Capitolo 47
Ansimante, Altair si passò un braccio a pulirsi la bocca. Si sentiva una merda, una vera merda: i muscoli le si contraevano, le regalavano degli spasmi involontari ovunque. Ci sentiva a malapena, un fischio acuto le riempiva le orecchie, copriva il resto dei rumori. La pioggia le entrava negli occhi, nelle labbra e nella scollatura, delle dita viscide che la tastavano da capo a piedi.
La vista di Drake con la sua faccia da cazzo butterata da tutti i colpi ricevuti la ringalluzzì. I fulmini dentro di lei si ridestarono e, nonostante la stanchezza li attirasse verso il basso, risalirono in superficie. Lui si tolse il guanto fumante e lo gettò a terra.
Mancava poco, poi lo avrebbe fritto come una cotoletta, lo stronzo.
«Ancora uno.» Elettra aveva l'aria più riposata. Nessun graffio, nessun segno della battaglia sui vestiti. «Ce la fate?»
«Per chi cazzo mi hai preso?» Altair agitò la mano in aria. Le scariche le guizzarono sulle dita, e lei le tese in avanti. «Ho appena cominciato.»
Vega ciondolava un braccio di lato, un burattino a cui qualcuno aveva spezzato il filo che lo teneva sollevato. Poi lo mosse, con una smorfia, e richiamò a sé lo scudo di saette; se lo strinse sulla spalla, pronto per la prossima scarica. «Ci sono.»
«Non strafare, superuomo. Stai una merda,» gli disse Altair. Lui le rivolse solo un'occhiataccia sfuggente.
Drake tese un braccio verso di loro. La sinistra, dove ancora teneva il guanto funzionante. Sull'avambraccio, i tuoni giocavano a dare testare contro il vetro.
«Attenti, sta per rispedirci indietro tutta l'energia che gli abbiamo dato,» disse Elettra.
Altair schioccò la lingua. «Odio quando ti ridanno indietro i regali.» Voltò la testa a cercare un riparo. Che le piacesse o meno, una scarica di quella portata l'avrebbe fritta in mezzo secondo. E allora addio Altair, e benvenuta porchetta abbrustolita a forma di Altair.
Vega le si parò davanti, lo scudo alzato. «State dietro di me.» Non una gran protezione, certo, ma sempre meglio di un cazzo niente.
Elettra gli si aggrappò, nascosta dietro le sue spalle larghe. Tese una mano ad Altair; lei la scacciò, ma le si strinse.
Arrivò la scarica. Un'esplosione. Le mura dell'edificio alle loro spalle tremarono, il metallo cigolò. Abbaglianti, immensi, rami di fulmini si distesero in ogni dove, distruggendo tutto ciò che toccavano.
Altair chiuse gli occhi. Attese la fine, la sua fine, perché nessuno sarebbe sopravvissuto a un attacco simile.
Aspettò. Ma non accadde nulla.
Perfino la Tempesta smise di gridare. La pioggia diminuì, e le ultime dita umidicce le colarono giù lunga la schiena. Rimase soltanto il fischio nelle sue orecchie. E un gemito soffocato, giunto poco dopo.
Mira sostava lì, i capelli biondi trasportati dal vento, le si agitavano dietro la nuca come una bandiera. Ai suoi piedi, una miriade di detriti: frammenti della cupola, pezzi di asfalto.
Altair tirò uno schiaffo sulla spalla di Vega, lo aggirò. «Ehi, pazza sadica, ti sei decisa a fare un'entrata in scena come si deve.»
Mira non la degnò di attenzioni. Concentrata su Drake, che indietreggiava, mosse un passo verso di lui. I fulmini – troppi, tutti quelli che aveva appena assorbito – le si attorcigliarono ai piedi; risalirono le gambe, piano. Un altro passo e le arrivarono alla vita. Un altro ancora e le avvilupparono il busto e le braccia. Finché non divenne come loro, come quelle creature della Tempesta o, meglio, un essere umano inghiottito da una di quelle creature.
