghese.
Faccio per andarmene ma poi ritorno indietro, raccolgo il coraggio e continuo a parlargli, conscia del fatto che se racconto ai miei amici e a mio padre che ho effettivamente scambiato due parole con Cristiano Ronaldo e non ci ho fatto nemmeno una foto insieme mi prenderanno in giro per sempre.
"Cristiano, disculpa, ¿puedo pedirte un autógrafo?" (Cristiano, scusami, posso chiederti un autografo?) domando titubante ma con un sorriso timido sulle labbra, sperando che non mi mandi a quel paese, data la mia ovvia appartenenza alla sua squadra avversaria.
"Por supuesto que si" (Certo che sì) risponde il portoghese mentre prende la penna che ho in mano e firma un foglio dentro alla mia cartelletta. "¿También quieres una foto?" (Vuoi anche una foto?) continua, riservandomi un sorriso incoraggiante.
Prendo il cellulare dalla tasca della tuta e lo do a Cristiano che, essendo parecchio più alto di me, riesce a tenerlo in alto e a scattare un bel selfie di noi due sorridenti davanti all'obiettivo.
Lo ringrazio sinceramente, non penso sia da tutti fermarsi in un momento così critico e teso di una partita per fare una foto ed un autografo. È indubbiamente il calciatore più forte del mondo – insieme a Lionel Messi, anche se li reputo troppo diversi in fisico e caratteristiche per poter essere equiparati – ma mi ha dimostrato di essere una brava persona anche fuori dal campo, per quanto mi riguarda.
"Ven a la Juve" (Vieni alla Juve) gli dico, con lo sguardo sognante e un accenno di risata, sapendo benissimo che vederlo giocare dalla mia parte e non contro è solamente un sogno che non si realizzerà mai.
Cristiano, di rimando, alza leggermente le spalle e ridacchia, non sapendo che dire. Non posso biasimarlo: non mi aspettavo una vera e propria risposta, mi metto nei suoi panni e un giocatore del suo calibro non può esporsi in questo modo, ma ho avuto la fortuna di poterci parlare e a me questo basta.
Con il rientro delle due squadre in campo, la spensieratezza che mi aveva trasmesso Cristiano fino a pochi minuti fa lascia di nuovo spazio alla tensione, palpabile anche all'interno del rettangolo di gioco. Infatti il mio corpo percepisce l'ansia ancora prima del mio cervello.
È il sessantaquattresimo minuto quando qualcosa di incredibile accade dentro alle mura dell'Allianz Stadium. Cristiano Ronaldo buca la rete della Juventus per la seconda volta segnando – con ogni probabilità – il gol più bello di tutta la sua straordinaria carriera. Si alza in aria con un'elevazione impensabile per chiunque e firma il raddoppio dei blancos con una rovesciata talmente iconica che rimarrà per sempre nella storia del calcio.
Se il gol di Cristiano è la prima cosa incredibile che vedo in tutta la mia vita, quello che succede dopo è qualcosa di unico nel suo genere. Dopo il gol del numero sette, lo spicchio di stadio riservato ai tifosi del Real Madrid sono in visibilio: urlano e osannano il loro campione sventolando sciarpe e striscioni che portano il suo nome. Tuttavia, gli applausi sono molti di più.
Tutto l'Allianz Stadium è in piedi ad applaudire il giocatore più forte del mondo. Tutti quanti. Ammiro questa scena e la immortalo nella mia testa. È una sensazione strana e i sentimenti sono contraddittori. Come si può tifare per una squadra che sta perdendo in casa propria ma allo stesso tempo alzarsi in piedi per applaudire un giocatore avversario? Sembra impossibile, ma è la verità, sta accadendo tutto davanti ai miei occhi.
