Capitolo 45

Evelyn si reggeva a lei: le braccia le pressavano i fianchi, le spingevano sulla pancia. Il seno di lei le premeva sulla schiena. La testa, protetta da un casco vecchio e dalla vernice rossa scrostata, le sfiorava il collo.

Con l'aria che le sferzava il visore e le mani ben salde sul manubrio, Keira sorrideva.

Lungo la strada non incontrarono nessun Cugino della Tempesta. La cupola sopra di loro appariva intatta, si ergeva fiera, una protezione invincibile, almeno all'apparenza. Alcuni negozi spegnevano le luci, e i proprietari uscivano a chiudere le saracinesche con aria pigra; alcuni sbuffavano anche. Che avessero visto i notiziari e avessero deciso di lasciare l'attività in anticipo per sicurezza?

«Dici che stanno combattendo, ora?» Eve le si strinse di più. Il calore del suo corpo contro la schiena le regalò un'ondata di adrenalina.

Keira ingranò la marcia e decelerò. Superarono macchine parcheggiate in doppia fila. «Forse. Ma se la caveranno. Se la sono sempre cavata.»

Il fragore della vecchia moto di Altair le assordiva. La marmitta era andata da tempo, ma Keira aveva sempre rimandato il momento di aggiustarla. Dopotutto era solo una moto di riserva. Incontrò un semaforo rosso. Inchiodò e tolse le mani dai manubri per raddrizzare la schiena.

«Se lo dici tu,» borbottò Evelyn.

«Che c'è, sei preoccupata?» Finse un tono canzonatorio, o ci provò: il risultato le ricordò piuttosto un edificio traballante sull'orlo del collasso.

L'altra le afferrò la maglia, la strinse in una morsa. «No. Solo che non lo so. Mi sembrano tutti troppo scossi.»

«Stanno bene.» Keira le accarezzò le mani con la propria. Evelyn allentò di poco la presa. «Andrà tutto bene.»

Tornò il verde. Con un rombo del motore, Keira si rimise in moto.

Le arrivò uno sbuffo attutito alle spalle. «Cosa sei, la signora Frasi Fatte?»

«Signorina, prego. A meno che ci siamo sposate e non me lo ricordo.»

«Come hai fatto a scordartelo? Ero uno schianto, con quell'abito da sposa.» La risata di Eve le arrivò ovattata, coperta dal lamento rumoroso della marmitta.

Una mano invisibile le strinse il cuore. Non lo schiacciò, lo scaldò soltanto. Oltre il casco, Keira distese le guance, un sorriso a solcarle il volto. Sarà anche stata un'incapace, un'inetta, ma sapeva come far ridere Evelyn, come risollevarla dai momenti peggiori. Questo bastava, pensò. Forse bastava a darle il diritto di stare al suo fianco.

«E io com'ero vestita?» urlò.

Evelyn risollevò la testa. La sua impronta rimase a scaldarle la schiena. «Tu avevi uno smoking nero. Avresti dovuto indossare il vestito lungo anche tu, sai, però Altair l'ha rovinato all'ultimo. Ti ha rovesciato una coca addosso mentre ti preparavi.»

Keira annuì. Fin troppo plausibile. «Per sbaglio? O l'avevo fatta incazzare?»

Evelyn si prese qualche istante prima di rispondere. «No, l'avevo fatta incazzare io, continuavo a prenderla in giro e a chiederle quando sarebbe toccato a lei. Solo che tu ti sei messa in mezzo.» Il casco tornò a comprimerle la schiena. «Sei stata una vera cavaliera.»

Una visione fin troppo romantica, quella che Eve aveva di lei. «E lo smoking dove lo abbiamo rimediato all'ultimo secondo?»

«Vega ti ha prestato il suo, infatti ti stava enorme. Lui si è vestito con una camicia perché non aveva nient'altro. Altair invece era in tuta da motociclista. Elettra era l'unica conciata come si deve, aveva anche i lustrini.» Mosse la mano in direzione di alcuni palazzi. «È uno di questi, fermati qui.»

Keira obbedì. Parcheggiò nel primo posto libero disponibile – in mezzo a un trabiccolo a tre ruote che si reggeva in piedi per puro miracolo e un'automobile rosa talmente poco sobria che i lustrini di Eve l'avrebbero resa più seria. Attese che l'altra smontasse prima di lei, quindi la imitò. Liberatasi dal casco, scosse la chioma scura.

«Qual è di questi?»