Drake le lanciò un'altra scarica. Mira non la evitò, la prese in pieno. Risucchiò le saette dentro di sé, le fece diventare proprie.
Poi gli spiaccicò il palmo sulla faccia. Drake le si aggrappò al polso, mentre l'altra mano schiaffeggiava l'aria nel tentativo di allontanarla.
Mira lo fulminò. Le grida sovrastarono lo sfrigolio della pelle che lampeggiava come un segnale stradale. La voce si trasformò, divenne più roca; scemò fino a spegnersi del tutto. E allora Mira lasciò cadere il corpo folgorato di Drake a testa in giù in una pozza d'acqua.
Morto così, come se nulla fosse.
Altair si accorse dei brividi sulle braccia, del palato asciutto e arido. Qualcosa non andava. Eppure, avanzò verso Mira. «Ohi, sei venuta all'ultimo per farci fare la figura delle scartine?»
Mira voltò il busto nella sua direzione; le puntò addosso un paio di occhi vuoti, immersi nella luce dei suoi stessi fulmini.
«Che cazzo ha fatto?» sbottò Altair.
Elettra le prese un braccio, scosse la testa. Tremava. «Non è più lei.» Lo mormorò a voce bassa, tanto che Altair quasi non la distinse dal fischio.
«Che vuol dire?» Vega si passava una mano sulla fronte, ad asciugarsi.
Mira levò un piede. Lo schiantò contro il terreno. Un'esplosione di energia, fulmini e saette si innalzò dal basso. Altair piantò le scarpe a fondo nell'asfalto sfaldato, le braccia sollevate a coprirsi il viso; scivolò indietro, lasciando due solchi nel terreno.
«Ha perso il controllo,» disse Elettra, nascosta alle spalle di Vega.
Certo. Ovvio. Dopotutto il vecchio l'aveva detto, no?
«Vuol dire che glielo faccio ritrovare a furia di pugni in faccia.» Altair si ricoprì di saette. Gli altri le urlarono di fermarsi, mentre lei già correva per raggiungere Mira e la sua stupida faccia da cazzo. Ci teneva proprio a farsi prendere a calci, la pazza sadica.
La aspettava immobile. La sua espressione però era sbagliata. Assente, come se non ci fosse nemmeno più, dentro il proprio corpo. Dove cazzo era finito il suo cipiglio sdegnato? Le labbra strette e la mascella contratta? Dove cazzo era Mira?
Altair era a metà strada quando l'altra si mosse. Lì, davanti a lei, eppure l'istante dopo non era rimasto altro che il riverbero delle sue folgori sulle pozze d'acqua. Comparve poco più vicina, il braccio tirato indietro, le gambe aperte come se fosse in movimento, e sparì di nuovo. Altair inchiodò, la cercò con lo sguardo.
Dov'era finita?
Udiva il crepitio dei fulmini di fronte a sé. Mira doveva essere ancora lì. E infatti le ricomparve a un centimetro dal naso. Altair scattò con il pugno, ma le nocche di Mira furono più veloci, le trovarono le costole e spinsero.
Il suolo le si staccò da sotto i piedi. L'aria le fischiò nelle orecchie. Un rivolo di sangue le uscì dalle labbra. Ne assaggiò il sapore – si era rotta qualcosa? La schiena urtò qualcosa, qualcosa di resistente, di duro, che tuttavia si incrinò e si ruppe. Continuò a volare oltre, fino a incontrare un altro muro e un altro ancora.
Alla fine arrivò il suolo. Il comodo e confortevole suolo. Il metallo le premeva contro lo stomaco. Le mancava il respiro, i polmoni non riuscivano a gonfiarsi, mancava lo spazio.
