Capitolo 11: A zonzo
Il mattino seguente, prima di uscire di casa per andare a scuola, cercai senza successo di parlare con mia madre riguardo a quello successo la sera prima.
Dopo il brutto litigio con mio padre, non era venuta in camera mia per rassicurarmi.
Nonostante la mia insistenza, fui liquidato con poche parole cariche di tristezza.
Abbattuto e irritato mi diressi a scuola con più voglia del solito di saltarla.
Una volta arrivato in prossimità dell'edificio, una voce alle mie spalle mi fece fermare.
«Mirco!»
Con estrema lentezza mi voltai rimanendo di stucco nel vedere che quella voce era di Rebecca.
«Ti ho spaventato?» mi chiese imbarazzata.
«No... cosa... cosa ci fai qui?»
«Diciamo che volevo parlare con te» rispose roteando gli occhi.
«Ho poca voglia di fare chiacchiere se devo essere sincero» ribattei a braccia conserte.
«Mi spiace per come è andato il nostro ultimo incontro... per me... è complicato parlarne» disse a fatica e con gli occhi rivolti a terra.
Trafitto da quella dichiarazione e travolto dai sensi di colpa per come mi ero comportato, lasciai andare le braccia sui miei fianchi e le risposi con:
«Sono stato uno scemo, non hai niente di cui scusarti.»
«Cosa? No, sei stato dolce, forse anche un po' petulante, ma non sei stato uno scemo!» ribattè decisa.
In seguito a quelle parole con un atmosfera più leggera le feci una domanda.
«Non rischi di arrivare tardi a scuola?»
«Oggi non ho proprio voglia di andarci» rispose con un velo di tristezza sul volto e con la sua mano destra stretta sul suo braccio sinistro.
«Tutta la fatica fatta per metterti l'uniforme andrà sprecata» commentai con un sorrisetto mentre osservavo il suo fiocco rosso.
«L'uniforme è orrenda vero?» chiese imbarazzata.
«Solo un po'» ammisi dispiaciuto.
«Io l'ho sempre detto che questa maglia blu notte è troppo impersonale e che questa gonna è da vecchiette. È troppo lunga!» disse con il broncio.
Qualche secondo dopo quell'esternazione, le feci una proposta senza averci riflettuto troppo.
«Siamo in due a non avere tanta voglia di andare a scuola. Ti va di fare un giro?»
Il suo bel viso si illuminò come quello di una bambina al suo compleanno.
«Certo!» rispose entusiasta.
«Ti va di andare dentro Roma?» chiesi sollevato.
Con una mano sui suoi capelli raccolti in una coda di cavallo ed espressione dubbiosa mi rispose con dei semplici «Mmm.»
«Cosa ti piacerebbe fare?» le chiesi con la vaga speranza di ottenere una risposta precisa.
«Non so. Mostrami il quartiere.»
«Sicura? Non è poi così bello come posto» affermai con la paura di annoiarla mentre mi guardavo attorno.
«Non ho particolari pretese, vorrei solo passare del tempo con un vecchio amico.»
Rincuorato da quelle parole, accettai la sua richiesta.
«Andiamo al bar di Anna, come prima tappa» affermai qualche secondo dopo esserci messi a camminare vicini.
«Si chiama così o è solo come lo chiami tu?»
«Cambierebbe qualcosa per te?» ribattei giocoso.
«Semplice curiosità.»
«Capisco» risposi a bassa voce.
«Quindi? Hai detto qualcosa?»
«Il bar ha un altro nome, è conosciuto come bar di Anna per via della sua proprietaria, una donna forte e simpatica.»
Qualche secondo dopo, Rebecca tornò alla carica con le domande.
«Com'è il posto?»
«Carino, all'interno è decorato come un pub inglese, ma non vende alcolici ai minori.»
«Ci vai spesso?»
«Cos'è questo un interrogatorio?» ribattei divertito.
«Scusa, è vero. Fa una domanda su di me» propose lei parandosi davanti a me.
«Non mi viene in mente nul-»
«Chiedimi qualsiasi cosa!» mi interruppe decisa.
Interdetto per qualche istante, dopo aver socchiuso gli occhi e preso un lungo respiro, feci la mia domanda.
«Quella volta hai confessato di essere vittima di bullismo?»
Riaperti gli occhi Rebecca mi apparve a disagio.
«Era meglio se rimanevo zitto» commentai in preda all'imbarazzo.
«Io non... forse è proprio così» affermò mesta e a testa bassa.
«Non insisterò se non vuoi parlarne.»
«Va bene. Voglio farlo» dichiarò con una mano sul petto.
«Qui vicino c'è un posto più appartato, se devi raccontarmi come stanno le cose è me-»
«Non hai brutte intenzioni?» mi interruppe preoccupata.
Sconcertato da quella domanda fatta in maniera tanta schietta rimasi muto e a stento mantenni un'espressione calma.
«Ho detto qualcosa di stupido?»
«Certo che sì!» urlai offeso.
«Scusa, credo di aver parlato per stemperare la situazione» affermò qualche attimo dopo giocosa.
«Ok... Comunque ripeto che non sei obbligata.»
«Forse al bar sarò in grado di raccontare tutto con più facilità» ipotizzò Rebecca guardando una delle sue mani con dei cerotti.
Una decina di minuti dopo, trascorsi a raccontarci vecchie storie sui nostri anni alle medie, arrivammo al bar.
Non c'erano molti clienti e c'era solo Anna a lavorare.
Pochi secondi dopo aver preso posto su uno dei tavoli all'interno.
