Capitolo 19
Di puzze di cadaveri Altair ne aveva sentite parecchie, ma quell'odore particolare le mandava una scarica d'adrenalina lungo il corpo; carne bruciata e pelle carbonizzata trasportavano il retrogusto amarognolo di ricordi a cui preferiva non pensare. Osservò più a lungo del dovuto i resti dei tre uomini, uno più brutto dell'altro anche in vita a giudicare da quello che vedeva.
Si premette la manica della giacca contro le narici. Non servì a granché. Arricciò il naso, mentre le labbra si tendevano appena verso l'alto. Evitò di calpestare le pozze di sangue – non che ne fosse caduto poi molto – e uscì dal vicolo.
La trovò lì, in piedi, in attesa di chissà cosa. La testa era reclinata, i capelli le dondolavano dietro la nuca, imbrigliati in una coda lunga, dello stesso colore dei fulmini che picchiavano fuori da Nuova Folk. All'apparenza era calma. Altair però la percepiva, la punta frizzante del profumo della Tempesta sollevarsi dalla sua persona; la circondava come un'essenza, la sua essenza.
Aspettava a pochi passi fuori dal raggio di un lampione. I riflessi della luce le schiarivano la guancia. Un piede sostava sul marciapiede, l'altro fuori.
Altair si avvicinò in silenzio, tamburellandosi un pollice contro la coscia. Mira non si accorse di niente, impegnata com'era a fissare la furia della Tempesta riversarsi fuori dalla cupola. Così Altair le picchiettò un dito sulla spalla, e l'altra si girò con il braccio teso.
L'aria le fischiò nell'orecchio; Altair sollevò il gomito, dove il palmo di Mira si abbatté come una frusta, per poi ritirarsi. «Nervi tesi, eh?»
Mira scese dal marciapiede. Creava spazio fra loro. Non era stupida, allora. Forse nemmeno del tutto imbranata. Gli occhi, più grigi che azzurri sotto quel buio, fissarono Altair. Si assottigliarono fino a diventare poco più di un ammasso di ciglia fruscianti. «Che ci fai tu qui?»
Sotto uno spesso strato piatto, il suo tono tradiva un'emozione. Quale però Altair non lo comprese. Le parve già strano che ci fosse qualcosa, oltre lo scazzo perenne dell'altra.
Puntò il pollice verso il vicolo. «Li hai seccati tu, quei tre soggetti?»
L'attenzione di Mira vagò in quella direzione. «Che vuoi?» chiese ancora, questa volta con una rabbia graffiante.
«Cazzo, rilassati ogni tanto. Dovresti scopare di più, sembra che ti abbiano ficcato un petardo nel culo.»
La mano le andò alla pistola. Inutile, e lo sapeva pure lei, infatti non la estrasse. Altair la sfidò a provarci in un'ammiccante danza di sopracciglia. «Devi andartene,» le disse l'altra. «Adesso.»
«Andiamo,» Altair entrò nel fascio di luce del lampione, spalancò le braccia, «sono appena arrivata. Non vuoi una rivincita?»
«Rivincita?» Mira esitò per un attimo. Le dita si allontanarono dalla fondina. L'energia le scorreva ancora con prepotenza nel corpo. Emanava forza. Una scintilla le scoppiettò sulla tempia; si spense subito, tuttavia esalò un bagliore evidente nel buio.
Altair chiuse i pugni. I suoi, di fulmini, le scalpitavano nel petto con la furia di una mandria imbufalita. La faccia di Mira sembrava fatta apposta per le sue nocche. «Che c'è? Ti piace prendertela solo con le scartine?»
Uno sbuffo, poi Mira rilassò le spalle. «Stanno arrivando gli altri, per controllare i cadaveri.» Cercò l'apertura del vicolo dove i tre uomini giacevano riversi a terra. Riportò la completa attenzione su Altair subito dopo.
«E allora? Che cazzo me ne frega? Mica li ho ammazzati io.»
Mira non le rispose. Raddrizzò collo e schiena. Le braccia giacevano lungo i fianchi, come rassegnati. Incrociare lo sguardo con lei era come scrutare la Tempesta stessa: furiosa, forte e poco eloquente.
Una manciata di secondi, prima che Altair capisse. E allora allargò entrambi gli angoli delle labbra. «Cazzo, hai dato la colpa a me.»
«Non proprio,» ammise l'altra.
«Il superuomo depresso?» Mimò l'atto di spararle con le dita.
Mira aggrottò la fronte. Poi incrociò le braccia. «No.»
Rimaneva una sola possibilità. Altair scoppiò a ridere. «La ghiacciolina?» Ce la vedeva, a ridurre tre poveri fessi per strada in pezzi di carbone?
