Capitolo 42
L'idea di tornare nei bassifondi non la allettava. Elettra si costrinse a non pensarci, le mani affondate nei maglioni infilati in perfetto ordine nella valigia. L'aveva riempita.
L'aveva riempita, si ripeté, e cadde con il sedere sul materasso. Le coperte si piegarono sotto il suo peso; ne lisciò le increspature, ma quelle si dimostrarono ostinate. Un sospiro e si rassegnò.
Dei brividi le percorrevano le braccia. Si strinse a sé, si aggrappò alle maniche calde della maglia nella speranza di scaldarsi le dita. Volse il busto alla ricerca della finestra: oltre le tende blu scuro, le ante erano aperte.
Vega spinse la propria valigia sul letto. Tornato da poco da casa sua, si era preso il tempo per cambiarsi. Nessuna cravatta, nessuna camicia, nessuna giacca, solo una felpa troppo grande con cappuccio e un paio di pantaloni larghi. La sua energia trasmetteva agitazione, emetteva delle onde che increspavano l'aria; Elettra la percepiva sulla pelle del viso, del corpo intero. Forse era lui, l'origine dei suoi brividi.
Degli spilli le trafiggevano le pupille. Abbassò le palpebre. Il mondo tornò buio, come doveva essere, e gli spilli sparirono. Riaprì gli occhi, e non appena mise a fuoco la figura di Vega oltre lo schermo del visore, il dolore tornò.
«Ti serve una mano?» Vega le indicò la valigia ancora aperta accanto a lei.
Elettra allungò una mano ad afferrarne il manico, senza nemmeno sapere il perché. «No, ho finito.»
«Stai bene?»
«Sì.» Una risposta automatica.
Vega risucchiò l'aria dalle labbra. Gonfiò il petto e la trattenne lì, prima di buttarla fuori. «Te la senti davvero?»
«Perché non dovrei?» Lo sapeva benissimo il perché. Ma quello che provava al momento non aveva alcuna importanza: che si sentisse a suo agio o meno, altre soluzioni non ne avevano.
Non le credette. Vega si accomodò accanto a lei. Elettra sentì il materasso sotto di lei alzarsi. «È solo per qualche giorno,» le disse, la voce ridotta a poco più di un sussurro.
Elettra gli cercò la mano. La sua si perdeva in quella di lui, ma gliela strinse comunque. «Dipende. Nessuno ci assicura che smetteranno di darci la caccia, quando questa storia sarà finita.»
«Troveremo un modo.» Si liberò dalla sua presa per scansarle una ciocca di capelli dal viso. Gliela incastrò dietro l'orecchio, poi distese le labbra, quel poco che bastava per dar vita al suo sorriso più spontaneo. «E poi nemmeno io ci tengo a vivere da barbone.»
Sorrise anche lei, il capo abbassato. «Grazie.»
Vega le mise il palmo sul ginocchio. Una pacca, e poi si rialzò in piedi. «Piuttosto, davvero ti sei fidata a mandare quelle due da sole?»
Elettra accettò di buon grado il cambio d'argomento. «Le hai viste anche tu, no?» gli rispose, l'angolo delle labbra sollevato.
«Cosa? Che Mira ha una palese cotta per Altair?»
La risata le uscì spontanea. «Anche,» ammise. «Ma intendevo, quanto sono simili. Parlano la stessa lingua.»
«Ah. Già.» Vega raggiunse la finestra, scostò le tende e chiuse le ante. Ancora non c'era traccia di tranquillità, nella sua energia. «Non so se la cosa mi inquieta o mi fa ridere.»
«Cosa, che si somigliano?»
«No, che Mira ha una palese cotta per Altair.» Questa volta fu il suo turno di ridere, ma il suo fu un suono forzato, artificioso. Fingeva. Ostentava una calma che non possedeva. Per lei. Sforzava un'allegria che non sentiva, solo per lei.
Elettra strusciò i palmi contro la stoffa ruvida dei jeans. «Mi dispiace,» mormorò. L'istante successivo, sperò che lui non l'avesse sentita. Solo che Vega l'aveva sentita eccome, e le comparve di fronte, davanti all'armadio con un'anta ancora socchiusa. L'orlo di un vestito bianco sventolava fuori.
«Per cosa?»
«Non devi fingere di stare bene per me.» A fatica, Elettra combatté la voglia di fissargli le scarpe e sollevò il mento.
«Ely, io sto bene.» Si carezzò il collo, l'intero corpo sospeso in un sospiro.
«Non è vero.»
Lo vedeva che mentiva. I fulmini dentro di lui, l'energia che creavano, rivelavano la verità.
Vega contrasse la mascella e non rispose. Si prese una manciata di secondi per riflettere, sventolare un dito in aria come se volesse parlare, solo per poi lasciar ricadere il braccio lungo il fianco e mordersi il labbro. Alla fine scrollò la testa. «Perché cazzo non puoi preoccuparti per te stessa, una volta?»