Ed è con le lacrime agli occhi per la rabbia di aver ormai perso questa partita che mi scappa un sorriso, uno di quelli spontanei ed incredibilmente veri. È vero, la Juventus non è soltanto una squadra di calcio, ma non è nemmeno solo una società quotata in Borsa. La Juventus è una famiglia, una di quelle che riesce a mettere da parte l'agonismo sportivo e alzarsi in piedi per omaggiare un avversario dopo che ha violato la porta bianconera. La Juventus è essere tutti uniti fino alla fine, nel bene ma anche e soprattutto nel male. Nessuno più degli juventini sa cosa significa perdere, lo sappiamo tutti benissimo, lo abbiamo sperimentato sulla nostra pelle. Ma in questo momento, sotto due a zero con la squadra più forte d'Europa, non mi sono mai sentita più fiera di far parte di questa grande e meravigliosa famiglia.
L'inchino di Cristiano Ronaldo di ringraziamento mi fa sciogliere il cuore: è un campione straordinario e, oltre alla fede e alla maglia, penso che il mondo si meriti più scene del genere in uno sport come il calcio, dove spesso e volentieri la violenza e gli insulti sono padroni indiscussi.
La situazione peggiora ulteriormente due minuti dopo, quando Paulo riceve il cartellino rosso e viene immediatamente cacciato fuori dal campo di gioco dal direttore di gara. La Joya se ne va a testa bassa, non incrocia lo sguardo con nessuno e sparisce nel buio del tunnel nel giro di pochi secondi.
Tutto il mondo bianconero cade in un vortice di sconforto quando Marcelo centra la porta juventina portando il Real Madrid sul tre a zero. La partita è chiusa, non c'è modo di riaprirla e si capisce quanto tutta la squadra giochi rassegnata e ormai senza motivazione. Mi rifiuto di vederli giocare in questo modo e, pensando di stare per scoppiare, mi alzo dalla panchina e cammino velocemente verso l'uscita secondaria dello stadio per respirare dell'aria fresca.
In questo momento non voglio la presenza di nessuno, ho bisogno di stare da sola e far sbollire la rabbia nell'unico modo che conosco. Mi accendo una sigaretta e cammino senza sosta avanti e indietro talmente tante volte che mi preoccupo di aver creato un solco sotto ai miei piedi. Tuttavia, l'unico solco è nel mio cuore che, per l'ennesima volta, deve vedere la Juventus arrendersi ai campioni d'Europa in carica. Senza nemmeno rientrare per salutare i ragazzi, mi incammino verso la mia macchina e guido verso il mio appartamento con la sola voglia di togliermi i vestiti, fare una doccia e sprofondare tra le braccia di Morfeo.
Madrid, 11 aprile 2018
Anche se ho molte cose da fare e la tesi di cui occuparmi, non sono riuscita a lasciare da sola la squadra in un momento così difficile. Stasera ci giochiamo il tutto per tutto. È la partita della vita, una di quelle da dentro o fuori. La stampa ci considera deboli, secondo tutte le più importanti testate giornalistiche europee siamo morti e non abbiamo nessuna possibilità di ribaltare un brutto tre a zero rimediato in casa.
È vero. Siamo tristi, arrabbiati, delusi e giù di morale, su questo non ci piove. Ed è anche vero che stasera non dovremo affrontare l'ultima squadretta di provincia, ma una delle squadre più temibili d'Europa. Ma quello che la stampa non ha considerato è la voglia di vincere e di rendere la vita un inferno al Real Madrid. Difficile? Senza alcun dubbio. Impossibile? Ancora da dimostrare.
Personalmente, ho ancora il dente avvelenato per ciò che è successo a Cardiff in finale l'anno scorso e penso che stasera sia l'occasione giusta per dimostrare a tutto il mondo di che cosa è capace la Juventus.