Gli appartamenti lì erano il contrario esatto della macchina rosa: anonimi, spenti e deprimenti. Senza balconi, ma solo delle finestre che si affacciavano sulla strada. Keira si aspettò un commento disgustato di Eve, che però non arrivò.

Evelyn controllò il cellulare. Un cipiglio le comparve in viso; durò pochi istanti, poi indicò uno degli edifici grigi. «Di qua.» Allacciò il braccio sotto quello di Keira e la trascinò con sé. La pistola di Altair le pendeva dalla cintura decorata da borchie.

Sul campanello trovarono scritti una decina di cognomi.

Keira si grattò la guancia. «Tu lo sai, qual è il cognome di Mira?»

«No.» Evelyn si picchiettò un dito sul labbro inferiore. Quel giorno aveva optato per un abbigliamento diverso dal solito. I capelli le ricadevano sul petto, il biondo si mescolava con il motivo di fiamme sulla maglia. «Proviamo a suonare a caso e vediamo che succede.» Pigiò su un pulsante al centro.

Keira si fece da parte, in attesa.

«Sì? Chi è?» Dalla voce – immaginò un pappagallo dalle ciglia lunghe all'altro capo del citofono – Keira dedusse fosse una donna di una certa età.

Evelyn avvicinò il viso. «Salve, signora, scusi il disturbo. Mi chiedevo se potesse aprirmi il portone, è importante, sto cercando un'amica scomparsa e...»

«Non ci casco un'altra volta. L'altro giorno mi avete rubato tutti i gioielli con la scusa che dovevate controllare le tubature. Andate a fregare qualcun altro.» Seguì un click, e poi il silenzio.

Evelyn batté le palpebre un paio di volte. Con le dita si rigirava i braccialetti sul polso. «Ma con la città nella merda, questa pensa ai gioielli?»

Keira le mise una mano sulla testa e la spinse, ridendo. «Lascia fare a me.» Premette un altro pulsante, in basso questa volta. Non appena udì il «Chi è?» di rito, lei rispose solo: «Io.» Come per magia, il portone si aprì.

«Non ci credo. Manco fossimo in una barzelletta,» borbottò Eve.

Keira distese il palmo in un invito a entrare. L'interno era deprimente quanto l'esterno. Fra le mura di un giallo urina incontrarono un uomo con una sigaretta fra le labbra, seduto sui primi gradini. Le osservò in silenzio, il fumo gli accerchiava la testa in una nube tossica.

Si fissarono tutti e tre, poi l'uomo abbassò la testa sul cellulare e fece un altro tiro. Keira ed Evelyn lo superarono per avviarsi sulle scale.

«E Mira?» chiese Keira. Il silenzio opprimente che si stava impossessando del momento le pesava sul petto.

«Mira?»

«Sì. Com'era vestita lei, al matrimonio?»

Eve portò un dito al mento, gli occhi sperduti a osservare qualcosa nei meandri della sua mente. «Era in divisa,» rispose. «Era di turbo, però ha fatto lo stesso un salto. A detta sua perché Elettra l'ha obbligata, secondo me voleva solo litigare con Altair.»

Keira si concesse un sorriso. Un sogno, pensò. Un bellissimo sogno. Il cuore le galoppava nel petto, e capì in quel preciso momento che le sarebbe piaciuto trasformarlo in qualcosa di più vero di misere congetture. Le mani le sudavano. La testa le girava.

Se soltanto non fosse stata tanto inutile, avrebbe trovato il coraggio di compiere il grande passo? Di proporsi?

Il viso di Evelyn risplendeva alla luce bianca dei neon accanto a lei. Saliva le scale con un sorriso sulle labbra. Le piacque pensare che anche lei fosse immersa in quel sogno, che la tranquillità sul suo viso fosse un riflesso di come immaginava il loro futuro insieme.

Keira si infilò una mano fra i capelli. Era venuto il momento di smettere di essere un'inetta. «C'è una cosa che devo dirti,» esordì allora.

Evelyn voltò il capo nella sua direzione. «Non mi sembra il caso di chiedermi di sposarti qui

Keira arrestò il passo, un piede posato su un gradino più in alto rispetto all'altro. «No. No, prima credo di doverti raccontare una cosa.»

«Adesso? Ti sembra il momento?»

La ignorò. Perché sì, doveva farlo adesso, o avrebbe perso il coraggio per sempre. «Quando ero piccola, i miei litigavano sempre. Avevano idee diverse, e mio padre non era...» Lo stomaco le si contrasse. «Mio padre si batteva per i diritti degli ibridi, ma in casa non era proprio uno stinco di santo, sempre con una birra in mano...»

