Capitolo 30

Incontriamoci. Devo parlarti.

Tre semplici parole lampeggiavano sul telefono. Keira si salì la manica e affondò le unghie nella pelle. Lasciò delle scie bianche e brucianti, ma le preferiva di gran lunga alla nausea che le rimescolava lo stomaco.

Il sapore di bile le risalì per la gola. Sapeva di carne in scatola e acidi gastrici. Si portò una mano davanti alla bocca, mentre un'altra scarica le percorreva la trachea e le bruciava i tessuti dall'interno. Avrebbe vomitato. Doveva fare qualcosa o avrebbe vomitato da un momento all'altro.

Fece scorrere la sedia all'indietro con un rumore che avrebbe svegliato perfino una come Eve e se ne andò in bagno. Si lavò la faccia al lavandino con acqua gelida. Si congelò il naso al punto da provare dolore, ma andava bene così. Il sapore della cena misto ai succi che cercavano di digerirla si attenuò.

Incontrò gli occhi del suo riflesso. Grandi e spalancati, sembrava una povera stronza terrorizzata. Fece un verso sprezzante, il naso arricciato per un attimo: sembrava? Lei era una stronza terrorizzata. Niente di più e niente di meno.

Lasciò il bagno per andare in cucina. Eve sventolava una piuma davanti al naso curioso di Romeo. Lui la seguiva con lo sguardo, acquattato contro il pavimento. All'improvviso fece scattare gli artigli, ma Eve ritirò il gioco un momento prima che lui lo prendesse e lo schernì con una risatina.

Keira aprì un cassetto e cercò fra le posate. Forchette, coltelli e cucchiai erano riposti con una cura meticolosa, separati e perfettamente in ordine. Però non c'era nemmeno un apribottiglie. Elettra si preoccupava di mettere tutte le posate nello stesso verso, ma non aveva un apribottiglie.

Richiuse il cassetto facendolo sbattere. Forse l'ordine minuzioso all'interno se n'era andato a puttane, grazie al suo scatto d'ira. Lo sperava davvero.

Poggiò i palmi sul mobile e chinò la testa. Dovette concentrarsi per respirare, e anche così il movimento le venne fuori meccanico: aria dentro, aria fuori, aria dentro, aria fuori.

Cazzo, cosa avrebbe dato per potersene tornare a casa sua. Era un desiderio che le premeva sul cuore, più forte e più pesante di quello di una dose, perché là dentro non poteva neanche bersi una bottiglia di birra in santa pace.

«Che hai adesso?» Il fiato di Eve le solleticò il collo. «Ti sei accorta di quanto sembri normale con i vestiti di Elettra?»

Keira sorrise appena. «Sono stupidi,» ammise. Non c'era niente di sbagliato nel maglione blu che le aveva prestato Elettra, a parte forse il collo troppo alto che ogni tanto minacciava di soffocarla, solo non erano adatti a lei. Tirò giù il colletto, per lasciar passare l'aria. Forse era per quello che le sembrava di non riuscire a respirare. «Ma no, non è questo.»

Eve le spostò una ciocca di capelli dietro l'orecchio. Avvicinò le labbra alla sua guancia. «E allora che è successo?» Romeo fischiava ai suoi piedi, per attirare la sua attenzione.

«Niente.» Keira si scansò, le unghie grattavano ancora con furia la pelle del braccio.

«Non hai la faccia da "niente". Hai la faccia da "mi vogliono ficcare una scopa nel culo e non so come impedirglielo".» Non aveva del tutto torto.

Keira issò il suddetto culo sul mobile, aiutandosi con le braccia. Scrollò le spalle, senza trattenere una risatina. «Non potevi descriverlo meglio.»

«Quindi,» agitò la piuma sopra la testa di Romeo, «chi è la metaforica scopa?»

Il mittente del messaggio. Il suo nome le era ancora impresso nelle retine. Il telefono aveva scelto di rappresentarlo con un rosso scuro, che non trovava affatto adatto. Quella donna non era da rosso scuro, era da marrone merda, come la gigantesca montagna di sterco con cui la sotterrava.