Una domanda a cui non sapeva davvero dare una risposta. Si puntellò sulle braccia e scattò in piedi, per raggiungerlo. La sovrastava di tutta la testa, che lui inclinava sempre un po' in avanti quando lei gli era vicina, come se Elettra fosse una calamita e lui un metallo che cedeva al suo richiamo.
«Cos'è che ti preoccupa?» gli chiese.
Vega roteò gli occhi. «Ma in che lingua parlo?»
Gli concesse un sorriso. «Mi dispiace, per tutte le stronzate che ho fatto. Non saremmo a questo punto se io...»
«Ely, smettila.» La prese per le spalle. «Non è colpa tua se tutto sta andando a puttane. E anche se fosse, che cazzo te ne importa? Troveremo una soluzione.» Le mise una mano dietro la testa e la spinse a sé.
Elettra gli premette la guancia contro il petto. Nonostante si fosse cambiato, dietro l'aroma del detersivo ancora aleggiava lieve un odore pungente. Non le importava. Lo inspirò a fondo, se ne inebriò.
Il visore le spingeva contro la tempia, le scivolava sul naso. Se lo tolse e lo tenne fra le dita, la sua luce lampeggiante tutto ciò che splendeva in un mondo vuoto. Una voce nella testa le urlava che no, niente si sarebbe aggiustato, che i suoi errori si sarebbero soltanto aggiunti a una pila di colpe già abbastanza alta, a tormentarla per sempre.
Ma forse per una volta poteva ignorarla, la voce. Rinchiuderla in una scatola, lì dove un tempo teneva i fulmini.
Vega le cinse la vita con il braccio libero. «Io sto bene, davvero. Sono un po' agitato, ma cazzo, chi non lo sarebbe?»
«Purtroppo la metà dei nostri compagni di squadra.»
«Vero.» Le lasciò scivolare via la mano dai capelli, la portò alla sua spalla. «Certe volte,» cominciò, e l'aria attorno a lui divenne pesante; Elettra sentì il petto comprimersi, «mi sento impotente. Vorrei essere davvero d'aiuto, fare la differenza. Toglierti dalle spalle un po' del peso di merda che ti accolli, invece finisco solo per aggiungertene altro.»
Elettra allontanò la testa dal suo petto. Sollevò lo sguardo, solo per ricordarsi che, senza il visore, tutto ciò che vedeva era il volto di lui, inondato da una luce malinconica. «Tu fai sempre la differenza.»
Un rumore alle sue spalle la fece sussultare. Ma non si voltò, né Vega staccò lo sguardo da lei.
«Tu sei la cosa migliore che mi sia mai capitata,» le mormorò, e il cuore le perse un battito. «A volte mi piacerebbe essere la stessa cosa per te.»
Le si mozzò il respiro. L'aria le si bloccò nei polmoni; incastrata nel petto, non sapeva più né come uscire né come entrare. Doveva rispondergli. Ma le parole non raggiunsero mai le labbra, perché il respiro restava ancorato e la voce si era persa da qualche parte, nei meandri della gola.
Così si sollevò sulle punte, cercò le sue labbra. Un tentativo fallimentare di risanargli una ferita che Elettra non sapeva di avergli inflitto. Lui rimase immobile, come paralizzato.
«Avevo capito che dovevate prepararvi, non farvi una scopata.»
Elettra e Vega si separarono di scatto. Lui la lasciò andare, lei indossò il visore.
Altair li osservava appollaiata sul bordo della finestra. Le ante erano di nuovo aperte – Vega non le aveva chiuse bene, forse – e lei teneva la tenda con una mano. Nell'altra aveva la pistola a doppia canna. Elettra liberò tutta l'aria intrappolata nei polmoni; lo stomaco le bruciava, ma mai avrebbe creduto di poter provare tanta felicità per un'interruzione da parte di Altair.
Vega si scostò, aggirò il letto. «E tu hai mai sentito parlare di una cosa chiamata porta?»
Altair balzò all'interno. «Ho visto la finestra aperta, e mi andava di scaricare un po' di energie.»
«La porta continua a essere l'entrata migliore,» le rispose Elettra. L'altra scrollò le spalle, come a dire che per lei non c'era alcuna differenza. «Com'è andata?»
Altair sbatté l'anta della finestra. Il vetro vibrò. «La pazza sadica ha fatto un casino.»
Che bella notizia. «Che ha combinato?»
«Ha assorbito i fulmini del vecchio e glieli ha fatti scoppiare in faccia.» Si picchiettò la canna della pistola sulla spalla. «Lui si è scazzato e ha detto che non ha più intenzione di aiutarla.»
«Cosa?» Elettra camminò verso di lei. Si scordò del letto, inciampò sul materasso.
Altair schioccò la lingua; per una volta però evitò di commentare. «Ha detto che tanto la pazza sadica non può controllarsi, o una cazzata simile. Avreste dovuto vedere quanto cazzo era scioccato quando lei gli ha fregato i fulmini. Impagabile.»