«Saltato scuola? Cosa vi porto?» ci chiese Anna con un vassoio nero vuoto sulla mano destra.
«Per me una fanta» dissi con i gomiti poggiati sul tavolino.
«Io invece prendo un cappuccino» asserì Rebecca.
Prese le ordinazioni, Anna si diresse al bar poco lontano da noi.
«Lei è Anna?» chiese Rebecca sporgendosi di poco verso me.
«Sì, delusa?»
«No, il posto è carino» rispose mentre si guardava intorno.
«Ora che siamo qui vuoi parlare di... insomma... hai capito?» chiesi spostando diverse volte lo sguardo dalle mie mani ai suoi occhi.
«Sì. Ho capito. Solo che... da dove posso iniziare?»
Mentre Rebecca rifletteva e io morivo dall'ansia di scoprire la verità, Anna con un bel sorriso ci venne incontro con le nostre ordinazioni.
«Ecco a voi cari.»
«Grazie» dicemmo io e Rebecca all'unisono.
«Tu non sei di queste parti» commentò Anna riferendosi a Rebecca.
«No, si nota tanto?»
«Sì. È la prima volta che una ragazza di una scuola privata viene nel mio bar» asserì Anna divertita.
«Merito mio» mi intromisi con una mano alzata a metà e catturando l'attenzione delle due.
Anna sorrise dopodichè se ne andò.
Mentre Rebecca beveva il suo cappuccino io mi limitai ad aspettare una sua parola, una qualsiasi.
«Ella Ianello» proferì calma, dopo qualche sorso.
«Sarebbe?»
«La prima amica che mi sono fatta nella mia scuola e anche...Anche» disse mesta, per poi continuare dopo qualche secondo di pausa, «colei che mi ha messo in questa situazione.»
I miei occhi erano sgranati e diversi pensieri si stavano affollando nella mia testa.
"Perché questa Ella le ha voltato le spalle? Era la sua intenzione fin dall'inizio? È solo un malinteso? Centra una cotta?"
«L'ho rifiutata nel giorno del suo compleanno» confessò sottovoce.
«Eh?» chiesi stupito.
«Sono stata troppo diretta, ma... non sapevo... io...» disse con le lacrime agli occhi.
«Rebecca fermati!» affermai mentre le avvicinai un tovagliolo preso da un dispenser sopra al tavolo.
«Vado un attimo in bagno. Torno subito» asserì poco prima di alzarsi.
Senza dire niente, rimasi immobile a metabolizzare la notizia e a bere la mia fanta.
Diversi minuti dopo, Rebecca tornò al tavolo con il viso umido e sguardo afflitto.
«Pago e ce ne andiamo. È stata un'idea tremenda» affermai stizzito per poi alzarmi.
«Scusa» disse sottovoce.
«Non hai niente di cui scusarti» replicai irritato con i pugni serrati e con gli occhi chiusi.
«Vuoi che continui?»
«No. Hai pianto e non voglio che succeda di nuovo» dichiarai con gli occhi aperti e rivolti nei suoi.
«Scu-»
«Piantala!» le intimai, interrompendola per poi mettere le mie mani sulle sue spalle.
«Voglio farti passare una bella giornata, mi racconterai tutto più in là, ok?» continuai nel modo più pacato possibile per poi sorriderle.
«Che succede?» domandò spaventata Anna, venuta ad accorrere da fuori.
Dopo averci visto così vicini e presi, fece uno strano sorriso e con le mani sui fianchi ci rimproverò bonaria.
«Una giovane coppietta così bella non dovrebbe bisticciare»
Rebecca colpita da quella predica spalancò la bocca per pochi istanti, mentre io colto dal panico replicai.
«Non stiamo insieme, lei è solo un'amica e noi stava-»
«Mi spiace è stata colpa mia» mi interruppe Rebecca imbarazzata.
Anna, prossima a spanciarsi dalle risate, ci diede le spalle e andò dietro al bancone.
«Chissà cosa penserà di noi» mi chiese Rebecca sottovoce.
«Ha importanza?»
Rebecca indispettita da quella domanda mi diede un piccolo calcetto sulla gamba destra.
«Posso chiarire se ti va» proposi divertito.
«Ecco... sì... cioè... Paghiamo e basta» affermò in preda all'imbarazzo.
Arrivato il momento di pagare, dopo una piccola schermaglia, Rebecca ebbe la meglio e pagò tutto lei.
«È così bello vedere una ragazza che offre qualcosa al suo fidanzato» commentò Anna, poco prima di andarcene.
Nessuno dei due osò ribattere.
Una volta fuori, Rebecca, forse per non pensare a quanto successo, si mise a parlare a vanvera di una marea di cose, mentre camminava a gran velocità.
Fu arduo rimanere al suo passo e ribattere a tutto ciò che disse, ma in un certo senso anche divertente.
Arrivati nei pressi della stazione Laurentina, Rebecca notò un piccolo monumento circolare grigio con tre facce deformi che torreggiavano sopra.
«Quello è un monumento dedicato alle vittime delle foibe» dissi attirando la sua attenzione.
«Mi ispira una strana angoscia» commentò lei pochi secondi dopo.
«L'artista che l'ha fatto sarebbe felice di saperlo. Spero di riuscire a trasmettere emozioni come lui con le mie opere.»
«Ci riuscirai. Tuo padre si è vantato tanto di te.»
Colpito da quella affermazione, digrignai i denti e con sguardo e voce carichi di odio le chiesi
«Cos'ha detto quel farabrutto?»
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