Jeannette I


La voce acuta di Jeannette danzava tra gli alti e sinuosi profili degli alberi, accompagnata dal fruscio dei suoi passi sull'erba bagnata di rugiada. Il secchio con cui doveva prendere l'acqua al fiume le sbatteva ogni due passi contro la gamba, segnando il tempo del motivetto che la fanciulla andava canticchiando.

«À la claire fontaine m'en allant promener, j'ai trouvé l'eau si belle que je m'y suis bagné. »

Quella era stata la canzone preferita di sua sorella, che era solita cantarla mentre lavava i panni. Philippine aveva però una voce molto più gradevole e melodiosa della sua, una voce che incantava chiunque passasse vicino casa nei giorni di bucato e che aveva infine spinto il marito a proibirle di cantare: quella ballata, a suo dire, suonava come una profferta amorosa e non era dunque adatta a una donna timorata di Dio, sposata e già con un figlio in arrivo.
Erano passati diversi anni da quando Jeannette l'aveva udita l'ultima volta, ma ne ricordava ogni parola: era un piccolo, ma solido legame con l'unica sorella che le avesse mai dimostrato un poco d'affetto.

«Sous les feuilles d'un chêne, je me suis fait sécher. Sur la plus haute branche, un rossignol chantait. Il y a longtemps que je t'aime, jamais je ne t'oublierai.»

La ragazzina aggrottò le sopracciglia nel tentativo di comprendere per l'ennesima volta cosa ci fosse di sconveniente in quei versi: non le sembrava volgare come le filastrocche che suo padre declamava di tanto in tanto, quando era ubriaco; e non era neanche schietta e beffarda come le canzoni del Carnevale. Era solo una sciocca canzonetta d'amore; ed era triste, come Jeannette immaginava dovevano essere tristi tutti gli innamorati, giacché non le era mai capitato di vederne uno lieto.

«Chante, rossignol, chante, toi qui as le cœur gai. Tu as le cœur à rire... Moi je l'ai à pleurer.»

Era pur vero che lei ne capiva poco di amore e degli altri misteri che in pochi mesi avevano sconvolto la sua vita. Il suo corpo aveva iniziato a cambiare in una maniera che Jeannette non capiva: aveva pregato e pianto in silenzio per gli strani gonfiori al petto e i dolori improvvisi nel ventre, convinta di essere stata colpita da una qualche malattia che l'avrebbe condotta alla morte. E quasi a voler confermare i suoi timori, una mattina si era svegliata in preda a un acuto dolore di stomaco, sotto una coperta sporca di sangue. Era certa che fosse giunta la sua ora, ma sua madre le aveva rivelato, con i modi sbrigativi che la contraddistinguevano, che era solo diventata una donna.
Da quel dolore che tornava a funestarla ogni mese erano derivate tutte le sue disgrazie: se solo fosse rimasta bambina un po' più a lungo, a suo padre non sarebbe certo venuto in mente di spedirla nelle colonie approfittando della generosità del Re.
Interruppe la canzone a metà di un verso, stranita.

«Quanto sono sciocche le ragazze che corrono dietro ai giovanotti» rifletté a voce alta.
«Tante moine e sorrisi e carezze... Tutto per avere il ventre pieno e il cuore spezzato!»

Lei, giurò, non sarebbe mai stata così ingenua da fidarsi delle promesse di un uomo.
Quel demonio del padrone aveva detto che avrebbe dovuto trovarsi un marito, prima o poi, ma Jeannette era ben decisa a sottrarsi a quell'obbligo, anche se sapeva che avrebbe arrecato un gran dolore a Marion.
Ciò che la sua buona padrona non comprendeva era che Jeannette, a differenza sua, non aveva timore delle terre selvagge che si estendevano oltre i campi della fattoria. Anzi, ne era attratta come l'ago di una bussola è attirato verso Nord: spesso si era distratta dai suoi compiti per seguire con lo sguardo gli stormi di oche selvatiche o beccaccini che solcavano il cielo, dirette verso i grandi fiumi, ricchi di ogni varietà di pesce.

