Capitolo 36
«Ognuno di noi può scatenare una Tempesta? Che stronzata.»
Elettra incastrò una pellicina sul labbro fra i denti. La tirò fino a spezzarla. Venne via senza dolore né sangue. Un miracolo. Passò le mani fra i capelli, concentrata sulla figura luminosa di una Mira che si sollevava dalla sedia e si dirigeva verso Altair.
«Non credo sia una cosa che possa fare chiunque di noi,» disse Elettra. L'indice le prudeva. I fulmini le si erano accumulati lì, eccitati a causa della grande quantità di energia che la circondava: Mira, Altair e perfino Vega, in parte, erano come dei giganteschi magneti, la chiamavano in ogni istante.
«Dubito che uno come Ulio possa fare molto di più che ricaricare le batterie del telecomando.» Evelyn rimaneva nell'unico punto cieco del tavolo, in quell'unico posto che la luce degli altri non raggiungeva.
Altair picchiettò un dito sulla spalla di Mira. Il loro bagliore si mescolava. Le saette si scontravano, fino a diventare un unico, enorme barlume. «Tu sì però. Sei una cazzo di mina vagante, in tutti i sensi.»
Una verità che nessuno poteva negare. Dopotutto anche in quel momento, accerchiata da altri figli della Tempesta, Mira spiccava. Portava con sé un odore particolare, spargeva un'aura tanto intensa che i fulmini di Elettra non riuscivano a starsene tranquilli. Mira possedeva qualcosa di diverso, come se la Tempesta dentro di lei avesse trovato molto di più di una semplice dimora. Come se quel corpo pieno di rabbia la alimentasse.
Mira scansò la mano di Altair con uno schiaffo. «Perché, tu invece sei controllata e pacata?»
Elettra scosse il capo, le labbra che si tendevano verso l'alto. «È messa comunque meglio di te.»
Nonostante Altair fosse stata poco più di un ammasso di fulmini incontrollati fin dal giorno in cui si erano incontrate, alla base del suo caos c'era sempre stato un equilibrio. Precario, certo. Ma c'era già allora. Mira invece non possedeva altro che rabbia.
In un sospiro, Elettra posò le dita sul tavolo e si tirò su. «Non è un problema,» aggiunse. «Troveremo il modo di insegnarti il controllo, te lo prometto.»
Del grugnito che ottenne in risposta non seppe cosa pensare. Mira però si allontanò da Altair, sciolse la presa fra le luci dei loro fulmini.
Elettra emise un breve sospiro, quando un calore le sfiorò le nocche; afferrò le dita di Vega fra le proprie e si rimise a sedere.
«Abbiamo anche un altro problema.» Keira parlò con voce roca, rotta. Elettra spinse l'attenzione verso quel punto del tavolo, dove nel buio la immaginò stringersi a Evelyn.
Vega sbuffò. Era rigido, ma tranquillo. «Cioè?»
Degli attimi di attesa. Un paio di respiri profondi. Il miagolio di Romeo, da qualche parte nell'angolo della stanza – aveva il solito tono petulante che assumeva quando chiedeva i croccantini. I passi di Altair.
Poi Keira parlò. «Ho incontrato mia madre, prima di venire qui.»
Accadde qualcosa, all'energia di Mira. Tremolò per un attimo. Strano. Che sapesse qualcosa?
«Sembrava convinta dei nostri minuti contati,» disse Keira. «Ha nominato anche un'arma. Non mi ha dato dettagli, ma adesso la S.d. non teme più nessuno di voi, a quanto pare.»
Elettra inclinò la testa. La presenza di Vega, così vicina accanto a lei, le scaldava un lato del volto. «Stanno per agire.» Non una domanda, poiché ne aveva la certezza. Qualsiasi fosse l'obiettivo finale della S.d., doveva trovare un modo per contrastarli.
«Ah, c'è un'altra rottura di palle.»
Voltò il capo in direzione dei fulmini di Altair. «Cosa?»
«Uno di quegli stronzi della polizia sa chi sono. Mi ha approcciato l'altra sera.»
«Chi?» sbottò Mira, mentre Vega si sporgeva in avanti con un sonoro «Che cazzo?» Altair però non rispose a nessuno dei due, scrollò soltanto le spalle, come se fosse una cosa da niente, come se non fosse nemmeno un suo problema.
Elettra sbatté le palpebre un paio di volte. Le parole le vorticarono nella testa una trentina di secondi buoni, prima che acquisissero un senso compiuto. E anche quando comprese il significato, una parte di lei si rifiutò di crederci. Si ritrovò a grattarsi il polpastrello, persa in un mondo vuoto, fatto di oscurità e fasci di luce sporadici.