Il Santiago Bernabéu è una splendida cornice per una partita determinante e decisiva come quella che sta per iniziare: non c'è nemmeno un posto libero sugli spalti e tutti gli spettatori hanno qualcosa alla quale credere questa sera. Il bianco è ovunque ma riesco a intravedere una parte di stadio dipinta di bianco e nero ed è proprio lì che le mie speranze si accendono. La Juventus sono i tifosi, quelli veri. Quelli che non se ne vanno alla prima sconfitta, quelli che ci credono sempre e comunque, anche quando sembrano non esserci più speranze.
Trattengo il respiro quando l'arbitro dà il via alla partita, credendo ora più che mai nella forza di questo gruppo. La grinta non manca già dai primi minuti, i bianconeri non sono spaventati e l'atteggiamento dimostrato a Torino una settimana fa sembra essere sparito e aver lasciato posto alla cattiveria agonistica che tanto anima la gente venuta fino a qui per credere in un sogno.
Mario Mandzukic firma l'uno a zero dopo appena due minuti, senza nemmeno dare il tempo ai giocatori avversari di rendersene conto. Salto in piedi sulla panchina con il braccio alzato. Sono determinata tanto quanto loro. Dobbiamo giocarcela a viso aperto e non avere paura di niente: proprio come Mario Mandzukic.
La Juventus è affamata di gol e di vittoria. Non vuole farsi sfuggire questa opportunità non solo per accedere alla semifinale di Champions League ma anche per eliminare il Real Madrid e vendicare tutto quello che è successo in passato.
La doppietta del numero diciassette bianconero al minuto trentasette fa crescere ancora di più la speranza della rimonta. Ora ne manca ancora uno e poi siamo pari, siamo allo stesso livello dei campioni d'Europa.
Dopo l'intervallo la situazione è sempre la stessa: gli uomini di Allegri sono avidi e non si lasciano scappare delle nitide occasioni da gol, facendo risultare i blancos persi e del tutto fuori dalla partita. Ci pensa Matuidi a riportare il risultato complessivo in parità con la rete del tre a zero, che zittisce del tutto l'immensità del Santiago Bernabéu.
La panchina è in delirio: sono tutti in piedi ad urlare ed a festeggiare insieme al migliaio di tifosi presenti allo stadio. La remuntada – come si chiama qui in Spagna – è stata completata. Ora bisogna fare un altro gol per passare il turno oppure si andrà ai supplementari finché una squadra segnerà.
Non bisogna mollare ora, non è il momento giusto per perdere la lucidità e crogiolarsi nel risultato perché prendere gol adesso sarebbe come sprecare tutto quello che abbiamo costruito finora. I tentativi di chiudere definitivamente la partita sono tanti ma nessuno va dentro alla porta dei blancos.
Siamo ormai tutti convinti che la partita si protrarrà ai tempi supplementari, con entrambe le squadre stanche sia fisicamente sia psicologicamente, quando l'arbitro fischia un calcio di rigore in favore del Real Madrid all'ultimo secondo dell'ultimo minuto di recupero.
Accade tutto così in fretta: sono immobile, inerme davanti a tutto questo e non riesco nemmeno ad arrabbiarmi, non ne ho più le forze. Vedo che il direttore di gara estrae il cartellino rosso ed espelle Gigi Buffon per proteste e, contemporaneamente, Cristiano Ronaldo raccogliere il pallone da terra e sistemarlo sul dischetto.
Fisso la scena senza sbattere le palpebre e accade tutto quello che non doveva accadere per nessun motivo al mondo. Il numero sette dei blancos non sbaglia il rigore e, con appena un gol, il Real Madrid passa il turno e vola alle semifinali di Champions League.
Rimango seduta sulla panchina, non smetto di fissare il centro del campo anche quando lo stadio si è completamente svuotato. Non riesco a muovermi o forse non voglio farlo. Non posso capacitarmi di quello che ho appena visto. Spero con tutto il mio cuore che questo sia soltanto un incubo e che presto mi sveglierò.
