Arcade - Duncan Laurence
«Signor Romano, complimenti. Ha preso l'ennesimo tre nel compito. Quando si metterà a studiare seriamente? Le ricordo che quest'anno ha l'esame di maturità.» Guardando il professore negli occhi, senza rispondere, andai a ritirare la mia verifica di storia. Oramai, mi ero rassegnato. Da quando la mia Rosa Blu era morta, era andato tutto a puttane. La famiglia, la scuola, gli amici, il lavoro e soprattutto i soldi. Tutto.
I miei genitori hanno divorziato. Papà voleva scappare in Germania con una tipa conosciuta online. La mamma voleva diventare una stripper e vivere la vita facendo la troia. Insomma si erano messi d'accordo, no?
Ho iniziato a smettere di studiare, di ascoltare in classe, prendere appunti e fare i compiti. Di conseguenza, la mia media già poco brillante, era diventata un vero e proprio disastro. Consegnavo temi in bianco, al posto di fare disequazioni facevo equazioni e alle interrogazioni mi limitavo a fare scena muta. Saltavo giorni di scuola che puntualmente non giustificavo mai. Tanto mia madre non mi avrebbe firmato i fogli necessari.
Ho chiuso i rapporti con chiunque. Sono uscito da tutti gruppi di amici, bloccato compagni di lavoro e molto altro. Non ero mai a casa, uscivo sempre ma evitavo i luoghi frequentati dai miei coetanei. In classe nessuno mi parlava più, rintanato nel mio angolo in fondo alla classe vicino alla finestra.
Lavoravo come fattorino in una pizzeria vicino alla scuola. Avevo 18 anni e il motorino, ero autonomo. Volevo iniziare a guadagnare soldi. Volevo risparmiare per il mio futuro. Appunto. Volevo. I miei soldi li avevo buttati al vento ed ero diventato dipendente dalle slot-machine. Ero diventato dipendente da una partita persa. Non avevo mai vinto nulla in quei tre mesi, ma passavo le mie giornate al bar. Ho inziato a saltare alcuni giorni di lavoro. Poi i giorni diventarono settimane e infine mesi. Morale della favola? Venni licenziato.
Ero arrivato agli spiccioli, così iniziai a rubare dalla borsa di mia madre. Con il suo nuovo "lavoro" guadagnava centinaia e centinaia di euro a sera. Lei non se n'è mai accorta, d'altro canto era sommersa di banconote. Prendevo una mazzetta da duecento ogni settimana. Ma per ogni mazzetta che prendevo, ne arrivavano altre dieci. E andava avanti così, tutti i giorni.
Alla fine delle lezioni, uscì dalla classe e mi avviai verso la fermata del pullman. Abitavo in una piccola città vicino al liceo che frequentavo e non conoscevo letteralmente nessun ragazzo della mia città che andasse nella mia stessa scuola. In autobus mi sedetti e non parlai con nessuno, scazzato più che mai. Non solo per il voto, ma anche perché un gruppo di primini aveva osato sedersi nei posti davanti. Quelli erano i miei posti da sempre, dove mi sedevo per uscire da quel catorcio di veicolo per primo.
Dovetti andare in uno dei posti dietro. Misi subito le cuffie e la musica sparata a palla nelle mie orecchie, per evitare che qualcuno si prendesse la briga di parlarmi. Ma tanto non lo avrebbe fatto nessuno. La fermata nella mia città era l'ultima, dovevo aspettare un'ora per poter scendere. Feci quello che facevo sempre: pensai a Lei, la mia Rosa Blu.
Si chiamava Kelly, Kelly Adams. Si era trasferita in Italia dall'America quando aveva sette anni. Me lo ha raccontato nei primi mesi in cui ci frequentavamo. L'ho conosciuta a scuola, era in classe mia. In prima superiore non ho avuto il coraggio di parlarle. In seconda abbiamo iniziato a frequentarci e in terza le ho chiesto di essere la mia ragazza. Io avevo molti amici in classe ma nessuno sapeva, o si è mai interessato, della mia relazione con Kelly.
Lei a scuola era come invisibile. Non aveva amiche, era discretamente brava e non faceva nessun corso extra-scolastico. Quando è morta, nessuno apparte io e i prof eravamo dispiaciuti. Io ero proprio distrutto. I prof non sapevano di noi, per questo non capivano il mio comportamento.
Lei era un angelo. I lunghi capelli biondi le incorniciavano il suo viso ovale. I suoi occhi blu mi ricordavano il cielo di notte. Era molto brava con i bambini, avendo due fratellini di cinque anni. È morta per salvare Adam, uno dei gemelli. Stava per finire sotto una macchina, quando lei lo ha spinto per prendere il suo posto. Dopo un coma di tre settimane, ci ha lasciati per sempre. Ora sarà il mio angelo custode e guarderà me, Adam e Liam dal Paradiso.
Finalmente, ecco la mia fermata. Dovetti uscire dalla porta più vicina all'autista, perché l'altra era bloccata. Pensavo di essere l'unico, ma davanti a me vidi un'altra ragazza con la stessa divisa della mia scuola. Non poteva essere. Decisi di seguirla, volevo vedere se effettivamente era una mia con-cittadina o solo un'amica di qualche mio vicino di casa.