La sera, mentre lei e Marion lavavano le stoviglie e le braci del focolare languivano, Le Loup si divertiva a raccontarle dei numerosi luoghi che aveva visitato da quando era sbarcato nella Nuova Francia. Forse sperava di impressionarla, con la bonaria presunzione che i vecchi hanno nei confronti di chi ha ancora tutta la vita davanti; ma Jeannette al contrario ascoltava con famelico interesse ogni sua parola e la notte, rannicchiata sulla branda che Étienne le aveva preparato in cucina, sognava la caccia alle balene e ai marsovini al largo di Tadoussac. Le Loup aveva anche provato a metterla in guardia dai pericoli di un territorio per tanti aspetti ancora sconosciuto: le aveva raccontato di Henry Hudson alla deriva in mezzo al mare e dei terribili Irochesi che bevevano il sangue e mangiavano il cuore degli sventurati cristiani che cadevano nelle loro mani.

E fu proprio a quei demoni miscredenti che corse la mente di Jeannette quando vide uno stormo di gru levarsi in volo dalla superficie del rivo con fare concitato, starnazzando di terrore – poiché dietro ai profili eleganti degli uccelli si stagliarono le figure più sinistre di due esseri umani. Uguali in tutto, dai lunghi capelli corvini alla pelle di bronzo, dalle iridi che parevano essere state intagliate nell'ematite alla stazza imponente con cui torreggiavano su di lei, sebbene a separarli ci fosse il fiume.
Il secchio di legno cadde nel fango con un tonfo ovattato mentre Jeannette indietreggiava, insicura se i due indiani fossero reali o solo un frutto della sua fantasia; poi, quando uno dei due ruppe l'incanto muovendo un passo verso di lei, decise che non valeva la pena restare lì per scoprirlo.
Corse a perdifiato senza mai guardarsi indietro tra gli aceri dalle rosse chiome e gli abeti nodosi, finché ogni cosa non si confuse in un'unica macchia indistinta e la ragazzina cadde a terra.

Rimase stesa sul soffice tappeto del sottobosco ad aspettare che la testa smettesse di girare e solo allora, alzando il capo e guardandosi intorno, scoprì di aver abbandonato il sentiero.
"Credevo di correre verso la fattoria e invece mi sono allontanata ancora di più" pensò col cuore in tumulto, tentando di mettere in ordine la treccia bruna che si era disfatta nella fuga.
«Non posso aver corso molto lontano» si disse ad alta voce, per farsi coraggio nella penombra della foresta. «E se quei due volevano prendermi sarei già in mano loro: c'è solo da sperare, dunque, che non mi abbiano seguita. Ora, devo solo ritornare sui miei passi e troverò di certo la strada...»

Rincuorata un poco dai normali rumori del bosco, si alzò in piedi e si voltò, pronta a incamminarsi nella direzione da cui era venuta, quando un movimento tra gli alberi le strappò un urlo.
Non era stato nulla più che un guizzo scuro, tanto che per qualche istante fu certa di aver scorto un alce – uno di quei grossi cervi neri dalle ampie corna che parevano tanto comuni nel Nuovo Mondo.
Ma quando scrutò la boscaglia con gli occhi socchiusi, Jeannette si lasciò sfuggire un sibilo tra le labbra serrate: erano dita umane quelle che spuntavano da dietro un tronco, a una decina di passi da lei. Chiamò a raccolta tutto il suo coraggio e afferrò una grossa pietra che riposava tra le radici che l'avevano fatta inciampare.

«Chi è là?» gridò. «Cosa volete? Mostratevi o...»

Le parole che aveva intenzione di pronunciare avvizzirono sulla punta della sua lingua: dagli alberi era emersa una bambina di forse quattro o cinque anni. Aveva un incarnato appena più chiaro dei due giganti che l'avevano terrorizzata e come loro aveva un viso largo e dai lineamenti regolari, con zigomi alti e mento pronunciato. Sotto la pelle di castoro che portava sul capo e sulle spalle a mo' di mantello s'intuiva una figura minuta e agile, piena di vita al pari dei piccoli occhi neri che fissavano Jeannette affascinati e intimoriti.