Non può essere vero, non doveva andare così. Forse era meglio prendere tre gol di nuovo, avrebbe avuto più senso. Ma così no. Forse meritavamo di perdere alla fine, ma non così. Non dopo aver dato tutto, e anche di più. Non dopo aver zittito il Bernabéu. Non dopo aver schiacciato il Grande Real Madrid. In casa propria. Non per colpa di un errore stupido. Non dopo una partita perfetta. Non dopo essere risorti dalle ceneri. Non dopo aver fatto vedere a tutti i chiacchieroni che noi dimostriamo la nostra forza con i fatti e non con le parole.
Ed è in questi momenti che la prima cosa a cui si pensa è "di chi è la colpa?". Di Sergio Ramos che era squalificato e quindi la Juve ha segnato tre gol? Dell'arbitro che ha dato il rigore al Real Madrid? Di Buffon che si è fatto prendere dalla rabbia e si è fatto espellere? Di Lucas Vazquez che ha cercato il calcio di rigore? Di Benatia che, come ogni difensore, ha provato a difendere la porta? Di Szczensy che non ha parato il tiro di Cristiano Ronaldo? Della difesa bianconera che ha permesso a Marcelo di segnare il terzo gol all'andata? O forse del destino che, quando ci si mette, è impossibile cambiarlo?
È inutile cercare capri espiatori. È andata così e non si può tornare indietro. Mi dispiace per Max che, anche se non sempre lo dimostra pubblicamente, crede ciecamente in questo gruppo. Mi dispiace per la squadra, beffata ed eliminata, ad un passo dalla gloria. Mi dispiace per i tifosi, sia allo stadio sia sul divano di casa, che professano sempre con orgoglio la loro fede e seguono i ragazzi ovunque. Mi dispiace per Gigi Buffon, al suo ultimo anno in bianconero, che nemmeno quest'anno potrà alzare al cielo la Coppa dalle Grandi Orecchie.
Abbiamo accarezzato il sogno, era lì davanti ai nostri occhi ma appena abbiamo allungato il braccio per afferrarlo, ci è stato tolto da sotto al naso. È la sconfitta peggiore, è quella che fa più male. È quella che ti logora dentro e ti fa vivere per sempre con il rimpianto del "chissà come sarebbe andata se...". Ma è la stessa che ti rende orgoglioso per come l'hai persa, per le gocce di sudore che hai lasciato sul quel campo maledetto, è quella che ricorderà per sempre la Juventus come "la prima squadra ad aver battuto tre volte il Real Madrid al Bernabéu nelle competizioni europee".
Sì, stasera abbiamo perso "perché tanto in Europa non vincete mai" – come dice l'Italia che invece in Europa non ci va da anni – e fa un male cane, anche se "tanto siete abituati a perdere in Champions League" perché ci crediamo sempre e non molliamo mai.
Forse non se lo ricorderà nessuno, forse questa sera passerà alla storia come "il mercoledì nero" della Juventus, ma noi stasera abbiamo vinto. Abbiamo segnato tre gol nella tana del Real Madrid e – anche se alla fine non sono serviti a nulla – li ricorderemo per sempre perché dimostrano la nostra voglia di crederci sempre fino alla fine e rappresentano la nostra resilienza.
Sono qui a fissare il vuoto del Santiago Bernabéu, sono avvolta dal suo silenzio che mi porta inevitabilmente a pensare. Abbiamo perso l'anno scorso a Cardiff, abbiamo perso stasera a Madrid e chissà quante altre volte ancora perderemo.
È stato ingiusto, caro Santiago Bernabéu, lo hai visto anche tu.
Complimenti per la vittoria, alla prossima battaglia.
***
Sono nell'atrio dell'hotel prenotato dalla società per questi due giorni di trasferta europea e, anche se è notte fonda ormai, Max ha voluto radunare tutta la squadra – compresa la sottoscritta e tutti quelli che lavorano a stretto contatto con i ragazzi – per dire qualcosa riguardo alla partita.