Altair sputacchiò altro sangue, misto a un grumo di saliva. Piegò le dita, e scoprì che nessun'altra parte del corpo avrebbe risposto ai suoi comandi. L'edificio sopra di lei scricchiolava. Un cumulo di polvere le si posò addosso.
Bella merda.
Quanto tempo aveva per riprendersi, prima che le crollasse tutto addosso? Poco, probabilmente non abbastanza. Un ammasso di bile le risalì dalla pancia ma, anziché venire fuori sotto forma di vomito, sbottò in una risata. Sentì le costole spostarsi, la schiena emise un rumore crocchiante; il divertimento amaro divenne un accesso di tosse.
Che fine pietosa.
Le palpebre pesavano, così si chiusero contro il suo volere. Una moneta le premeva al centro esatto del cervello, le offuscava i sensi, le annebbiava la vista.
La più merdosa delle uscite di scena, pensò. E, subito dopo, pensò anche: aspettami; rivolto a chi non ne era nemmeno sicura. Perché facce diverse le si mescolarono nella testa, e nulla aveva più un senso.
Furono i fulmini a non accettare la fine. Le si distesero lungo le ossa. A ogni loro pulsazione, il dolore diminuì.
Altair poggiò il peso sui palmi e tirò su il busto a fatica. Ricadde con la guancia contro il pavimento. Un rinnovato sapore di sangue le invase il palato. In un gemito, rotolò su un fianco.
Un pezzo del piano superiore si schiantò accanto a lei. Il rumore però arrivò distante, attutito dal fischio ormai assordante.
Forse non era il momento di morire. Non ancora.
Delle dita le tastarono il braccio. Una mano piccola, agitata, che le si infilò sotto l'ascella e la sollevò di peso. Altair si abbandonò alla sua forza, all'energia fredda e calda al contempo.
Elettra si coricò il suo braccio in spalla e la trascinò via. «Stai bene?»
Altair sputò a terra un miscuglio di sangue e saliva. «Uno splendore. Non si vede?»
L'altra non lo trovò divertente, o almeno non abbastanza da cancellarle la maschera di assoluta serietà dalla faccia. Faceva schizzare i fulmini in avanti, a illuminarsi la strada.
«Tu hai capito che cazzo succede, almeno?» Altair si tastò il petto, aspettandosi di trovare una costola ballerina, invece era salda al suo posto. Raddrizzò di poco la schiena.
«Mira ha assorbito la Tempesta.» Elettra le guardava il busto, lì dove i fulmini si agitavano per rimetterla in sesto. «Tutta la Tempesta. E ora credo sia lei a comandarla.»
Altair lasciò uscire un fischio dalle labbra. «Cioè la pazza sadica comanda la Tempesta?»
«L'esatto opposto. E l'hai visto anche tu, quello che è rimasto del primo ibrido, no? La sua rabbia. Credo che abbia assorbito anche quello. Dubito riusciremo a calmarla con qualche discorsetto toccante.»
«Una tisana?»
Questa volta Elettra sorrise, anche se per poco. «Quella non riesce a calmare nemmeno te.»
«Però manda al bagno che è una bellezza.»
L'altra fece saltare il muro che le separava dal mondo esterno. Accompagnò Altair fuori. Erano ancora a pochi metri di distanza, a trascinarsi lente, quando l'edificio crollò su se stesso. Pezzi di metallo che cadevano giù, uno a uno; il loro frastuono squarciò il fischio che le riempiva le orecchie, le raggiunse i timpani in una stilettata.
Appena in tempo.
Altair tolse il braccio dalle spalle di Elettra. «Abbiamo qualche possibilità di fermarla?»
Dall'altra parte dei resti di metallo, Mira e Vega si scontravano: lui si riparava dietro lo scudo i tre quarti del tempo, i vestiti bruciacchiati e la pelle piena di bruciature; lei attaccava senza sosta. La figlia della Tempesta incapace di gestire la propria forza, quella che inciampava da sola, era solo un lontano ricordo.
«Vuoi la verità o una bugia?» chiese Elettra.