«Aiuto» mormorò la piccola in un francese impeccabile.

Jeannette strinse la presa sulla sua arma improvvisata, avvicinandosi e studiandola più da vicino: non sembrava essere stata maltrattata di recente, anzi, aveva un aspetto florido e in salute.
«Per cosa hai bisogno d'aiuto?» chiese la ragazza, assumendo senza quasi accorgersene lo stesso tono di voce – rassicurante e attento, ma mai stucchevole – con cui Marion l'aveva tranquillizzata la sera in cui si erano incontrate.

La bambina scrollò la testa, giocherellando con i lunghi capelli neri, così lucidi da riflettere la scarsa luce che penetrava attraverso le chiome fitte degli alberi.
«Non serve aiuto a me» spiegò. «A te serve. Sei... Lontana da casa.»

Jeannette si lasciò sfuggire un singulto intenerito.
«Molto più di quanto tu possa immaginare. Tu sei sola? Dove sono i tuoi genitori?»
Un'ombra cadde a scurirle gli occhi sagaci, così che la bimba apparve all'improvviso molto più adulta e triste; poi, senza un cenno né un'altra parola, si voltò e si addentrò a passo spedito attraverso la boscaglia.
«Aspetta!» gridò Jeannette, affrettandosi a tenerle dietro.

Per quanto si sforzasse, però, non riusciva a muoversi con la stessa sicurezza della piccola, che pareva danzare sul terreno piuttosto che camminare, segno che era molto pratica di quei luoghi: procedeva senza esitazioni o dubbi, seguendo un sentiero nascosto agli occhi di Jeannette.

«Come sai la mia lingua?» domandò lei dopo qualche minuto, spezzando il silenzio con la domanda su cui si lambiccava da quando la bambina aveva aperto bocca.

«Tutti conoscono la tua lingua.»
Le lanciò una breve occhiata da sopra le spalle, il volto di nuovo disteso in un'espressione serena.
«Per le pelli» aggiunse poi, allungando verso di lei un lembo del mantello che la teneva al caldo.

«Oh!» mormorò Jeannette, sentendosi una sciocca. Quella bambina le ricordava le fate che si diceva abitassero nel bosco vicino al paesino in cui era nata: era apparsa dal nulla, eterea e sfuggente, eppure le risultava familiare come se la conoscesse da tempo. Ma non c'era nulla di magico o sovrannaturale nel loro incontro.
Le Loup le aveva spiegato che gli indiani, e gli Uroni in particolar modo, viaggiavano lungo il San Lorenzo per commerciare le pregiate pelli di castoro: la bimba doveva essere una di loro.
Sussultò quando la sua guida si fermò all'improvviso.

«Siamo arrivate.»

«Io non vedo nulla» borbottò Jeannette, scrutando tronchi e cespugli che le sembravano tutti uguali.
Udì una risatina provenire da sotto il cappuccio di pelliccia.

«Avanti» spiegò la bambina, indicandole la direzione con la mano. «Avanti senza voltarti e troverai la tua casa.»

«Vieni con me» le propose la ragazzina, chinandosi per guardarla in viso; l'altra, ritrosa, fece qualche nervoso passo indietro.

«No!» ringhiò, arricciando le labbra in una smorfia testarda.