Questo era un bel problema. Un altro da aggiungere alla lista già troppo lunga. La mancanza di controllo di Mira sarebbe stato un pericolo costante, indipendentemente da quello che sarebbe accaduto con la S.d. e la polizia.
Vega si passò la mano sulla testa. «E poi che avete fatto?»
«Lei è andata a prendere le sue cose, io ho fatto un salto a casa a prendere questa.» Altair sollevò la pistola.
«Niente vestiti? Niente scorte?»
«Tanto non avevo niente di pulito. Mi si è rotta la lavatrice.»
Delle nocche bussarono contro la porta. Senza nemmeno aspettare una risposta, Keira ed Evelyn si precipitarono dentro; i nasi abbassati, incollati allo schermo del telefono che Keira teneva sollevato.
«Abbiamo un problema,» annunciò Keira.
Elettra tirò giù le maniche della maglia a coprirsi le mani. «Solo uno?» Azzardò un sorriso, o qualcosa che sperò gli somigliasse. Gli spilli invisibili negli occhi le affondarono in profondità. Premette le labbra una contro l'altra per trattenere un lamento.
«La cupola non regge più la forza della Tempesta.» Evelyn puntò l'indice sullo schermo. «Quelle cose fatte di fulmini... a proposito, dovremmo trovargli un nome.»
Altair schioccò le dita. «Cugini della Tempesta. Mostri Rompicoglioni. Cagacazzi. Culi fulminanti.»
«Culi fulminanti mi piace,» disse Keira. Si beccò un'occhiata in tralice da Vega.
Evelyn batté i palmi. «Cugini della Tempesta sia. Comunque, sono in tutta la città. La polizia sta cercando di tenerli a bada, ma be', sono un po' delle mammolette.»
Keira mostrò il telefono. Immagini delle strade di Nuova Folk, persone inseguite dalle creature nate dalla Tempesta, poliziotti che scaricavano le armi nel tentativo di fermarli; si alternavano alle riprese tremolanti della cupola, fatte da lontano. Piccole crepe, filamenti seghettati, si intrecciavano sulla sua superficie. «Credo che la S.d. sia passata alla fase finale.»
«Merda.» Elettra portò una mano ai capelli, si aggrappò alle ciocche e le tirò fino a sentire una leggera scarica di dolore sulla cute. «Dov'è Mira?»
Vega estrasse il proprio cellulare. «Provo a chiamarla.» Compose il numero, attese. Riattaccò scrollando la testa. «Non risponde.»
«Fantastico.»
«Forse è ancora a casa.»
«O forse si è fermata a fare a botte con i Mostri Rompicoglioni,» disse Altair.
Oppure le era successo qualcosa. Tutto era possibile. E mentre si scervellava per capire come trovarla, Elettra combatté i fulmini scalpitanti dentro di lei. Le si aggrapparono alla base dello stomaco, in un groviglio intricato, fatto di nodi e dolore.
Li bloccò lì, sotto uno strato di vetro immaginario. Continuarono a spingere, ma non sarebbero saliti.
«Qualcuno deve andare a cercarla,» disse poi.
Altair fece schioccare le nocche. «Ci vado io.»
«No. Tu sei la più veloce, vorrei che ti dirigessi ai punti di risonanza. Chiunque sia a danneggiare la cupola, lo troveremo sicuramente lì.»
«Allora lasciate andare me da Mira.» Keira teneva il telefono ancora acceso lungo il fianco. Emetteva un debole bagliore che le rischiarava un lato della coscia. «Tu e Vega dovreste preoccuparvi di proteggere la città.»
Elettra fece cenno di no con la testa. «Non se ne parla, è pericoloso.»
Keira si portò la mano al cuore. «Per favore, voglio rendermi utile. E poi, la città ha bisogno di voi.»
Evelyn le circondò il collo con un braccio. Accostò il viso al suo e annuì, la guancia premuta contro quella di Keira, che mostrava un sorriso morbido, dolce. «Ci penso io a proteggerla!»
Nessuna delle due poteva molto contro le creature della Tempesta. Se per sfortuna ne avessero incontrate lungo la strada, avrebbero rischiato la vita. E questo Elettra non lo avrebbe permesso.
Fece per replicare ancora, ma Altair la precedette: fece roteare la pistola in aria e la afferrò per la canna; allungò il manico verso Evelyn. «Vedi di non spararti in testa da sola.»
«Altair, non credo che sia una buona idea,» azzardò Elettra.
L'altra porse anche una chiave, grande e nera. Era della sua moto. Soltanto dopo si volse verso Elettra e le strizzò l'occhio. Non aggiunse altro. Si arrampicò di nuovo alla finestra.
«Lasciale fare.» Vega le mise una mano sulla spalla. Elettra sussultò. «È giusto così. Se la caveranno.»
Sperò soltanto che avesse ragione.
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