«Niente, sono solo stressata.»

Plic. Plic.

Il lavandino sgocciolava.

Evelyn fermò il giochino proprio davanti al muso del gatto; quello glielo fece cadere di mano con un'artigliata e ci si avventò sopra. «Quindi pensi che sia scema.»

Una goccia si affacciò dal rubinetto. Sostò lì, come congelata nel tempo, come se anelasse la libertà, ma non trovasse il coraggio di buttarsi.

«Dillo che secondo te sono una cretina.» Eve le premette le mani sulle cosce. La goccia indecisa scomparve dalla visuale di Keira e comparve lei, con le labbra tirate verso il basso. «Mi dici che hai, sì o no? Preferisci che tiri a indovinare?»

«No.»

Sapeva già come sarebbe andata: avrebbe detto prima una delle sue solite cazzate, poi avrebbe azzeccato. Perché Eve la conosceva abbastanza da sapere che esisteva una sola persona in grado di farle quell'effetto. Eve conosceva l'identità della sua scopa nel culo.

«Quindi?» Batteva le dita contro la sua coscia.

Romeo lanciò un miagolio. Eve si girò a guardarlo, e Keira perse di nuovo la capacità di respirare.

La goccia trovò il coraggio di buttarsi. Si disperse nel lavandino, distrutta, separata in tante piccole parti più piccole.

Doveva buttarsi anche lei?

«Mia madre.» La voce le uscì roca, le bruciò la gola. «Vuole vedermi.»

Le dita di Evelyn si rilassarono. Le risalirono la gamba e le affondarono nei fianchi. «Sai cosa vuole?»

Rovinarle la vita, come al solito. Distruggere quella parvenza di tranquillità emotiva che credeva di aver ritrovato.

Keira fece entrare l'aria nei polmoni a fatica. Chiedere una nuova dose a Ulio, ecco di cosa aveva bisogno. Forse l'avrebbe rifiutata, dopo la sfuriata di Altair, però poteva sempre provare. E, nella peggiore delle ipotesi, non era l'unico a vendere il Rejecto, avrebbe trovato qualcun altro. Sì, avrebbe fatto così.

Il respiro le tornò regolare. Una nuova goccia fece capolino, insicura come la precedente. Tremolava. Cercava il coraggio della sorella di lanciarsi nel vuoto, in una vita libera e difficile.

«Keira?»

Gli occhi di Evelyn la costrinsero a tornare alla realtà. I polmoni le si bloccarono di nuovo.

«Non devi incontrarla se non te la senti.» Le sue labbra morbide le baciarono la guancia. Lasciarono un cerchio di fuoco impresso sulla pelle.

Non era costretta?

Sfiorò con i polpastrelli il punto in cui l'altra l'aveva baciata. Era gelido, eppure sentiva la pelle bruciarle dall'interno. «Se non ci vado, mi troverà lei. Finché non mi avrà detto quello che deve dirmi,» – finché non le avesse scombussolato la vita – «non mi lascerà in pace.»

«Allora diciamo ad Altair di prenderla a calci.»

No. Era Keira a meritare un pugno di Altair, non sua madre. Per quanto fosse terribile quella donna, era solo colpa di Keira se si lasciava scuotere da lei in quel modo.

Anche la seconda goccia si gettò giù. Era la forza di gravità a costringerla. Che la povera goccia trovasse o no il coraggio non aveva davvero importanza, perché le leggi che regolavano il mondo decidevano per lei. Alla fine non aveva scelta.

Keira cercò le mani di Evelyn, intrecciò le dita con le sue. Anche quelle scottavano, ma in maniera piacevole. Non erano un ferro rovente, erano il calore di un fuocherello del camino. Vivo e forte. «Forse hai ragione. Forse posso semplicemente ignorarla, come ho sempre fatto.»

Evelyn premette il busto contro di lei. «E se richiama?»

«Non lo so, la ignoro ancora?»