Evelyn tirò su col naso. «Ti stai confessando. Non farlo, per favore.» Si aggrappò al suo braccio, come una bambina disperata. «Ci sono più possibilità che muori se lo fai.»

«Cosa?» Keira scoppiò a ridere.

«Sì, non lo sai? Se fossimo in un libro, andrebbe così.»

Keira scosse la testa, senza smettere di sghignazzare. Il peso opprimente sul petto si era fatto all'improvviso più leggero. Si passò la lingua fra le labbra, ritrovando la serietà. «Io stavo sempre con mia madre.» Doveva continuare il racconto, non le importava cosa ne pensasse Eve. Doveva vomitare il filo spinato che le attorcigliava le viscere. «A volte era buona, mi insegnava tante cose. Ma aveva due facce, e quella nascosta, quella... era terribile. Veniva fuori dopo i litigi con papà, e non è andata più via dopo che lui...» Si bloccò. «Non ero mai abbastanza. Non significavo niente. Ero una stronza da insultare.»

Ripresero a camminare fino al primo piano. Lì, cercò velocemente i nomi accanto alle porte. Nessuna Mira. Ripresero a salire.

«Avevo imparato a odiarla. Ma al contempo, volerlo piacerle.» Una sfera incandescente le si appollaiò sul fondo della gola. «Un giorno, aveva litigato con mio padre peggio del solito. Io ero uscita per non sentirli, e quando sono rientrata l'ho trovata in lacrime in camera. Farneticava, diceva cose senza senso.»

Il ricordo di quel giorno le pizzicava un angolo del cervello. Quello stesso angolo che cercava il Rejecto ogni giorno, quello stesso angolo che voleva solo smettere di esistere.

Le dita di Evelyn scivolarono nelle sue. «Lo stai raccontando per me o per te?»

Keira alzò le spalle. «Ha importanza?» Si fermarono di nuovo, sulla soglia del secondo piano. «Ho avuto paura. Diceva di volerla fare finita, e io non capivo,» continuò. Le uscì una voce tremolante, la stessa voce di quando era poco più di una ragazzina. «Poi lei si è alzata e ha afferrato il contenitore della candeggina. Non so perché, ma per un attimo ho creduto volesse berla. Ero terrorizzata e non sapevo...»

Ricordava ancora la sensazione dei muscoli congelati. Quanto fosse stata incapace di muoversi.

Vide Evelyn trattenere il respiro, il busto gonfio. La vide chinare la testa, morsicarsi il labbro. La vide rabbrividire. E tornò nel presente.

Keira si passò una manica agli occhi, per asciugarli. Le bruciavano. Se solo avesse potuto, se li sarebbe cavati dalle orbite. «Ma poi mi ha passato il contenitore e ha indicato il bagno. Mi disse che lei non ce la faceva, e si è chinata di nuovo a piangere.»

Le si bloccò la voce in gola, una palla di carta stagnola che le grattava la trachea. «Nel bagno c'era mio padre, o meglio, quello che ne restava. Si era sparato in testa.» Sul bianco delle mattonelle, il sangue era sembrato fosforescente. «Mia madre mi pregò di ripulire. Mi ha sempre detto che era stato lui a suicidarsi, ma mi ha anche impedito di chiamare la polizia. Saremmo sembrate colpevoli, diceva. Credo fosse sotto l'effetto di qualche droga, in realtà. All'epoca ne prendeva tante. Non ho mai saputo se mi ha detto la verità, quel giorno.» Scosse la testa, ancora e ancora. «Avrei dovuto chiamare il pronto soccorso o la polizia, invece l'ho aiutata a sbarazzarsi di... lui.»

Evelyn le carezzò il viso. Si sollevò sulle punte, e il suo respiro le scaldava la punta del naso; le regalò una sensazione di intorpidimento, un formicolio piacevole. «Tesoro, mi dispiace. Ma qualsiasi cosa sia successa, non è colpa tua.» Un sussurro, che le affondò nel petto come una pallottola, ma senza dolore.

«Ma io...»

Le posò un dito sulle labbra. Keira le sigillò. «Non è colpa tua,» ripeté. Gli occhi rifulgevano, due piccole lanterne luminose nella penombra.

Keira seguì con lo sguardo la forma del suo naso. Scese giù, fino alle labbra e al rossetto che le decorava, così intenso da confonderla. «Sì, ma avrei potuto...»

