TEMPŬS

Gabriel si fermò di fronte all'antico orologio. Chissà se intuiva che lei era stata lì, in quel punto esatto dello spazio, solo qualche ora indietro nel tempo. Fissò con sguardo accigliato quel capolavoro di intagli e armonia lignea che sembrava essere sfuggito per magia agli assalti dell'usura. Nella nicchia centrale, adornata da foglie e fiori, una splendida ninfa dalle ventilate vesti reggeva il centro di una clessidra. La polvere nera si era quasi del tutto adagiata sul fondo dell'ampolla. In breve le rotelline dentate si sarebbero attivate, per permettere alla fanciulla di operare la sua involontaria magia e capovolgere i vasi, ma quella sera non sarebbe accaduto. Lui non avrebbe dato la corda, non avrebbe più alimentato quel meccanismo. A mezzanotte avrebbe udito soltanto un clic strozzato, segno che gli ingranaggi si erano bloccati e che lì sarebbero rimasti, immobilizzati in quella corsa interrotta. Era lui che voleva così.

Quel piccolo esercizio di potere lo fece sentire importante, e aveva bisogno di quella sensazione per sostenere la sua volontà, che in realtà vacillava.

Clic...

Il suono arrivò e si interruppe. Gabriel rimase a osservare la lenta agonia dell'orologio che si bloccava. Era finita. L'aveva fatto. Restò immobile, come svuotato, a seguire le linee lucide delle decorazioni a distanza di sicurezza, sufficiente per impedirgli di cedere alla tentazione di toccarle.

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Non aveva mai saputo con precisione da dove fosse saltata fuori, quell'opera d'arte in miniatura. Aveva ereditato quella magnifica casa alla morte dei nonni. Il giorno prima era ancora l'affittuario di un minuscolo appartamento in centro, che giudicare minimalista era un pietoso eufemismo. Quello successivo era il proprietario di una villetta storica alla periferia di York. Era stato un passaggio dalla morte alla vita, dall'immaturità all'età adulta, dallo squallido mondo che conosceva alla meraviglia del fantastico. I primi tempi si era aggirato tra quel mobilio rétro e quelle lampade liberty con l'ironica insofferenza dei suoi ventotto anni e il leggero snobismo da Millennial consumato. Pian piano, però, aveva cominciato a subire il fascino di quella casa che sembrava essere giunta a lui come un messaggio nella bottiglia, sopravvivendo miracolosamente intatta allo scorrere del tempo. Aveva ricostruito i suoi sbiaditi ricordi di bambino, i profumi e i colori della memoria che aveva messo da parte. Aveva riallacciato i rapporti sfilacciati con se stesso e con i suoi affetti che il lavoro e la frenesia della città gli avevano fatto trascurare.

Aveva passato pomeriggi solitari a tirare fuori dalle scatole i ricordi di sua nonna e a sfogliare polverosi album di fotografie, rinunciando agli aperitivi cool con il solito gruppo di amici del week-end. Aveva cominciato a studiare gli oggetti, cercando di apprezzarne la storia e il valore. L'orologio che troneggiava al centro del salotto aveva subito attirato la sua attenzione. La corona con le lancette era in cima e sormontava una deliziosa statuetta di ninfa attorniata da decorazioni floreali. La fanciulla sembrava incedere verso l'osservatore, tendendo verso di lui una clessidra. Aveva cercato di sollevarlo con delicatezza, per paura di poterlo danneggiare. Voleva capire se fosse possibile farlo ripartire in qualche modo, dal momento che i meccanismi sembravano fermi da tempo immemore. Nel farlo, un biglietto era scivolato ai suoi piedi. Lo aveva raccolto, riconoscendo la scrittura elegante di suo nonno. 

La paura uccide il tempo, l'amore lo valica.

Quella frase, indirizzata a nessuno, Gabriel l'aveva interpretata come un messaggio rivolto a lui. Così si era messo in testa di far ripartire gli ingranaggi, aveva trovato la chiave per dare la corda e l'aveva azionata. Aveva regolato le lancette e ammirato il suo operato, poi era andato in cucina a prepararsi la cena, intimamente soddisfatto come se avesse riportato alla luce un tesoro.