Plic. Un'altra gocca che cadeva.

Evelyn le carezzò le dita con il pollice. «Vuoi che le risponda io?»

Cazzo, no. Il solo pensiero dei due mondi che si scontravano – il passato e il presente, la madre e la fidanzata, l'oscurità e la luce – le fece risalire il sapore di bile. Lo mandò giù a fatica.

«No, è meglio di no,» rispose, e le diede un bacio. «Ma grazie.»

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«Non mi aspettavo di rivederti.» Ulio era affacciato dalla porta. Gli occhiali scuri lo nascondevano come al solito. Voltò la testa di lato, come a cercare una qualche figura invisibile al fianco di Keira. «Hai portato un altro dei tuoi amici per finire il lavoro e uccidermi?»

Sorrideva nel suo modo viscido, che lo faceva somigliare più a una lumaca vanitosa che a un uomo.

Keira si tirò su il colletto, fino al mento. Il tessuto le prudeva sulla pelle; si grattò il collo distratta. Il giorno dopo si sarebbe ritrovata piena di bollicine, lo sapeva. «Sono da sola.»

«Ah.» La mano gli lisciò i capelli all'indietro.

«Voglio solo una dose.» Cacciò una manciata di banconote dalla tasca e gliele porse. Eve non ne avrebbe sentito la mancanza, non se ne sarebbe mai nemmeno accorta. O almeno, lo sperava.

Ulio le osservò a lungo. Batteva il tacco contro lo stipite. Respirava dalla bocca con un suono raspante. «Mi dispiace, preferisco non avere più niente a che fare con te. Non prenderla come una cosa personale, è solo che preferirei che la tua fidanzata e la sua amica non mi facessero saltare le palle.»

Keira abbassò gli occhi sulla propria mano, ancora tesa. Le dita erano sbiancate per la violenza con cui stringevano le banconote. Eppure, le sentiva appena. Era come se non le appartenessero nemmeno, come se fossero solo degli innesti di metallo attaccati a una mano monca. «Solo per questa volta. Per favore.»

Lui scosse la testa. «No, no, non se ne parla. Ho già abbastanza problemi di mio, non voglio attirare né ibride incazzate né la polizia.»

Sapeva non sarebbe stato facile. Questo non significava che non avesse sperato nel contrario.

«Andiamo, me lo devi,» azzardò allora. Lo vide vacillare, e avanzò di un passo. «Sono stata rinchiusa in una cella con un cesso di merda per giorni, grazie alla tua soffiata. Il minimo che puoi fare...»

«Aspetta.» Ulio richiusa la porta e svanì all'interno.

Per un attimo, Keira rimase immobile, senza capire se fosse riuscita nell'intento o meno. Poi abbassò la mano con i soldi, la lasciò sventolare lungo il fianco. Ancora congelata. Ancora aliena.

Non sarebbe tornato. Se ne rese conto quando il freddo cominciò a penetrarle nelle costole. Eppure, nonostante la sua convinzione, restò ad attendere, chiudendo i bottoni della giacca e calcandosi addosso il cappuccio.

La maniglia scrostata la chiamava. Pulsava nella penombra, con il suo colore giallo sporco. Avrebbe potuto aprire, entrare e pregare qualche cliente gentile di farsi dare del Rejecto per lei in cambio di una mancia generosa.

Certo. Era una buona idea.

Allungò la mano verso la maniglia, ma quella girò da sola. Keira indietreggiò di scatto. Il piede scivolò giù dal gradino e il tallone le cadde su quello precedente, mandandole una scarica lungo la spina dorsale. Si nascose dietro un sorriso.

Ulio ricomparve sulla soglia. Le sventolò davanti una bustina con dentro una pipa e una polverina. Il Rejecto. «Ecco, tieni. Non puoi stare dentro però. Prendilo e vattene.»

La saliva le riempì il palato. Sparse un sapore di cenere e acido. Keira la rimandò giù a fatica. «Grazie.» Scambiò la bustina con le banconote.