«Non è questo il punto.» Evelyn le carezzò la guancia, scese giù lungo il collo e si fermarò sulla spalla. «Keira, eri una ragazzina. Traumatizzata. Con il diavolo al posto di una madre e un ubriacone per padre, cos'altro avresti potuto fare?» Inclinò la testa. Sbatté le ciglia, lunghe e ondulate. «E cazzo, forse l'unico errore che hai fatto è non aver mai chiesto aiuto a uno psicologo.»

«Sì, forse sì.» Azzardò un sorriso veloce, finto.

«Grazie per esserti fidata e avermelo detto.»

Il bacio che seguì fu veloce, troppo. Keira le sfiorò appena le labbra. Le circondò la vita con le braccia e la tirò a sé, la costrinse a baciarla ancora. Eve le affondò le dita nei capelli. Per quegli attimi così fugaci, ogni lacrima le evaporò dagli occhi. Ogni ricordo del passato si disgregò in una miriade di frammenti sperduti.

Quando si separarono, si scambiarono uno sguardo. Ancora vicine, ancora abbracciate.

Evelyn le prese una ciocca di capelli, se la attorcigliò attorno al dito. «Però, perché proprio adesso?»

«Non lo so,» ammise in un sospiro.

«Non hai un sesto senso che ti dice che stiamo per morire tutti, vero?»

Keira le diede un buffetto sulla testa, ridacchiando. «No, è solo che sentivo di dovertelo dire. Perché se ammetto quello che è successo, forse smetterà di tormentarmi.» Ottenne un altro bacio.

La porta dell'appartamento di Mira Jenkins – Jenkins, ecco qual era quel maledetto cognome – era socchiusa, la serratura saltata. Strano che nessuno del condominio si fosse preoccupato di chiamare le autorità o di controllare che non ci fossero feriti. Keira pensò così, mentre spingeva la porta avanti, ma si rese conto solo dopo che, con ogni probabilità, erano state proprio le autorità a fare irruzione.

L'arredamento seguiva uno stile minimalista, tendente al nero, con pochi mobili ma tante decorazioni casuali sparse in giro. Una casa bipolare, arredata da persone diverse. E Keira dubitava che gli oggetti decorativi sulle mensole fossero opera di Mira, più probabile che appartenessero al proprietario della casa e che lei le avesse semplicemente lasciate lì.

Evelyn attraversò il corridoio a grandi falcate, senza commentare – strano. Keira le andò dietro, i piedi le strascicavano sul pavimento, il sangue le pulsava nelle orecchie.

Da qualche parte nelle viscere dell'appartamento provenivano dei rumori. Un paio di gemiti soffocati, qualcosa di metallo che sbatteva da qualche parte senza troppa forza.

Mira era in cucina. Il frigorifero era aperto, la luce giallastra si rifletteva sulla sua guancia. Mira giaceva seduta a terra, le mani nascoste dietro la schiena. Non si accorse di loro, non subito: troppo intenta a spingersi in avanti nel tentativo di liberarsi.

Evelyn le si avvicinò, Keira al suo fianco. «Com'è che ti sei ridotta come la protagonista di un libro erotico?»

E allora Mira sollevò lo sguardo, e tutta la furia lasciò il suo viso. Al suo posto arrivò qualcosa di diverso, qualcosa che stonava addosso a lei. «Dietro di voi!»

Solo dopo Keira li udì, i passi. Si voltò di scatto; ad aspettarla, la canna di una pistola spianata, che la fissava da pochi metri di distanza. Sollevò le mani di scatto. Evelyn fu più lenta e, nel tempo che impiegò per comprendere la situazione, la pistola si spostò su di lei. La minaccia di un colpo dritto in testa le impedì di raggiungere l'arma sul fianco, ed Evelyn si morse il labbro nella frustrazione, i palmi alzati.

«Non ti muovere, o faccio esplodere la testa alla tua ragazza.»

Keira si dimenticò come si respirasse. Il corpo non sapeva più richiedere l'aria necessaria a sopravvivere, era congelato. «Perché sei qui?»

Reggendo la pistola con una sola mano, sua madre si scansò i capelli dal viso. Li portava sciolti, e i boccoli ribelli le donavano un aspetto più giovanile. «Mi è stato ordinato di portarla via di qui.» Accennò a Mira.

«E perché?» chiese Evelyn, il capo inclinato.

«Perché ha delle particolarità peculiari e ci piacerebbe studiarla. E poi perché fa parte del patto.»