Apprezzo molto questo gesto: da allenatore, si assume le proprie responsabilità ma al tempo stesso si complimenta con la squadra per tutto quello che ha dimostrato in campo. Mi scappa un sorriso malinconico perché Max non è un uomo di molte parole ma quando parla, lo fa con stile e soprattutto per un motivo.
"Non lanciatemi addosso niente per quello che sto per dire ma siete stati bravissimi" conclude il suo discorso con queste parole e non possiamo fare altro che applaudirlo sinceramente per il coraggio che ha dimostrato. Non è qualcosa che avrebbero fatto tutti.
Mi lascio abbracciare da Federico che è seduto in fianco a me, mi passa un braccio attorno alle spalle e io ne approfitto per appoggiare la testa sulla sua spalla. Sento il bisogno di averlo accanto in questo momento e sono sicura che anche lui abbia bisogno di me per affrontare tutto quello che sta succedendo. Non sarà facile tornare a casa e reagire a tutto questo ma insieme supereremo anche questa difficoltà.
"Grazie" gli sussurro facendo un profondo sospiro.
"Per cosa?" mi domanda mentre mi accarezza i capelli con la mano sinistra.
"Per avermi lasciata da sola. Avevo bisogno di pensare e di stare sola con me stessa per un attimo" gli spiego, riferendomi allo spazio che mi ha lasciato poco fa allo stadio.
Sono certa che sia lui sia Miralem avrebbero voluto consolarmi e starmi il più vicino possibile, ma mi conoscono abbastanza bene da sapere che a volte necessito fisicamente e psicologicamente di un po' di tempo da sola per riflettere.
"Non ti preoccupare, rispetto il tuo modo di essere. Ma sappi che se hai bisogno di qualsiasi cosa io sono sempre qui. E anche Mire e Paulo, lo sai" aggiunge lasciandomi un bacio sulla fronte che mi fa sorgere un sorriso spontaneo sulla labbra, che congiungo immediatamente contro le sue in modo da dimenticarmi almeno per un attimo tutto quello che è successo stasera.
Torino, 22 aprile 2018
Il ritorno da Madrid è stato ancora peggio che vedere la partita dal vivo undici giorni fa. L'amore dei tifosi ha consolato e supportato la squadra, ricordando quello che abbiamo vinto e non quello che abbiamo perso. Ma la sconfitta di Madrid è ancora bene impressa negli occhi di tutti i ragazzi. Gliela si legge in faccia la delusione, la rabbia e l'amarezza di quella notte.
Ma non si devono perdere d'animo; la sconfitta subita deve smuovere qualcosa all'interno dei meccanismi di gioco per fare in modo di ribaltare subito la negatività accumulata. Il cambiamento si è visto immediatamente con le vittorie contro il Benevento e la Sampdoria, ma il pareggio contro il Crotone sembra aver riaperto una ferita non guarita del tutto.
Stasera si gioca Juventus – Napoli, che non è una partita come le altre. È la sfida scudetto, è la partita che non si può sbagliare, è la partita che può decidere un'intera stagione. I ragazzi sentono la pressione di dover chiudere il campionato il più in fretta possibile, ma il Napoli è una squadra forte e attaccata alla vetta della classifica.
L'ansia inizia a farsi sentire già dal riscaldamento, mi sistemo sulla panchina al mio posto e rivedo velocemente gli schemi che io e Max abbiamo provato negli ultimi giorni in vista di questa partita. Giocare contro gli uomini di Sarri non è mai facile ed il minimo errore può costare caro. Entrambe le squadre vogliono vincere il campionato e ne hanno tutto il potenziale.
È una sfida all'ultimo sangue e chi ne uscirà vittorioso potrà fare un passo in più verso lo scudetto.
Nella prima parte del primo tempo sono soltanto due le occasioni gol per la Juventus: la prima con il palo preso da Pjanic su calcio di punizione e la seconda con un tiro al volo di Higuain su sviluppi di calcio d'angolo. Dopodiché, il Napoli comanda il gioco e rubargli il pallone sembra un'impresa troppo ardua per i bianconeri.