Attorno a lei, gli altri urlavano. Vega gridava. Altair sbuffava. E fu allora che Elettra si riprese, nel bel mezzo del putiferio, nel bel mezzo di un vortice di voci rabbiose.
Tirò la sedia indietro. Si alzò. Giunse il silenzio. «Cos'è successo?»
Altair batteva il pollice contro la gamba. «Un cazzo di niente. Il bamboccione della sua squadra,» indicò Mira, «mi ha approcciato in un locale. Mi ha riconosciuta, mi ha chiamata per nome e poi se n'è andato.»
«Il bamboccione?» chiese Mira, ma Elettra sollevò il palmo a zittirla.
«Perché non me l'hai detto prima?»
«Perché me n'ero scordata.» Altair attirò una sedia a sé con il piede. Ci piombò sopra, a cavalcioni.
Elettra si prese la radice del naso. La testa le mandava ondate di energia pulsante. «Non ti ha detto nient'altro?»
«No. Lo stronzo se l'è data subito a gambe.»
Una minaccia, allora. Voleva giocare con lei, farle sapere che la polizia l'aveva rintracciata. Una tattica bizzarra, da parte della polizia, a meno che lui non avesse incontrato Altair per puro caso e non avesse agito di propria iniziativa. Ma quale che fosse la risposta, cambiava davvero poco: erano fottuti.
La polizia li aveva trovati. La S.d. stava per attaccare.
Non avrebbe saputo dire quando Mira si fosse alzata per fronteggiare Altair. La trovò semplicemente lì, un ammasso di fulmini contro un altro ammasso di fulmini. Si scambiavano insulti e spinte a vicenda. Vega si frappose fra loro, le separò, solo per aggiungersi al litigio l'istante successivo.
Elettra osservò quei tre fasci di luce a lungo. Li guardò muoversi da soli, li guardò scivolare via dalle sue mani, lontani, dove non poteva raggiungerli.
«Smettetela,» mormorò. Non la ascoltarono. Non si accorsero di niente. «Per favore, smettetela.»
Aspettate. Parliamone. Cerchiamo la soluzione. Ci deve essere per forza una soluzione. Questo continuava a pensare, eppure gli altri non la degnavano di una sola occhiata.
Qualcun altro li fermò. Evelyn, immersa dal trio di luci, tirava Altair per una manica. «Vi volete dare una calmata? Non lo vedete che l'avete rotta?»
E allora si ricordarono di Elettra. Schiacciata dai loro sguardi, lei non poté far altro che abbassare la testa. Un ciuffo di capelli perse il proprio posto, le cadde scomposto sulla fronte; lo lasciò lì, a schermarla dagli altri.
Vega le fu subito accanto, ad accarezzarle una spalla. Lei non lo scansò, ma si curvò in avanti, la testa incassata nelle spalle, nel tentativo di scomparire di nuovo. «Ely, tutto bene?»
No che non andava bene. Niente andava bene.
Non lo disse, non disse proprio nulla. Elettra si tenne appoggiata al tavolo, ritraendosi da lui. «Sì,» mormorò alla fine con un filo di voce.
«Sicura?»
«Mira,» chiamò allora Elettra, e si sottrasse dal tocco di Vega per andarle incontro. Le energie di Mira e Altair le pungevano la pelle, così vicine. «Andiamo, date le circostanze è meglio se ci diamo una mossa.» Qualsiasi cosa, pur di andarsene da lì dentro.
«Andiamo dove?»
Altair le rifilò una gomitata nelle costole. «A fare la lezione rottura di palle sul controllo.»
Mira la squadrò dall'alto. «L'hai fatta anche tu? Non credo funzioni un granché.»
«E noi intanto che facciamo?» Un'intromissione di Vega, che ancora aspettava alle sue spalle. Forse seduto, forse in piedi. Con Romeo che gli faceva le fusa.
«Non lo so,» rispose Elettra. Le uscì un tono più brusco di quanto desiderasse. Si acciaccò la lingua. «Non lo so, state qui, trovate qualcosa da fare per distrarvi, cercate una soluzione. Fate quello che vi pare.» Un sospiro. «Mira, se hai finito di provarci con Altair,» le giunse il suo verso sprezzante, «allora seguimi.»