Le stetti dietro fino a quando si fermò davanti una piccola villa. Suonò al citofono. «Mamma sono io, sono Chiara.» Quella era la prova, abitava qui. E con mio stupore mi resi conto di dove mi trovassi: qualche casa più avanti c'era la villa dove abitavamo io, mi madre e una coppia di anziani. Scossi la testa e tirai dritto, dovevo farmi gli affari miei.
«Ehy, guarda dove cammini!» Senza accorgermene, ero andato a sbattere contro quella ragazzina dai capelli tinti di viola. Non erano completamente tinti, solo dalla bocca in giù. Per il resto erano color cioccolato, il suo colore naturale presumo. E i suoi occhi. Erano marroni ma di un marrone diverso. Con la luce del sole sembrava quasi dorato. «Che c'è? Il gatto ti ha mangiato la lingua o sei solo troppo stronzo e orgoglioso per chiedere scusa?»
Mi risvegliai dal mio stato di trans. C'erano dei libri per terra, così mi chinai a raccoglierli. «Scusa, mi sono distratto.» Dissi mentre le ridavo i volumi. Lei ridacchiò, con una risata così cristallina che il canto degli uccelli era nulla paragonato a quel dolce suono. «Lo avevo notato. Vai anche tu al Liceo Scacchi, che classe frequenti?» La mia coscienza mi diceva di allontanarmi velocemente, ma il mio corpo non si muoveva.
«Faccio il quinto anno. A quando vedo tu sei al quarto, quel libro di matematica lo avevo anche io l'anno scorso.» La madre della ragazza si affacciò dalla finestra, invogliandola a entrare in casa per il pranzo. «Devo andare, se non mangio velocemente farò tardi alle lezioni di pianoforte. Per fortuna domani ho ginnastica e non ci sono compiti. Allora ci vediamo in giro.» Mi salutò ed entrò velocemente in casa. «Ci vediamo in giro, Chiara.» Sapevo che non poteva sentirmi.
***
Non trovavo il libro di letteratura da nessuna parte. In cartella non c'era, nello scaffale nemmeno e sulla scrivania neanche l'ombra. Controllai un'altra volta lo zaino, perché il libro lo avevo oggi a scuola. Qualcuno suonò il citofono. Scocciato, andai verso la cucina per rispondere. «Sì?»
«Sono Chiara, la ragazza di quarta che abita qui vicino. Per sbaglio ho preso il tuo libro di italiano.» Un sorriso mi spuntò sulle labbra e quando me ne accorsi, abbassai subito gli angoli delle labbra cercando di assumere un'espressione neutra. «Entra pure, lo stavo giusto cercando.» Le aprì il cancello, per poi dirigermi verso la porta di casa. Avrei impiegato pochi minuti: avrei preso il libro e l'avrei salutata. Ma quando aprii la porta, le mie intenzioni fallirono miseramente.
Chiara non aveva più la divisa. Ora indossava dei jeans chiari e una maglietta a maniche corte bianca. Reggeva il mio libro in una mano e nell'altra teneva degli spartiti. E guardava dritto nei miei occhi verdi, con un sorriso. Ricambiai il sorriso mentre prendevo il libro. «Grazie, deve essere caduto quando ci siamo scontrati e per sbaglio l'ho dato a te.» Lei rise, concordando con me. Quella risata mi frullò il cervello. «Non ti ho ancora chiesto come ti chiami. Sul libro non c'è nessuna etichetta.»
«Luca. Mi chiamo Luca. E tu sei Chiara.» Lei sussultò, forse si era spaventata. Magari pensava fossi uno stalker. «Ho letto il nome sull'etichetta del tuo libro di matematica, prima.» Dissi cercando di rimediare. «Lo immaginavo.» Rispose con un sospiro di sollievo.
«Devo salutarti, sono in ritardo per le lezioni di pianoforte. La scuola è a qualche kilometro da qui e devo andarci a piedi.» Guardò l'orologio e iniziò a spostarsi verso il cancello. «Anzi, mi sa proprio che dovrò correre.»
«Posso accompagnarti io. Ho il motorino, ci impiego poco ad accenderlo. Arriverai in tempo e senza fiatone.» Le proposi. Ora o mai più. «È il minimo che possa fare, visto che hai perso tempo per me. Per riportarmi il libro.» Lei sgranò gli occhi. «Lo faresti davvero?» Risi annuendo, mentre la invitavo a seguirmi in garage. Accesi il mezzo e le passai un casco bianco, mentre io infilavo la testa in un casco nero togliendomi i capelli scuri dal volto.
«Se è la tua prima volta su un motorino, ti consiglio ti tenerti stretta. Gli spartiti li puoi mettere in borsa, se non ti dispiace. Così non volano via.» Chiara salì sul motorino. «Tenermi a cosa?» Io mi girai. «A me.» Risposi e subito dopo schiacciai il piede sul pedale. Lei lanciò un gridolino terrorizzato e in men che non si dica sentì le sue braccia avvolgermi e le sua mani sopra la mia maglietta.