I partenopei ci mettono l'anima in ogni azione e soltanto i miracoli di Gigi Buffon salvano la porta juventina da un massacro. La Juventus è irriconoscibile: i ragazzi sembrano stanchi e camminano in campo, i passaggi sono pochi e sbagliati, la lucidità è scarsa. Ecco che ritorna il fantasma di Madrid, di quella partita persa e la rassegnazione negli occhi dei calciatori bianconeri è visibile anche dalla panchina, persino io me ne accorgo e sono miope.
Al novantesimo, Callejon batte un calcio d'angolo e Koulibaly svetta in area di rigore segnando la rete dell'uno a zero. La sua elevazione è mostruosa ed il colpo di testa è tanto preciso quanto forte, così come le grida dei tifosi napoletani presenti allo stadio. Il Napoli batte la Juventus all'Allianz Stadium e si porta a meno uno dai bianconeri, ormai costretti a non commettere più errori per vincere il settimo scudetto consecutivo.
Vedo i giocatori uscire dal campo con la testa bassa, diretti agli spogliatoi senza nemmeno fermarsi a rispondere alle domande dei giornalisti a bordo campo. Sento la loro frustrazione, percepisco la pressione che hanno addosso per indossare quella maglia ed è la prima volta che mi sento impotente, senza sapere che cosa fare o cosa dire.
Cerco con gli occhi quelli di Federico, il quale però scuote la testa e ritorna a fissarsi i piedi che si muovono per inerzia verso il tunnel dello stadio. Succede lo stesso sia con Paulo sia con Miralem e, non volendo forzare le cose, decido di radunare tutti i miei schemi ed il mio computer e tornare a casa. Non posso capire cosa provano ma rispetto i loro sentimenti, così come loro hanno rispettato i miei a Madrid.
Torno a casa nel giro di pochi minuti e mi butto sotto al getto dell'acqua calda. Ho bisogno di scrollare via tutta la giornata di oggi e andare a dormire per essere il più operativa possibile domani mattina. Mi devo alzare presto e tornare a lavorare alla mia tesi di laurea che sto scrivendo lentamente e con alcune difficoltà.
Sto per mettere la modalità aereo sul cellulare quando sullo schermo appare la notifica di un messaggio da parte di Federico, che visualizzo immediatamente.
Chat Whatsapp tra Olivia e Federico
Federico: Ti amo bimba 🖤
Olivia: Anch'io ananas 💚
Come stai?
Federico: Stiamo un po' di merda tutti
Olivia: Non ci pensare
Niente è perduto
Ora vai a dormire
Ci vediamo domani
Federico: Ci proverò
Grazie amore ti amo 💛
Buonanotte
Olivia: Buonanotte
Ti amo 💚
Mi addormento poco dopo, con la testa stranamente leggera e la mente riempita da due occhi verdi come il mare che riconoscerei anche al buio.
Milano, 28 aprile 2018
Oggi ho deciso di prendermi una pausa da tutto e da tutti e di seguire i ragazzi a Milano per una partita diversa da tutte le altre di campionato: il Derby d'Italia. Il Derby d'Italia si gioca tra Inter e Juventus ed è una partita che tiene incollati tutti gli italiani alla televisione dall'inizio alla fine.
Inter e Juventus sono due squadre forti, due tra le tre più titolate d'Italia ed entrambe con una grande storia alle spalle. Entrare a San Siro mette i brividi, i tifosi nerazzurri sono pronti a spingere i loro ragazzi a suon di cori e di applausi, soprattutto perché stasera in campo scende la Juve e non una squadra qualsiasi.
Tra Juventus e Inter non scorre buon sangue, bianconeri e nerazzurri covano una profonda rivalità sportiva che trova le sue radici in un passato non troppo lontano che entrambe le squadre – volente o nolente – condividono.