«Del patto?»

Paula alzò gli occhi al soffitto. Le unghie grattarono contro la pistola mentre aggiustava la presa. «È il prezzo del nostro alleato. Ci ha chiesto di tenerla al sicuro. La vuole come ricompensa.»

«Me?» sbottò Mira. «Che cazzo di cretino.»

Inspira. Espira. Inspira. Keira trovò il modo di richiedere aria. Sentiva i polmoni compressi, troppo piccoli, ma almeno si riempivano di nuovo. Azzardò un sorriso, nonostante il cuore la minacciasse di implodere. «Non credo che il consenso funzioni proprio così

L'occhiata gelida della madre la zittì. Il sorriso le morì sulle labbra. «Siete qui per riprendervela?» Gli occhi saettavano in direzione di Keira, la cercavano di continuo, ma la pistola rimaneva puntata su Evelyn. Come se sapesse che, fra le due, l'unica a possedere un'arma fosse lei.

No. Non era per questo.

Ancora non si stancava dei suoi giochetti manipolatori.

«Per quello,» le rispose Evelyn, «e a quanto pare anche per regalarti una lezione di gentilezza. Senza offesa, ma ora ho capito perché le battute sulle suocere funzionano sempre.»

Una palla demolitrice le colpì lo stomaco. Keira trattenne a stento le lacrime. «Eve,» la pregò.

«Cosa? È una stronza patentata, qualcuno deve pur dirglielo.»

«Gliel'ho già detto io,» intervenne Mira. «Non vuole crederci.»

Paula non diede retta a nessuna delle due, sembrava non le sentisse nemmeno. Agganciò lo sguardo di Keira, e lei si ritrovò di nuovo legata da quegli occhi cangianti, incatenata al suo polso. «Mi dispiace, Keira, ormai è troppo tardi per unirti a noi. Ti ho dato la possibilità e l'hai buttata nel cesso. Perciò, per favore, tieni buona la tua fidanzata e vedi di non rendermi le cose ancora più difficili.»

«Rendere le cose più difficili a te?» sbottò Evelyn. «Sei tu a tenerci una pistola puntata addosso, non mi sembra una situazione tanto difficile, la tua.»

«Eve, per favore.» Keira non trovò il coraggio di guardarla. Tenne la testa bassa e si morse l'interno della guancia, perché era la solita inutile inetta. E, da brava inetta, si rivolse solo a sua madre. «Cosa vuoi che faccia?»

«Non mi hai sentito?» Paula agitò la pistola, si avvicinò di un passo. All'improvviso le rughe che le circondavano le labbra si fecero più profonde. La pelle smise di sembrarle lucida e sana, e Keira notò un pallore sulle sue guance che le ricordò quel giorno lontano, quando piangeva e farneticava. «È troppo tardi per cambiare idea.»

«Però non vuoi nemmeno spararmi, no? Perciò ti chiedo: cosa vuoi che faccia?»

Ma sua madre non le rispose, portò anche l'altra mano alla pistola e scosse il capo.

Keira azzardò un'occhiata alle proprie spalle. Mira aveva il sopracciglio sollevato, l'angolo delle labbra arricciato all'insù in segno di disgusto. Poi si accorse di Keira, e le rivolse un cenno del capo, quasi impercettibile.

La incitava. E le sue parole – per come la vedo io, il coltello dalla parte del manico ce l'hai tu – le rimbombarono nella testa.

Con le mani sollevate, mosse un passo verso sua madre. «Mamma, mi dispiace.» Le uscì con fin troppa facilità, e si odiò per quanto fosse vero. «Mi dispiace. Lo so che hai sofferto anche tu. Lo so che volevi solo tenermi al sicuro. Mi dispiace di essermela presa con te per quello che è successo.»

«Keira?» La voce di Evelyn la riportò nel presente. La strappò via dal ricordo della candeggina, del suo odore penetrante, del sangue e del cadavere del padre.

Paula invece lasciò scivolare via una mano. Tenne la pistola nell'altra, ma le tremava. «Non è stata colpa mia, lo sai, vero?» mormorò. Era così rotta, così fragile. Così simile alla donna che era stata, prima che lui morisse.

Keira le si avvicinò ancora. Piano. «Lo so. Scusami. Ho cambiato idea, vorrei venire con te alla S.d., ricominciare da capo. Ci sono troppe cose che abbiamo sbagliato.»