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Non era tanto l'odore a rimandarla nel passato, nonostante la carta bruciata sapesse di tempi che era felice di essersi lasciata alle spalle, quanto la sensazione: lì nessuno valeva nulla. Ibrido o no, non esistevano differenze. Chiunque fosse obbligato a vivere in quel luogo era un emarginato, qualcuno che, agli occhi della società, non sarebbe dovuto esistere.
Un gruppetto di uomini si riscaldava al fuoco acceso dentro un bidone della spazzatura. Il fumo saliva verso il soffitto, si disperdeva in una nuvola che offuscava la vista.
Elettra condusse Mira lungo le file di materassi e coperte buttati a terra. In tanti fingevano di dormire, ma alzavano gli occhi non appena le due passavano nelle vicinanze, incuriositi. Che due donne dai vestiti puliti e muscoli e carne a rimpolpare le ossa si aggirassero da quelle parti non era una cosa che si vedeva spesso – Elettra se lo ricordava bene. E il visore che indossava rappresentava qualcosa di ancora più insolito.
«Domani devo tornare a lavoro.» Mira le camminava dietro, i suoi passi un ticchettio continuo, nervoso. «Cosa dovrei fare, secondo te? Se sanno di Altair, forse...»
Elettra strinse i pugni. «Non lo so.»
«Potrebbero sapere che collaboro con voi.» Una pausa, seguita da uno sbuffo. «Norton lo sa di sicuro.»
Elettra impuntò i piedi, ferma accanto a una pila di scatole fradice e vuote. Avrebbe dato qualsiasi cosa pur di cambiare argomento, pur di smettere di essere la persona da cui tutti si aspettavano una soluzione, anche solo per un paio di ore. Invece era bloccata, costretta in un ruolo che non aveva mai desiderato. «Parlami di lui. È il leader della vostra squadra, no?»
Si voltò a osservare una Mira confusa. «Sì.»
«E ti fidi di lui? Delle sue decisioni?»
Mira nascose le mani nelle tasche, il capo inclinato, lo sguardo perso sul pavimento. «Mi ha sempre difeso dalle mie cazzate, nonostante tutto. Quindi, credo di sì.»
Elettra annuì. «Non temi possa essere lui, la spia?»
«Non avevate detto che era Alex?»
«Probabilmente, ma non siamo sicuri.» Non erano mai sicuri di nulla. La sicurezza era un lusso che Elettra sognava ogni notte.
Mira scrollò soltanto le spalle. Stoica come sempre. La sua energia la circondava in un miscuglio di contraddizioni: rabbia e tranquillità, sicurezza e dubbio. Per la prima volta, guardandola, Elettra pensò a Vega, alla sua presenza tanto rassicurante quanto rigida. «Non credo sia lui.»
No, forse aveva ragione lei. Elettra sentì l'angolo delle labbra stirarsi, ma le sopracciglia le si abbassarono. Chiuse gli occhi, sprofondando per un paio di secondi nel tepore del buio. «Non ho mai deciso di fare il capo del gruppo. Sono stati gli altri a scegliere per me.»
La verità aveva un sapore bizzarro. Nel risalire, le ustionò la gola. Sulla lingua produceva un pizzicore insolito. Eppure non era una sensazione solo fastidiosa, portava con sé un retrogusto dolce.
Così Elettra risollevò le palpebre e guardò dritto davanti a sé, negli occhi di Mira. «Solo che non sono adatta, non lo sono mai stata. Continuo a fare un errore dopo l'altro.»
«Sempre meglio tu che Altair.»
La risposta le suscitò un sorriso più sincero. «Forse,» ammise. «Rimane il fatto che non so cosa fare, adesso. Vorrei tanto che non mi avessero scelto.»
Mira cacciò una mano dalla tasca, la lasciò penzolare lungo il fianco. «Perché lo dici a me?»
Una domanda che non si aspettava. Elettra dischiuse le labbra, incerta della risposta da darle. Non era una cosa che si era chiesta, perché sfogarsi proprio con Mira. Ma poi il motivo le lampeggiò davanti agli occhi, nella piega seria del cipiglio di Mira. «Credo sia perché sei l'unica che non cerca di farmi stare meglio.»
Chiuse lì il discorso. Riprese a camminare, e l'altra la seguì in silenzio. La distanza fra di loro si accentuò.
Raggiunsero gli uomini accanto al bidone in fiamme. Uno di loro rovistava in una scatola di cartone ai suoi piedi. Cacciava oggetti inutili – pupazzi, treni giocattolo e anellini di plastica – e li lasciava sul pavimento, accanto a una crepa nelle mattonelle. I capelli erano tanto luridi che perfino l'olio, se gli si fosse rovesciato addosso, si sarebbe unto.