A mezzanotte le lancette si erano sovrapposte. Il rumore netto di uno scatto era rimbalzato sulle pareti silenziose del soggiorno facendo sobbalzare Gabriel, che stava quasi cedendo al sonno mentre si sforzava di arrivare alla fine del capitolo. Lui si era sollevato sul divano, mettendo via il libro, e si era girato a guardare l'orologio. Il complesso meccanismo si era messo in moto, la ninfa stava ruotando la clessidra. Il giovane seguì quel movimento con curiosità e ammirazione. Era davvero incredibile pensare che qualcuno era riuscito a infondere tanta abilità dentro una piccola scatola piena di ingranaggi. La polvere nera cominciò a piovere verso il fondo. Era di un colore metallico, un grigio antracite piuttosto in contrasto con la leggerezza di quell'oggetto. Appena toccato il fondo dell'ampolla, però, aveva cominciato a risplendere. Gabriel aveva strizzato le palpebre un paio di volte, poi si era deciso ad alzarsi per osservare quello strano fenomeno più da vicino. Si era chinato a esplorare l'interno della clessidra, mentre un'espressione di stupore si era fatta strada sul suo viso. Non si era sbagliato: la polvere scura ricadeva luminosa sul fondo. Era di un chiarore abbagliante, al punto da obbligarlo a chiudere gli occhi per qualche istante, come se avesse fissato troppo a lungo una lampadina.

Gabriel era arretrato di un passo, aveva cercato di schiarirsi la vista, ma la situazione attorno a lui non aveva fatto che peggiorare. Quel lucore incredibile lo vedeva anche di fronte a sé, come se la polvere all'interno della clessidra si fosse proiettata in un cono di luce che partiva dal tappeto ai suoi piedi e iniziava a prendere forma nello spazio che lo separava dall'orologio.

Con la gola asciutta per lo spavento e gli occhi stralunati, Gabriel aveva fissato il pulviscolo che vorticava e si modellava rapidamente, prima di restituire la forma esatta della ninfa scolpita nel legno. Lui era indietreggiato ancora di fronte a quello spettacolo bellissimo e terrificante. Era indeciso se infilare la porta e scappare a gambe legate, quando la ragazza aveva aperto gli occhi lentamente, rivelando le sue iridi verdi e piene di vita. Quel colore, quella forma perfetta, l'onda dei suoi capelli color del miele lo avevano inchiodato al pavimento, impedendogli la fuga.

Lei aveva dischiuso piano le labbra delicate, lo aveva salutato con voce lieve e gli aveva sorriso. Quel sorriso lo aveva fatto perdere. Quel sorriso li aveva persi entrambi.

L'aveva chiamata Zoe, che significa "essenza della vita", perché, per quanto assurda e improbabile continuasse a sembrargli quella situazione, lei era viva. Parlava, si muoveva e respirava esattamente come lui. L'unica differenza tra loro era che lei esisteva solo per dodici ore. Da mezzanotte alle dodici del giorno successivo. Quando la clessidra si voltava e la sabbia ritornava nera, lei si dissolveva così come si era materializzata. E se l'orologio si fermava, lei non esisteva affatto. Per convincere se stesso di non essere diventato pazzo, Gabriel aveva fatto tutte le possibili prove: non caricare l'orologio, dare la corda a ore diverse, saltare un giorno, poi due. Il risultato era sempre lo stesso. Quando il meccanismo funzionava, la clessidra si girava a mezzanotte e Zoe compariva in salotto. Ed era così bella, così spontanea, che Gabriel non riusciva ad avere davvero paura di lei. Non quanto avrebbe dovuto, almeno. Dopo i primi giorni in cui era stato cortese e guardingo, aveva ceduto alla curiosità e aveva iniziato a parlare con lei. Notte dopo notte, il loro era diventato quasi un appuntamento, fino alla sera in cui Gabriel si era reso conto, oltre ogni ragionevolezza, di aver aspettato per ore che giungesse mezzanotte, con un'ansia e un'agitazione che non aveva mai provato prima di allora. Così, quella notte, quando Zoe era apparsa, l'aveva baciata.