Le tracce d'ansia che vide su quel piccolo viso turbarono Jeannette, risvegliando la paura che credeva sopita: anche se non avrebbe potuto addurre una ragione evidente, comprese che quel rifiuto era più di un capriccio.
"Qualcosa alla fattoria la spaventa."
Il ricordo di Serge Roux che la osservava con aria truce dalla soglia della cucina la fece rabbrividire.
"Qualcosa... O qualcuno?"
«Non vuoi un bicchiere di latte? Una focaccina di mais? La mia padrona le stava impastando quando sono uscita per andare al fiume, son sicura che ora sono state sfornate e stanno solo aspettando di essere mangiate.»
Un barlume goloso illuminò gli occhi dell'indiana, che però scosse di nuovo la testa.
«Stai tremando. Hai paura? Non devi. Marion non ti farebbe mai del male, anzi, ti aiuterà. Proprio come ha aiutato me.»

La bambina, per tutta risposta, alzò una manina a sfiorarle una guancia.
«Occhi belli» disse, affascinata dalle iridi azzurre che la fissavano sbalordite.
Un istante dopo, con un fruscio appena percettibile, si era già inoltrata nella foresta per tornare da dove era venuta.

NOTE STORICHE

• La canzone intonata da Jeannette si chiama "À la Claire fontaine" e trae origine da un poema anonimo composto tra il XV e il XVIII secolo. Era molto popolare in Canada all'epoca di questa storia, tanto che qualche autore suggerisce che l'aria e le parole siano state composte da uno dei primi coloni canadesi. In alto vi ho lasciato una moderna reinterpretazione; nel commento a lato invece trovate la traduzione, che non ho inserito qui per motivi di spazio ☺️

• Tadoussac è un villaggio fondato nel 1600 sulla confluenza tra i fiumi Saraguay e San Lorenzo; oltre a essere un importante centro commerciale per le pellicce (tenete a mente quei dannati castori, sono un leit motif di questa storia 😂) dal 1632 fino ad almeno la fine del secolo fu al centro di un'intensiva caccia alle balene.

• Henry Hudson, a cui la baia di Hudson deve il nome, nel 1610 guidò una spedizione alla ricerca del famoso passaggio a Nord-Ovest, ma la sua nave rimase intrappolata nei ghiacci per tutto l'inverno. Al disgelo, si scontrò con l'equipaggio che non intendeva proseguire l'esplorazione e che infine si ammutinò, abbandonando Hudson, il figlio e alcuni altri uomini su una piccola barca nella baia di James. I loro corpi non furono mai ritrovati.

• Le popolazioni indiane qui citate sono solo due tra le varie che abitavano il Canada ai tempi dell'Impero coloniale francese. Gli Uroni (su cui mi dilungherò più in là perché questo capitolo sta diventando un papiro 😅) appartengono in realtà allo stesso ceppo linguistico degli Irochesi, MA erano loro acerrimi nemici e alleati con le popolazioni di lingua algonchina in una guerriglia perenne. La mela della discordia erano, ve lo anticipo... I castori 🙈

• Ora, è vero che gli Irochesi strappavano il cuore a tutti gli europei che incontravano? Ovviamente no (anche se a questa maniera c'è scappato qualche martire gesuita qua e là). Una delle sfide che mi sono posta iniziando a scrivere questa storia è provare a dare tante visioni diverse di una stessa situazione: Jeannette, Marion e Serge, per esempio, sono tre europei che hanno tre punti di vista diversi sui nativi americani e ho cercato di interpretarli al meglio.

Ci ho pensato bene — anche perché di questi tempi sono ossessionata dal timore di attrarmi le ire di qualche lettore troppo 'woke' che non comprende la differenza tra ispirazione e appropriazione culturale — ma alla fine mi sono messa l'anima in pace. Del resto la narrativa storica non dovrebbe mai avere la pretesa di essere oggettiva: a dar retta a Cooper e al suo L'ultimo dei Mohicani, erano gli Uroni i mostri sanguinari, mentre gli alleati degli inglesi (tra cui, guarda caso, gli Irochesi) erano dei nobili e puri guerrieri. Tutta questione di punti di vista, raga.

Non aggiungo nulla di mio che le note storiche sono già pesantucce, ma vi rimando al capitolo "PREMI" per visionare il fantastico bollino vinto da questa storia al contest di LeCose 😍😍😍

Enjoy ❤️

Crilù

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