ZOE
Il sole dev'essere già alto. Lo intuisco dalla luce, dal modo in cui trapela attraverso le finestre, dall'intensità. È solo una proiezione, la mia, come lo sono molte altre nella mia bizzarra esistenza. Io, la vita, la intuisco. La conosco sempre a un livello più astratto che empirico. Mi aggiro al suo interno con cauta curiosità, senza fermarmi ogni istante a pormi domande su ciò che non capisco. Non ne ho il tempo.
Sono rimasta rannicchiata tra le lenzuola disordinate, nuda, con le gambe strette contro il petto, il viso affondato tra le ginocchia, non so per quanto. Gabriel è andato a lavorare, così come ha detto. Sono sola da ore. Sarò sola per sempre. Ancora un po' di luce, ancora un po' di quel tepore che sta svanendo con il profumo di lui, poi più nulla. Andrò via, sparirò.
In questa assurda immobilità del corpo, la mia mente sembra non avere posa. Sta attraversando spazi immensi, ricostruendo pezzo dopo pezzo l'intera immagine della nostra storia. Gabriel è stato tutte le mie prime volte. Io, che credevo di sapere tanto sulla vita e sulle persone, che ho visto tanto, alla fine ho imparato solo da lui il vero significato di ogni singolo gesto, il vero peso di ogni parola.
È stato tutto così semplice e innocente, all'inizio. Notti innumerevoli passate a parlare. Ci siamo scoperti insieme, dentro quei discorsi infiniti che partivano da un punto e approdavano a un altro attraverso percorsi contorti e affascinanti che nessuno di noi era più in grado di ricostruire alla fine. Che nessuno di noi, in realtà, ha sentito l'esigenza di ricostruire perché, anche se non ricordavamo mai ogni argomento con esattezza, quello che restava era la sensazione di meraviglia e di calore. Quella indescrivibile emozione di aver trascorso delle ore con un altro che ci somiglia, che ci capisce, che ci stupisce.
Una notte, senza alcun preavviso, senza alcun sospetto, Gabriel mi ha baciata. Il mio primo, vero bacio. È stato tenero e imbarazzato, come se avesse voluto scusarsi di non avermi chiesto prima il permesso. Anche se l'avesse fatto, mi sono sempre domandata in seguito, che senso avrebbe avuto? Potevo dargli il permesso di baciarmi quando ancora ignoravo la reale portata di quel gesto? Quando non avevo la minima idea di ciò che avrebbe risvegliato, di quanto lontano ci avrebbe trascinati quella passione acerba? Lui mi ha sfiorato le labbra, mi ha spinta amabilmente a schiudergli quella porta, mi ha mostrato quanto quel semplice contatto bastasse da solo ad accendere le nostre mani, i corpi, le fantasie inespresse.
La notte successiva sono tornata da lui. Mi sono sollevata sulle punte dei piedi, mi sono tesa verso il suo viso come un'innamorata, serrandomi le sue mani sui fianchi. Gli ho chiesto un altro bacio, e un altro ancora, come una ragazzina ingenua e temeraria al contempo, che vuole ma non sa a quali rischi sta andando incontro. Per la prima volta da che lo conoscevo, ho avuto la sensazione di trovarmi di fronte a una persona diversa da quella dolce, riservata, quasi timida che aveva riempito le mie ore di chiacchiere e risate. Ho visto un uomo nuovo. Gli ho visto abbandonare i modi misurati e talvolta impacciati, rispondendo solamente alla mia ostinata e irresistibile richiesta: "Ancora!".
Gabriel mi ha sollevata contro il suo petto, afferrandomi in una maniera che mi ha fatta tremare. Mi ha portata in camera da letto, mi ha adagiata tra le lenzuola che profumavano di lui. È stato fremente e paziente, impulsivo e cauto allo stesso tempo: un miscuglio del tutto incoerente che mi ha fatto perdere la testa, annegare nel suo stesso pozzo di emozioni mentre gli permettevo di entrarmi dentro, di farmi sua. Mentre mi innamoravo per sempre di lui.
Quello era l'inizio. Non avevo mai pensato che potesse avere una fine. Non mi sono mai davvero curata del tempo, fino a questa mattina. Adesso che tutto sta scivolando via assieme alla sabbia della clessidra, capisco di aver fatto male i miei conti.
Mi rimetto in piedi lentamente, mi rivesto con gesti svogliati. Qualcosa sembra guidare i miei passi fino allo specchio che riempie un angolo della stanza. Osservo con triste curiosità quella donna che mi scruta con lo stesso sospetto dall'altro lato della superficie. Ci conosciamo? Ci siamo mai parlate? Ci siamo mai confrontate? Bizzarro domandarselo solo adesso, quando ormai è tardi per tutto. Guardo ancora il mio riflesso, cosciente che questa sarà l'ultima volta che mi vedrò dentro questa cornice, poi torno a interrogare la luce fuori dalla finestra. Dev'essere quasi mezzogiorno. È il momento di andare.
Mi muovo piano verso il soggiorno deserto. Le finestre sono chiuse, nell'aria aleggia una penombra confortante, che protegge dal mondo fuori. Mi fermo di fronte al complesso orologio adorno di figure intagliate con maestria che occupa il mobile al centro. Fisso le lancette, mosse abilmente da meccanismi nascosti di cui percepisco solo la rotazione metallica, e le piccole sculture sottostanti. È tutta qui, la vita? È questo che siamo? Magnifiche figure che si spostano seguendo gli ordini impassibili di un destino celato, che vivono ignare di essere solo il frutto del piano perfetto di qualcun altro?
Abbasso il capo come seguendo un istinto. I capelli si ribellano al mio volere, ricadono disordinati oltre la spalla, forse per fare compagnia a una lacrima. Andrò via, sparirò. Granello dopo granello, perderò me stessa in questo solitario addio.
"Vieni pure morte, sii la benvenuta, Giulietta vuole così".
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