«Vattene. È meglio se non ti vedono,» disse Mira.
Altair calmò le risate e inclinò il capo, cercando nella sua espressione un indizio di cosa cazzo stesse combinando quella pazza sadica. Un'espressione sempre piatta. Sempre lontana. «Tanto sanno già che faccia ho, no?»
Una sfida, la sua. Un modo per testarla. Un modo per comprendere cosa le passasse nella testa. Elettra cercava un piano per parlarci senza i suoi compagni poliziotti in mezzo alle palle, no? Sarebbe stata contenta di sapere che, forse, sarebbe stato più facile di quanto credesse.
Oppure no.
Altair si massaggiò il collo, senza staccarle gli occhi di dosso. In lontananza, il rombo delle macchine spezzava il silenzio. I rumori si avvicinavano, sebbene senza fretta.
«No, non lo sanno.» Sputò fuori la verità come se fosse un boccone andatole di traverso. «Hanno solo il tuo nome. Il come o il perché però lo sai tu.»
«Un incidente con un mollusco travestito da persona,» rispose lei.
Mira ebbe una reazione strana; le si addiceva poco, eppure stirò un poco le labbra, la testa abbassata. Il sorriso non le raggiunse gli occhi, si fermò lì, alla metà inferiore del volto, e svanì subito dopo. «Se non vuoi farti beccare...» iniziò, ma il fischio dei freni delle macchine la bloccarono.
Le sirene lampeggiavano silenziose. L'auto era solo una, l'altro era un furgoncino dell'ambulanza. Dalla prima scesero due persone – a lui l'uniforme stava stretta, gli strizzava le gambe troppo ciccione per un poliziotto; a lei andava larga, le cadeva addosso come un sacco vuoto. Lui si avvicinò a Mira con passo deciso, passandosi le dita fra i pochi capelli che gli restavano. Aveva visto tempo migliori, chissà, magari una ventina d'anni prima era stato un ragazzo di bell'aspetto. Ormai gli restavano solo troppe rughe e un fisico da bevitore di birra.
«Abbiamo fatto il prima possibile,» disse, rivolto a Mira. Gli occhi, piccoli e sguscianti, continuavano a scivolare su Altair. «Dove sono?»
«Lì.» Lei indicò il vicolo.
«E la signorina?»
Altair aprì la bocca per rispondergli. Mira le pestò un piede. Lei si morse il labbro e voltò il capo, reprimendo a stento un sorriso. Le sferrò un calcetto di risposta sul polpaccio.
«Lei è Monica,» disse Mira. Per poco Altair non sputò un polmone. «Passava per caso. È un'amica d'infanzia.»
Come scusa reggeva davvero poco. Eppure, l'uomo spalancò la bocca, che poi si allargò in un sorriso pieno di rughe. «Non sapevo avessi un'amica d'infanzia. È un piacere, Monica. Io sono Eugene.» Le porse una mano.
Divisa o meno, il ruolo che ricopriva ricordava più il classico vecchio zio rompicoglioni pronto a giudicare in silenzio che un poliziotto. Non si preoccupava nemmeno di nascondere il sollievo che provava alla notizia che Mira, a quanto sembrava, avesse una vita sociale.
Altair tenne le mani nelle tasche della giacca. Alzò solo il mento in cenno di saluto.
Eugene ritirò la mano. La sua collega – la cannuccia dentro il sacco a pelo – gli si affiancò. Non staccava gli occhi dal pavimento. «Andiamo subito a vedere. Mira, Norton mi ha detto di riferirti che il tuo turno è finito. Torna a casa con la tua amica, per oggi, hai avuto una lunga giornata. Qui ci pensiamo noi. Appena potrà arriverà anche lui.»
Mira non se lo fece ripetere due volte. Afferrò Altair per il gomito – le dita le affondarono nei nervi, premettero fino a svegliarle una scarica di fulmini scoppiettante nello stomaco – e la trascinò via. Non salutò. Non ringraziò.
Altair le avvicinò le labbra all'orecchio. «Quindi, che fai adesso, ti porti la tua amica Monica a casa?»
L'altra la spinse via, e lei rise. «Si può sapere che cazzo speravi di fare? Se dovessero parlare di te a Norton, sarei nei guai fino al collo.»
«Be', certo, stronza. Mi hai coperto.» Fece schioccare la lingua. «Perché cazzo l'hai fatto? Hai già perso la testa per me?»
«E tu perché vuoi chiacchierare come se fossimo amiche?» Una domanda al posto di una risposta.