A me hanno sempre insegnato a portare il massimo rispetto a chiunque mi si pari davanti, in qualsiasi ambito della vita; perciò non comprendo l'odio tra due persone soltanto perché tifano due squadre diverse. La rivalità sportiva ed il sano agonismo sono il motore del calcio, finché rimangono tali. Tutto ciò che eccede e va oltre questi valori mi spaventa e mi destabilizza.
Mi perdo per un attimo a guardare gli svariati seggiolini del Meazza che, da così in basso, sembrano quasi infiniti. Con quasi settantaseimila posti occupati, nemmeno un sedile vuoto e il record d'incassi della stagione, la Scala del calcio è pronta a fare da cornice al 233° Derby d'Italia.
L'arbitro fischia l'inizio della partita ed il campo viene immediatamente riempito dalle urla dei tifosi nerazzurri che non perdono occasione per incitare i propri ragazzi. Tuttavia, è la Juventus a cambiare il risultato sul tabellone dello stadio per prima. Douglas Costa segna il gol dell'uno a zero con uno splendido sinistro dentro l'area di rigore e gonfia la rete dopo appena tredici minuti.
Cinque minuti dopo, viene consultato il VAR per un fallo subito da Mario Mandzukic e l'arbitro estrae il cartellino rosso che espelle immediatamente Vecino dal rettangolo di gioco. Al diciottesimo, l'Inter di Spalletti di ritrova in dieci uomini e sotto di un gol in casa propria.
La Juventus sembra approfittare della superiorità numerica per attaccare l'avversario con Matuidi che, favorito da una serie di rimpalli in area di rigore, butta la palla in rete ma il suo gol viene annullato poco dopo per fallo in attacco.
Il secondo tempo riprende con i nerazzurri più agguerriti che mai, determinati a far valere la propria supremazia in casa loro. Ci pensa il loro capitano, Mauro Icardi, a pareggiare i conti al minuto cinquantadue con un bellissimo colpo di testa che centra la porta lasciando tutta la difesa bianconera impalata a guardare il pallone entrare e superare il portiere della Juventus.
Passano pochi minuti quando Miralem, già ammonito, commette un brutto fallo su Rafinha al centro del campo. Mi porto le mani sulle guance e scuoto la testa: so già che rischia di prendere il cartellino rosso ma, sorprendentemente, il gioco riprende con il calcio di punizione in favore dell'Inter.
"Sei un miracolato, Mire" sussurro lasciandomi andare ad uno sbuffo che, a giudicare da tutti gli occhi della panchina rivolti su di me, deve essere abbastanza rumoroso.
San Siro prende vita e spinge ancora di più i propri ragazzi a centrare la porta bianconera per andare in vantaggio; ma è Higuain ad impensierire il portiere nerazzurro che con un miracolo salva nuovamente la squadra di casa.
A venti minuti dalla ripresa, Perisic corre sulla fascia sinistra e arriva quasi fino alla fine del campo, crossa in area di rigore e la rete della porta juventina si muove un attimo dopo a causa di un autogol di Barzagli.
"Cazzo!" urlo lanciando la mia cartelletta per terra, ricevendo occhiate da parte di tutta la panchina e anche di alcuni raccattapalle nelle vicinanze. "Tirate fuori i coglioni" sbotto, ormai conscia del fatto che se le buone maniere non sono servite a nulla, tanto vale usare le cattive.
I ragazzi sembrano recepire il mio disappunto e la mia voglia di entrare in campo insieme a loro e iniziano a muovere di più il gioco, fanno girare il pallone a cominciare dal centrocampo. Siamo sotto di un gol e manca circa mezzora alla fine, tutto può ancora succedere anche se l'Inter non è una squadra facile da affrontare.
Il primo segnale di risveglio è una punizione di Dybala al limite dell'area: l'argentino la calcia perfettamente ma Handanovic è altrettanto bravo ad accompagnare il pallone fuori dal campo. I tentativi di pareggio sono molti, tutti quanti annullati dalla bravura e dalla prontezza di riflessi della difesa nerazzurra che sembra non voler far passare nulla davanti ai propri tifosi.