Un altro schioccò la lingua. Teneva le mani sospese davanti al fuocherello improvvisato, e gli occhi tradivano un luccichio – che forse era solo un riflesso delle fiamme, o magari il visore funzionava male. «Che ci fanno due belle donzelle in un posto come questo?»
«Bella domanda.» Mira si abbassò per parlarle all'orecchio. «Che cazzo ci facciamo qua?»
«Dammi un secondo.» Elettra le mostrò il palmo. L'altra sospirò ma rimase in attesa. «Ciao, Yunca.»
L'uomo si passò una mano sulla testa lucida. La luce del fuoco donava alla sua pelle scura un colorito dorato. Un guizzo di confusione, poi aprì le labbra in una "o" sorpresa. «Ti vedo in forma.»
Elettra esitò per un attimo. Le labbra si incurvarono da un lato. I fulmini le mandarono una scarica leggera e appena percepibile al cuore. Durò un attimo, ma fu abbastanza per farla sobbalzare. «Più o meno.»
«Yunca, queste qui hanno dei bei gingilli!» L'altro uomo, quello che fino ad allora se n'era stato con la testa china a frugare fra le cianfrusaglie, alzò il dito a indicare il visore di Elettra.
«Non ci provare, stronzo.» Mira fece un passo avanti. La sua spalla si scontrò con quella di Elettra. «Mi hai portata qui per ammazzare dei senzatetto?»
«Non per ammazzare. Datti una calmata.» Elettra la prese per il braccio e la trascinò dietro di sé. «Non siamo qui per creare problemi,» aggiunse, rivolta a Yunca e all'uomo che non conosceva.
«Nessun problema, cara.» Yunca mostrò i denti. Uno degli incisivi era scheggiato, l'altro mancava. «Il problema al massimo sarà vostro se vi fate derubare.»
«Provateci,» sibilò Mira.
Elettra aprì le labbra per dirle di stare zitta, un'altra volta, ma Yunca scoppiò a ridere. Le richiuse e inclinò il capo per osservare le nuove rughe che comparivano attorno al sorriso di lui.
«Ho conosciuto diverse persone come te, sai, bambolina?» Yunca prese una sedia traballante e la posizionò davanti al fuoco. Ci cadde sopra di peso. «Vi sentite invincibili. Siete piene di energia. Ma poi siete sempre le prime a scoppiare.»
Mira pestò un piede a terra. «Che cazzo ne sai tu?»
«Di ibride esagitate? Ah, un bel po', biondina, te l'assicuro.» Gettò nel fuoco un pezzo di stoffa. La fiamma si ravvivò di colpo. La puzza di cherosene si sparse nell'aria. «La tua amica, a quanto pare, si diverte a farmi incontrare tutti i soggetti peggiori.»
Elettra sorrise. «Questa volta credo di essermi superata.»
Yunca sgranò gli occhi. «Addirittura? È possibile?»
«Quindi la conosci?» L'altro tizio ispezionava da vicino un peluche a forma di orsacchiotto. Alcuni strappi gli percorrevano l'orecchio e il vestitino blu, e le sue interiora morbidose ne uscivano a pezzi.
«Sì, amico. È una di noi. Fossi in te non proverei a mettermi contro di lei, a meno che tu non voglia finire fritto.»
L'uomo affondò le dita in una delle ferite dell'orsacchiotto. Tirò in due direzione diverse. I punti di cucitura ormai usurati si staccarono a uno a uno. Elettra chiuse gli occhi nel momento esatto in cui il peluche si spezzò in due. Quando li riaprì, lui immergeva la faccia nell'imbottitura. Poi lo lanciò a terra, sputando dei pezzi di ovatta.
Uno spostamento d'aria accanto a lei l'avvertì dell'arrivo di qualcun altro, ma fece appena in tempo a voltarsi che il bambino in questione se l'era già filata con una metà dell'orsacchiotto stretta fra le braccia. Le riuscì difficile inghiottire il groppo improvviso alla gola. Sembrava che la saliva le si fosse attaccata alle pareti della trachea.
«Allora,» Yunca batté le mani, riacquistando la sua attenzione, «questa volta voglio qualcosa in cambio, però.»
«In cambio per cosa?» Mira tamburellava le dita sul braccio.
«Avevo detto che ti avrei aiutata a mantenere il controllo, no?» le rispose Elettra.
«Sì. E questo che cazzo c'entra con un vecchio senzatetto e uno che sniffa peluche?»