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Gabriel scosse il capo, cercò di allontanare da sé quel ricordo. Non doveva più pensarci. Era stata tutta un'amara follia, fin dall'inizio. Non avrebbe mai dovuto farsi trascinare oltre la soglia del possibile. I sogni, si ripeté, appartenevano alla notte, all'incoscienza. La realtà alla luce del giorno, alla ragione. Era da stupidi o da folli tentare di trascinare il sogno nella realtà. Guardò una volta ancora le lancette inerti, bloccate a un passo da quella mezzanotte eterna cui lui le aveva condannate. Diede un'occhiata all'orologio che portava al polso. Era quasi l'una. Di Zoe non c'era alcuna traccia. Aveva finito con lei, con tutta quell'assurda faccenda. Era bastato poco, si disse, cercando di ignorare il battito accelerato del suo cuore.

A dispetto della sua calma apparente, infatti, una fitta di dolore gli stava attraversando l'anima. La coscienza improvvisa di quell'assenza gli bruciava ogni fibra del corpo. Non era tipo da piangere, non se lo concedeva mai. Al posto delle lacrime represse, sentiva montarsi dentro un fuoco che lo agitava e tormentava, e che sembrava troppo difficile da estinguere in silenzio.

Cercò di controllare quella tortura. L'assenza. Lei era l'assenza. Il vuoto improvviso che aveva invaso la stanza e insieme la sua mente, e che non se ne andava, anzi sembrava ingigantirsi minuto dopo minuto. Gabriel cominciò a urlare, tanto nessuno avrebbe mai potuto sentirlo. Urlò la sua rabbia, la sua frustrazione. Urlò il dolore di non essersi sentito mai tanto solo, la consapevolezza di essere stato lui a perderla, e a perdersi. Urlò contro i suoi occhi che erano smeraldi nella notte, contro le sue mani da farfalla, contro la tenerezza della sua pelle, contro la dolcezza delle sue parole. Urlò contro i sogni che non erano in grado di battere la realtà. Urlò con tutto il fiato che aveva in gola, fin quasi a sputare via il cuore, ché tanto non gli serviva più, quell'organo stupido e inutile. Urlò perché gliela riportassero indietro, dal momento che lui era così sciocco e debole da non avere la forza di riportarla da sé. Urlò e poi fece l'unica cosa di cui era capace: distruggere ogni cosa se non poteva averla.

Sollevò l'orologio e lo scaraventò sul pavimento. Il fragore prodotto da quella caduta rimbombò tra le quattro pareti assieme al tintinnare metallico di rotelline dentate che schizzavano da ogni parte e allo stridio dei vetri infranti. La piccola ninfa si spezzò, le sue braccia persero la presa sulla clessidra, che si aprì a metà. La polvere nera si disperse nell'aria e si sparse per terra. La stanza piombò di nuovo in un silenzio di morte.

Gabriel osservò con triste gioia i resti della sua impotenza. Calciò via un piccolo fiore di legno con la punta della scarpa, calpestò i granelli che sporcavano il tappeto e uscì dalla stanza sbattendo la porta.

Entrò in camera da letto senza accendere la luce, si gettò come morto tra le lenzuola. Si lasciò affogare in un sonno senza sogni, oscuro e tormentato come lo era la sua anima in quel momento. Si addormentò su un cuscino bagnato di lacrime, le prime che avesse mai ricordato di aver versato da quando era bambino.

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La porta si dischiuse piano, lieve come un sospiro. I piedi nudi, offesi da qualche piccola scheggia di vetro, sfiorarono il pavimento e si fermarono appena oltre la soglia. Attorno c'era solo buio, che nascondeva il disordine della stanza. Gabriel giaceva sul letto. Il suo riposo agitato aveva imperlato di sudore l'attaccatura dei capelli scuri, le sue mani erano contratte sulla stoffa.

Zoe avanzò fino a sfiorarlo, lo guardò con una punta di dolore. Persino nell'abbandono del sonno, la sua sofferenza era palpabile e lei desiderò soltanto alleviarla. Tese una mano a sfiorargli il viso, poggiò un ginocchio sul letto e si curvò verso di lui. Gli carezzò la guancia, lasciò scivolare le dita sul collo. Gabriel si girò con una smorfia, dalle sue labbra sfuggì un verso rauco, dolente. Zoe si arrestò, ritrasse il braccio, poi ammirò per qualche istante quel volto, quel corpo che amava fino allo struggimento. Gli poggiò il palmo sul cuore e quel contatto le trasmise finalmente il calore che tanto bramava. Si distese al suo fianco, si strinse a lui, affondò la testa nell'incavo della sua spalla, poi cercò il suo orecchio con le labbra.

"Adesso, amore mio, nessun tempo potrà più separarci".

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