Altair si riavviò una ciocca di capelli. «Che cazzo è, il gioco dei perché? E allora tu perché hai ammazzato tre stronzi a caso per darci la colpa?»
Mira roteò gli occhi al cielo. «Che volete da me?» sbottò. E, per la prima volta da quando l'aveva incontrata, lasciò uscire una vera emozione. Un'emozione che le graffiò la voce.
«Io niente, mi annoio. E poi continui a starmi tra le palle.»
«Sei tu che spunti dal nulla ogni dieci secondi.» Le guance le regalavano una tinta rosata, che le risaliva fino alla radice del naso. Più si arrabbiava, più l'odore della Tempesta si faceva intenso.
In uno sbuffo divertito, Altair le calciò lo stinco. L'altra se lo prese in pieno, imprecò, e fece scattare il pugno in avanti. Lo schivò con facilità. Dopotutto se lo aspettava. «Io mi facevo solo un giro,» spiegò, «non è colpa mia se tu lasci cadaveri in giro. Non è proprio un bel modo per passare inosservati. E se te lo dico io, è grave.»
Mira mostrò i denti, come se si preparasse a darle un morso. Anziché attaccare, scivolò via. I pugni le dondolavano lungo i fianchi. Il rossore della pelle però rimase. Dischiuse le labbra, e sembrò sul punto di dire qualcosa.
Qualcosa che non lasciò mai la sua testa. La lingua saettò fuori, veloce e isterica. Poi la bocca si sigillò di nuovo.
Cazzo, se era repressa. Altair gliel'aveva detto, a Elettra.
«Quindi? È una cosa che fai spesso, friggere quelli che ti stanno sul cazzo?»
Ottenne l'ennesimo sbuffo. «No.»
Altair colpì il pavimento con la punta del piede. «Parli solo per monosillabi, pazza sadica?»
«In che lingua devo dirtelo, che devi andartene?»
Lei aprì le braccia. «Voglio solo sapere che cazzo combini. Non capisco mai da che parte stai.»
Delle voci si diffusero alle sue spalle. Altair voltò il busto a controllare Eugene e l'altra tizia sistemare il nastro della polizia. I paramedici, vestiti con il loro tipico verde smorto, portavano via le barelle. Sacchi neri celavano i cadaveri carbonizzati. Nonostante la distanza, nonostante gli strati di plastica che li separavano dal resto del mondo, Altair avvertì la puzza di carne bruciata. O forse le era solo rimasta nel naso.
La mano di Mira le afferrò la giacca. La tirò via, la costrinse a seguirla lungo la stradina poco illuminata, da un lampione all'altro. Fino a che le voci e i rumori non divennero distanti.
«Cosa c'è di così difficile da capire?» disse Mira all'improvviso.
Altair aggrottò la fronte. «Capire cosa?»
Girò il capo. I capelli le coprirono il volto. «Da che parte sto.»
«Prima aiuti gli sbirri a cercare informazioni su di noi, poi atterri il tuo stesso compagno.» Altair contava con le dita. «Poi cerchi di uccidermi. Ci intralci. Ammazzi tizi a caso. Ci dai la colpa. E ora per qualche cazzo di motivo che sai solo tu, mi copri.»
Aveva una sola parola per una persona così: pazza. Perché non esisteva un senso, dietro le sue azioni. Si comportava come se cambiasse idea ogni dieci secondi. Come qualcuno che non riusciva a capire a quale mondo appartenesse, se a quello delle persone comuni o a quello degli ibridi.
Mira scrollò le spalle. «Potrei dire lo stesso di te. La prima volta che ti ho incontrata hai cercato di uccidermi, ora guardati.»
«Ohi, non mettermi al tuo livello.» Le diede una spinta. «Te l'ho detto, mi faccio solo due palle grosse come una mongolfiera.»
«E prendertela con me ti fa divertire?»
«Perché, a te no?»
Non le rispose. Non che ce ne fosse bisogno. I fulmini dentro di lei scalpitavano, Altair li sentiva, vicina com'era. Un'energia pulsante e ruggente.
«Non sto da nessuna parte,» disse Mira alla fine. «Solo dalla mia.» Accelerò il passo fino a superarla. Se ne stava andando, sparendo negli anfratti oscuri della città, dove i lampioni non arrivavano, dove la luce non poteva disturbarla.
Altair avrebbe potuto seguirla. I piedi si mossero, con l'intenzione di fermarla. Invece si arrestò e agitò soltanto una mano in aria. «Ohi, pazza sadica! Ci sarai domani?»
Mira levò due dita, senza nemmeno voltarsi. Un segno di saluto, forse. O magari uno strano modo di mandarla a fanculo.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top