Cuadrado inizia a correre come un treno sulla fascia destra, percorre tutto il campo ad una velocità mai vista prima e a pochi centimetri dalla linea di fondo campo tira verso l'area. Ma il pallone non arriva a nessuno e, complice un lieve tocco di Skriniar, si trova dentro alla rete alle spalle di Handanovic.
Esultiamo tutti quanti per il gol appena realizzato dal colombiano che, immancabilmente, inizia a ballare a bordo campo seguito a ruota da tutti i suoi compagni. Due a due al minuto ottantasette, a meno di tre minuti dalla fine.
Per come è stata giocata la partita, penso, il pareggio è un risultato onesto che premia entrambe le squadre, le quali hanno affrontato la gara con cattiveria agonistica e hanno indubbiamente regalato un meraviglioso spettacolo ai tifosi di entrambe le parti.
Ma è proprio quando tutti gli spettatori si convincono di vedere il Derby d'Italia finire con un pareggio che accade qualcosa che li smentisce tutti. Manca un minuto al novantesimo, la Juventus ha guadagnato un calcio di punizione sulla trequarti di campo e forse è l'ultima possibilità per i bianconeri di vincere la partita.
Paulo Dybala batte la punizione profonda dentro l'area di rigore, Gonzalo Higuain segue il pallone per tutta la traiettoria e con un colpo di testa secco centra la rete nerazzurra firmando il tre a due per la squadra ospite.
San Siro è in delirio. I numerosi tifosi juventini accorsi a Milano a vedere il big match perdono le corde vocali in urla liberatorie, mentre quelli interisti si ammutoliscono e, arrabbiati, si rassegnano all'evidenza.
È game over al Giuseppe Meazza. La Juventus vince il Derby d'Italia contro un'Inter combattiva per la totalità della gara e forte in ogni parte del campo. Grazie all'ultimo gol tutto argentino, la formazione di Massimiliano Allegri subisce una rimonta ed effettua una contro rimonta sotto i centocinquantadue mila occhi presenti allo stadio.
Grazie a questa vittoria, la Juventus non molla il primo posto in classifica e non cede terreno al suo avversario più vicino, il Napoli.
La Juventus non muore letteralmente mai.
Eccomi qui, cari miei amici lettori, con un nuovissimo capitolo! 🍀
Lo so, è passata un'eternità dall'ultimo aggiornamento ma adesso che avete letto il capitolo cinquantaquattro sapete il perché!
Non voglio dilungarmi ulteriormente in questo angolo autrice perché il capitolo è già abbastanza lungo, inteso e pieno di emozioni così com'è!
Ci tengo solo a dirvi che ogni parola è stata pesata, le virgole non sono state messe a caso e tutto quello che ho scritto è venuto direttamente dal mio cuore. Parlare di quelle due partite contro il Real Madrid fa male, malissimo, chi è juventino/a capirà. Ma fanno parte della nostra storia e spero di aver reso giustizia a tutti i nostri sentimenti.
Inoltre, ho descritto per la prima volta un Derby d'Italia che non è affatto una cosa semplice da fare. Spero di aver raccontato tutto nel modo più obiettivo possibile e mi auguro caldamente che nessuno si sia sentito offeso dalle parole che ho scritto. Io amo il calcio per quello che è e vorrei che fosse così per tutti.
Fatemi sapere con stelline e commenti che cosa ne pensate perché questo capitolo è forse quello a cui tengo di più di tutti per ovvi motivi!
Vi voglio bene e non posso che ringraziarvi tutti dal più profondo del cuore per tutto l'amore ed il supporto che date a "Fino alla fine". Grazie 🖤
PACE AMORE E FINO ALLA FINE FORZA JUVENTUS ⚪⚫
A presto,
C.
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