«Mi minacciava spesso,» disse la madre. I suoi occhi si perdevano nel vuoto, scintillavano di lacrime. «Perché non riusciva a farsi valere con i colleghi, con i suoi genitori, con chiunque, ed era sempre così frustrato perché non riusciva a farsi valere nemmeno con sua moglie. Quel giorno è stato un incidente, io...»

Keira la raggiunse, le prese la mano libera fra le proprie. Un fuoco le ardeva nel petto e una mano le grattava nello stomaco. «Possiamo ricominciare?» le chiese un'altra volta.

La madre abbassò l'arma. Le si avvicinò. Annuì. Mira aveva ragione, Paula aveva bisogno di lei. Senza sua figlia non valeva nulla e lo sapeva. «Sono contenta che hai capito.»

Eppure non si scusava. Non l'avrebbe mai fatto. Keira però le sorrise, perché doveva smetterla di aspettarsi che la madre si pentisse.

Poi Paula sobbalzò, le palpebre spalancate. Evelyn era dietro di lei, le premeva la pistola di Altair contro la schiena. «Butta l'arma e dacci le chiavi e vedi di fare la brava, perché ti assicuro che questa non spara lustrini.» Sorrise fra sé. «Purtroppo,» aggiunse.

Fece come le venne ordinato. La pistola le cadde di mano, nell'altra comparvero delle chiavi minuscole. Le diede a Keira. Il labbro le tremava, le spalle si incurvarono. Non era mai stata tanto piccola, tanto insignificante.

«Mi dispiace davvero,» ammise Keira. Ed era vero, perché l'aveva sempre saputo di non essere l'unica vittima della situazione. «Lo so che papà non si comportava bene con te. Ma non avevi il diritto di incasinarmi la testa scaricando tutta la tua frustrazione su di me.»

Liberò Mira dalle manette. Le tenne fra le mani, e attese che Evelyn costringesse sua madre a inginocchiarsi al suo posto, poi la legò al termosifone.

Mira intanto si sfregava i polsi arrossati. «Finalmente.»

«Scusa per la scenata,» disse Keira. «Stai bene? Che è successo?»

L'altra strinse i denti. «Quel figlio di puttana.» Poi scosse la testa. «Sono stata meglio. Gli altri?»

«Cercano di fermare l'apocalisse,» rispose Evelyn, in una scrollata di spalle.

«Li raggiungo.» Fece per andarsene, ma si bloccò non appena Keira la richiamò. Al suo grido, voltò il busto nella sua direzione. Sembrava tutto fuorché in forma, eppure si teneva dritta, fiera nella chioma spettinata, incurante del sangue secco che le macchiava le labbra.

Keira le lanciò una chiave. «Puoi prendere la moto, farai prima.» Fece una pausa. «E grazie.»

Afferrata la chiave al volo, Mira sostò solo un paio di secondi a osservarla. Alla fine abbassò lo sguardo e se ne andò, senza aggiungere niente.

Evelyn appoggiò la spalla contro quella di Keira, la pistola ancora le pendeva dal fianco. «Almeno un sorriso poteva anche farlo.»

Keira le diede una spinta. «Non credo ne sia fisicamente capace.»

«Cosa volete da me?» La voce di sua madre suonò debole, rotta. Una pallida imitazione della donna che fingeva di essere, dal cuore di pietra, forte e menefreghista.

Keira si inginocchiò davanti a lei. «Quando tutto sarà finito, voglio che ci aiuti. Testimonia contro la S.d. Magari se collabori ti daranno una pena minore.»

L'altra schioccò la lingua, il capo voltato verso la luce del frigorifero. «E per tuo padre? Devo confessare anche quello?»

Era difficile ammettere a se stessa che la stessa donna che le aveva distrutto l'autostima e creato traumi potesse essere una vittima a sua volta. Appiopparle la maschera da mostro in ogni ambito aveva aiutato Keira a starle alla larga il più possibile, a evitarla.

Ma i mostri non sono altro che i figli di altri mostri. Figli dei traumi. Figli del dolore. Paula forse non meritava il perdono, ma Keira era disposta a donarle almeno la compassione.

«Il passato è passato,» le disse. «Piuttosto, ricominciamo da qui.»

Note:

La storia famigliare di Keira è complicata e traumatica e fa schifo, lo so. Prima era leggermente diversa, l'ho modificata un po' perché così com'era credo andasse contro il messaggio della storia. Quindi beccatevi questa visione contorta.

E no, stranamente nessuna delle due è morta XD Lo so, anche Eve ne è stupita ahahah

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