«Questa è l'ultima volta,» le disse Ulio. Le chiuse la porta in faccia, questa volta senza alcuna intenzione di tornare.

Andava bene così. Keira infilò il bottino nella tasca della giacca troppo lunga, assieme al resto dei soldi rubati dal portafogli di Eve. Li avrebbe rimessi a posto durante uno dei suoi soliti bagni rilassanti. Nessuno avrebbe mai scoperto nulla.

Camminò lontano dal posto di Ulio, immersa nell'oscurità dei vicoli più putridi della città, lì dove nessuno l'avrebbe vista. Passò sotto un balcone circondato da luci ai led rossi, sorpassò un bidone ammaccato e una macchia viscida sul terreno. Continuò a cercare il posto giusto per una decina di minuti.

Alla fine lo trovò. Uno spiazzo semipulito, sotto la scritta "Vaffanculo" a caratteri cubitali. L'insegna spenta di un negozio di alimentari giaceva a terra, i cavi sfilacciati intrecciati al collo di una bottiglia vuota. Keira poggiò la schiena al muro ed estrasse il contenuto della bustina. Riscaldò la pipa con l'accendino, che ripose nella tasca posteriore subito dopo, e fece il primo tiro.

Oppio, mescolato a vaniglia e altre erbe che non sapeva riconoscere. Così ne avrebbe descritto il sapore.

Il fumo le uscì dalle labbra in disegni astratti. Li osservò sciogliersi nell'aria di fronte a sé, mentre le ginocchia cedevano e la lasciavano scivolare verso il terreno. Dopo altri soli tre tiri, una risata le scoppiò nel petto; la fece uscire, e udì l'isteria nella sua stessa voce lontana, come se appartenesse a qualcun altro.

I pensieri le si annebbiarono.

Il cellulare le trillò contro la coscia. Lo prese, ancora con il sorriso a solcarle le labbra, e lesse un nome in rosso tra le chiamate perse. Le lettere si sovrapponevano una all'altra. Assottigliò gli occhi.

Paula.

Che nome stupido, Paula. Lo ripeté più volte. «Paula, Paula, Paula, Paula.» Si riempì la bocca di quel nome fino a gonfiarsi le guance. Poi scoppiò a ridere.

Sì, era proprio un nome stupido. Chissà perché il cuore le martellava così forte nel petto, nel leggerlo.

«Ehi, stronza.»

Keira rideva ancora, ma sollevò lo sguardo a seguire la forma tozza della gamba che le si era parata davanti. Un uomo, giovane, con una cicatrice sul sopracciglio, la fissava dall'alto. «Tu sei Paula?» gli chiese, e si batté un colpo sulla coscia prima di un nuovo attacco di risa.

Altri brutti ceffi seguivano il primo. Tutti abbigliati come i classici teppisti dei cartoni animati, con orecchini troppo grandi che pendevano dalle orecchie e piercing ovunque.

Il primo ad aver parlato si accucciò davanti a lei. «È il Rejecto, quello?» I capelli di un verde sgargiante gli ricadevano scompigliati sugli occhi.

«Forse io sono il Rejecto.»

Ci fu uno schiocco forte. Le vibrò nell'orecchio. Poi Keira assaggiò il sangue sulla punta della lingua, la testa voltata di lato. La guancia le pulsava. Se la toccò con le dita tremanti.

«Dammelo.» Un ordine, quello del tizio dai capelli verdi. Un canino scheggiato gli accentuava il sorriso da predatore. Un fulmine gli attraversò il palmo, ancora alzato.

Un figlio della Tempesta. E non certo uno gentile.

Keira nascose la pipa dietro la schiena. Con l'altra mano si tenne alla parete e si tirò su a fatica. Il mondo vorticava, o forse era la sua testa a galleggiare nell'aria, libera dalla forza di gravità. «Non so di che parli,» biascicò.

Gli altri ridacchiarono. L'ibrido accentuò il sorriso. «Come vuoi tu.»

Il secondo schiaffo la lanciò distesa a terra.

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