Yunca si issò dalla sedia. «Non sa niente, eh?» Ridacchiò. «Spero davvero che la paga sia buona.» Fece un cenno all'altro uomo. «Ehi, scartina! Allontanati, se non vuoi finire cotto a puntino.»
Quello sbuffò, ma raccattò la scatola e ciondolò via.
Yunca zoppicò verso Mira. Si fermò a pochi centimetri da lei, più alto di tutta la testa nonostante se ne stesse piegato su se stesso. Anche standosene immobile, non poggiava il peso sulla gamba destra, che se ne stava stesa e tremante. Elettra cercò delle ferite evidenti, una fasciatura, qualsiasi cosa che la aiutasse a capire cosa gli fosse successo. Oltre al pantalone stracciato e sudicio, però, non c'era nulla di strano. Forse era solo la vecchiaia che avanzava.
Lui prese il viso di Mira fra le mani. Le braccia di lei scattarono per colpirlo, ma si bloccarono a mezz'aria: i fulmini di Yunca brillavano e accerchiavano la sua intera figura. Il loro calore si espandeva come un ventaglio. Era gentile, come Elettra lo ricordava.
Le saette di Mira arrivarono subito dopo. Cercarono quelle dell'uomo anziano, mentre gli occhi si spalancavano e i pugni si serravano. Eppure, il suo potere non lo raggiungeva. Ogni scarica elettrica si afflosciava e moriva, il bagliore si spegneva non appena entrava in contatto con quelle di lui. E allora lei prese a muovere la testa, a cercare di divincolarsi dalla sua presa, inutilmente.
Elettra intrecciò le mani davanti al petto. I lamenti di Mira la raggiungevano lo stesso. Il rumore dei suoi fulmini che impazzavano ovunque, alla ricerca di una via d'uscita, di un modo per liberarsi, le fece venire la pelle d'oca.
Gli altri senzatetto si godevano lo spettacolo, invece. Quelli addormentati sollevarono il busto per osservare la scena.
Erano silenziosi, troppo. Erano sempre stati così curiosi? Una scarica le avvinghiò le viscere.
Poi scomparve, ed Elettra capì. Era finita. Quando si voltò, la luce di Mira non c'era più, e solo i fulmini di Yunca vivevano ancora, forti e saldi. Lui si reggeva su entrambe le gambe, dritto e fiero.
Lasciò andare Mira. Lei indietreggiò e cadde in ginocchio, come se non fosse più nemmeno capace di stare in piedi. Innalzò una scia di sudore che aggredì le narici di Elettra.
«Chi...» Si portò una mano alla guancia. «Chi cazzo sei... tu?»
«Sei la più pericolosa che abbia mai incontrato.» Yunca strinse le labbra. «Hai troppa energia. Sei come un fiume in piena.»
«La assorbe,» disse Elettra. «La assorbe direttamente dalla Tempesta.»
«Ah.» Yunca annuì. «Questo potrebbe essere un problema. Quanto tempo abbiamo per disciplinarla?»
«Non lo so, prima impara meglio è,» rispose. Si accucciò accanto a Mira. Le sfiorò una guancia. Scottava. Le porse la mano, ma Mira la rifiutò con uno schiaffo. Elettra allora la prese sotto le ascelle e la rialzò di peso, ignorando le sue proteste.
«Lasciami!» Mira si divincolò e fece qualche passo indietro. Il volto era arrossato. «Che cazzo mi avete fatto? Cos'era quello...» Si morse il labbro. «Perché non riuscivo a usare i fulmini?»
«Io controllo i fulmini altrui, giovinetta.» Yunca le mostrò i palmi. «Di quelli che tocco, almeno. Per questo la tua amica porta da me quelli che devono imparare il controllo, perché posso impedire che facciano stragi nel tentativo.»
Yunca era la sua salvezza. Cosa avrebbe fatto se non ci fosse stato lui?
«Te la lascio per qualche ora,» gli disse Elettra.
Yunca si pulì le mani sui pantaloni. «Ancora non mi hai detto che cosa ci guadagno.»
«Dimmelo tu. Cosa vuoi?»
«Abbiamo freddo, qui.»
Elettra gli sorrise. «Stufe per tutti, allora.»
«Affare fatto.»
Note:
Elettra è momentaneamente andata in tilt. Nella versione originale l'avevo fatta troppo perfettina, non sbagliava mai, era l'unica che non faceva mai errori. Poi ho imparato a conoscerla meglio e ho capito che la sua è tutta scena. Spero che nei suoi ultimi capitoli si sia notato questo dettaglio XD
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