Dopo cinque minuti, eravamo arrivati. La lasciai, prendendo il casco e chiedendole se voleva un passaggio anche a fine lezione. «Tranquillo, dopo posso tornare a piedi. Grazie del passaggio!»
***
La giornata stava per finire, mancavano solo le due ore di educazione motoria. Il giorno prima non avevo detto a Chiara che le nostre classi facevano ginnastica assieme. Volevo che fosse una sorpresa. Volevo vedere se mi avrebbe notato come io avrei cercato lei.
Ma non andò come immaginavo.
Io la vidi e lei mi vide ma non avevamo avuto nessuna occasione per parlarci. Tranne quando arrivò il peggiore dei momenti.
Ero fermo. La classe si era divisa in tre squadre per fare dei tornei di pallavolo e in quel momento la mia squadra non stava giocando. Ero fermo. Ma il mio respiro si spezzò. Non riuscivo a respirare. Tesi le mani e le strinsi a pugno, più di una volta. Mi venne l'impulso di mangiarmi le unghie. Iniziai a muovere una gamba e poi mi grattai il braccio fino a farlo sanguinare. Come un fulmine andai dalla prof, per chiederle se potessi andare in bagno. Lei me lo permise, con uno svogliato gesto della mano.
E mentre uscivo dalla palestra per dirigermi negli spogliatoi, mi voltai a fissarla. Chiara si accorse del mio sguardo, così girò la testa e incatenò i suoi occhi ai miei. Evidentemente capiì subito che c'era qualcosa che non andava, che stavo male. Continuai a camminare e sentì la sua voce chiedere al suo insegnante la stessa cosa che io avevo chiesto alla mia.
In palestra c'erano gli spogliatoi maschili e femminili, ma il bagno era in comune. Andai lì, sprofondando per terra perché le gambe non mi reggevano più. Cercai sostegno appoggiandomi al muro. E poi entrò lei, la mia salvatrice. Dovevo avere qualche allucinazione perché quando la vidi, era ricoperta da un'aura bianca e sembrava un angelo. Pensai che fosse stata Kelly a farmela incontrare. Lei, il mio Angelo Custode, non voleva lasciarmi solo.
«Luca. Guardami.» Chiara mi prese il volto tra le mani, costringendomi a guardarla. «Come ho fatto a non notarti. Abbiamo passato tutto l'anno a fare lezione insieme e non ti ho mai vista.» Quando capì che non riuscivo a respirare, si allontanò per aprire la finestra e tornò subito da me. Molta gente piange durante gli attacchi di panico e questo non aiuta perché fai ancora più fatica a respirare. Io non ho mai pianto. Non perché sono un ragazzo, ma perché non voglio peggiorare la situazione.
«Respira. C'è aria fresca ora, tutta quella che vuoi. Con calma, dimmi perché stai avendo un attacco di panico.» Io risi, di una risata amara e isterica. «Dire cosa l'ha causato non aiuta, anzi. Pensi solo di più a quanto sei sbagliato.» Improvvisamente smisi di ridere. Perché stavo capendo, che non avevo motivi che mi potessero scatenare un attacco simile. «Io non ho motivi... Non ho motivi, è successo all'improvviso e senza motivo.»
«Tu non sei sbagliato. Non lo sei, sei l'unico ragazzo della scuola che mi parla. E mi tratti bene, mi hai anche offerto un passaggio. Non puoi essere sbagliato.» La vidi con le guance rosse, come se stesse per piangere.
«Lo sono invece. Io odio me stesso e mi faccio paura. La mia ragazza è morta in un incidente tre mesi fa e non ho potuto fare nulla. Mi rimane solo un cuore spezzato che perde pezzi mentre cerco di aggiustarlo. Non studio più, ho perso il lavoro e sono diventato dipendente dal gioco d'azzardo. Sono solo un fallito.»
Alzai il mio sguardo verso di lei e vidi che stava piangendo. Le misi una mano sulla guancia, asciugando via una lacrima. «Sono io quello che dovrei piangere eppure lo stai facendo tu.» Mi abbracciò e io mi aggrappai a lei come se fosse la mia ultima sponda. E mentre la mia dolce Chiara piangeva sulla mia spalla, io riuscì a calmarmi. Mi staccai dall'abbraccio e la guardai negli occhi.
«Scappiamo. Andiamo a casa nostra. C'è un autobus che passa tra poco. Alla mia classe non importa nulla di me, o sarebbero già venuti a cercarmi. La prof pure. Saltiamo l'ultima ora e andiamo a schiarirci le idee. Portami a casa.» Lei, Chiara, che sarebbe presto diventata la mia Rosa Nera, mi fissò negli occhi. Potevo leggerle ogni sfumatura della sua anima. Poi annuì. «Ok, facciamolo. Neanche al mio prof interessa più di tanto, oramai sono segnata presente. Però, d'ora in poi ti aiuterò a studiare o almeno ci proverò. Hai l'esame quest'anno. Ora usciamo e prendiamo quell'autobus.»
Immagina dedicato a BelMa-Pattinson
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