Altair scrollò le spalle. «La verità?»
«No. Siamo stanchi, affaticati e feriti. E non credo che nemmeno in condizioni ottimali potremmo mai fermare la Tempesta.»
Non si aspettava una risposta diversa. Un solo pugno le era bastato per capirlo: Mira avrebbe potuto ucciderli quando desiderava. Eppure non l'aveva ancora fatto. Per qualche motivo, Altair era ancora viva.
Fletté le dita. Richiamò i fulmini, li lasciò guizzare lungo le nocche in una danza frenetica. Chiuse i pugni, provò un paio di saltelli. Le costole non si muovevano più, il respiro era tornato regolare. Un frammento di dolore restava, una scaglia conficcata dentro di lei, ma per il momento andava bene così. «Voi due trovate una soluzione. Io ve la distraggo.»
Elettra le coprì la visuale. Le sembrò più piccola del solito, più magra di quanto avrebbe dovuto. Forse era solo la luce leggiadra che scendeva dal cielo. «Altair, no. Anche alla tua pazzia c'è un limite, è una cazzata troppo grande anche per te.»
«Non esiste una cazzata troppo grande per me,» le rispose. «E poi l'alternativa qual è? Startene qui ad aspettare che ci ammazzi tutti?»
«No.» Elettra scosse il capo, gli occhi chiusi, i pugni stretti. «Non puoi affrontarla da sola. Morirai.»
Altair distese le labbra. Dimezzò la distanza che le separava. L'altra non sollevò la testa. «Trova un piano, allora. Trova un cazzo di piano ed evita di farmi finire ammazzata.»
«Che piano?» sbottò lei. «Non possiamo affrontare la Tempesta.»
«Forse no, ma quella è solo la pazza sadica.»
Elettra esitò. Cercò la figura di Mira, ancora intenta a combattere Vega. Forse se ne rese conto anche lei, di quanto fosse strano che lui fosse ancora vivo, e non riverso su una pozzanghera come quel coglione di Drake. «Se qualcuno può tenerle testa, sei tu,» disse invece, in un sussurro. «Però non morire, o ti vengo a cercare nell'aldilà per prenderti a calci.»
Altair sollevò il sopracciglio. «Ti preoccupi per me? Cos'è questo, il momento in cui mi confessi il tuo amore?»
Ricevette una spinta. «Questo potrebbe essere l'ultimo due di picche della tua vita, sicura di volermelo chiedere?»
«Come vuoi. Vuol dire che vado a salvare il culo al tuo fidanzatino depresso.»
Così Altair si allontanò, lasciando Elettra distante. Mira era distratta, concentrata su Vega, impegnata a colpire il suo scudo e mandarlo a gambe all'aria. Altair sfruttò la sua distrazione per rifilarle un pugno in piena guancia. L'altra vacillò appena, poi le agguantò la maglia e la sollevò.
Odorava di pioggia e Tempesta. Profumava di forza e libertà, eppure la sua espressione era tutt'altro che libera. In realtà non era altro che una stupida intrappolata.
Altair si agitò nel tentativo di divincolarsi. Gli occhi di Mira le sostavano addosso, una presa gelida che le congelò le membra.
Le afferrò il polso con entrambe le mani. Si tirò avanti, accostò il viso a quello di Mira. «Non combatterlo. Ricordi le catene? Liberati.»
Mira la scagliò a terra. Altair rotolò all'indietro e balzò di nuovo in piedi. Cercò un indizio nello sguardo dell'altra, un indizio che avesse capito, ma trovò solo un vuoto azzurro.
Doveva essere ancora lì però, da qualche parte. Ne era certa.
Alzò i pugni, mostrò un sorriso. «Avanti, stronza, vieni a prendermi.»
Note:
Ecco, e adesso la situazione si è leggermente complicata. Ebbene sì, doveva succedere prima o poi che Mira perdesse il controllo...
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