Schiava[1/3]

Spesso è più sicuro essere in catene che liberi.

(Franz Kafka)

Dormire in un vero letto dopo così tanto tempo era un'esperienza quasi mistica per Nemeria. Quando aveva aperto gli occhi poi, aveva dovuto tirarsi un pizzicotto sulla guancia per essere sicura di non stare sognando. Aveva anche provato a toccare le lenzuola con entrambe le braccia, ma la sinistra non si era mossa dal suo petto: era stata steccata e una fasciatura molto stretta le impediva anche solo di spostarla. In realtà, come si era resa conto un istante più tardi, non era l'unica cosa che faceva fatica a muovere. Tutto il suo corpo era un livido, pieno di tagli e bruciature.

Sbatté un paio di volte le palpebre e, come se non avessero atteso altro, i ricordi del combattimento nell'arena si riassemblarono, assieme alla consapevolezza di aver attinto, per la seconda volta, al potere dell'aria. L'elementale aveva una bella voce, più acuta rispetto a quella dell'elementale del fuoco, come di una giovane fanciulla, non più bambina ma non ancora donna.

- Grazie. - sussurrò, sperando che la sentisse.

Trasse un altro profondo respiro, si puntellò su un gomito e riprovò a tirarsi su. Tutti i muscoli gemettero e il dolore la fece tremare così tanto che per poco le forze non le vennero meno. Anche quando riuscì a mettersi seduta, racimolò le energie per raddrizzarsi solo dopo un lungo, sofferente minuto. Dopodiché si guardò intorno.

"Per la Madre!"

Era senza fiato. La stanza era grande, molto più grande di qualsiasi altra avesse mai visto. Sul pavimento a mosaico si svolgeva una battuta di caccia a cavallo che sembrava continuare sulle pareti e poi su, fino al soffitto, dove i commensali banchettavano con le prede catturate. Di fianco a lei, vicino alla testiera di bronzo, su una cassapanca con inserti di madreperla e pasta vitrea, erano stati appoggiati dei bracieri. Gli incensi che vi bruciavano spandevano un delicato profumo di limone e mirra che le solleticava le narici. Nemeria si allungò e lo inspirò a pieni polmoni, come la prima volta che aveva presenziato ai rituali dell'Alta Sacerdotessa. Il fumo la fece tossire e lacrimare gli occhi, costringendola a ritrarsi.

Zoppicando, sfiorò con deferenza e timore il vaso rosso poggiato sul tavolinetto vicino all'armadio. La luce biancheggiava sul legno lucido, ne delineava le teste di cavallo sui tre piedi, correndo lungo l'asse di sostegno fino al piano di marmo rosa.

"Ma dove sono finita?"

Osservò ancor più meravigliata il copriletto damascato.

Sapeva che si sarebbe dovuta preoccupare, tuttavia non poté che ammirare ciò che la circondava. Arsalan le aveva raccontato spesso di quanto alcuni mortali fossero ricchi, molto ricchi, ma solo in quel momento Nemeria prese coscienza di quanto possedessero. Estasiata da tutta quella bellezza, si era persino dimenticata di quanto fosse difficile stare in piedi.

Si appoggiò al materasso per riprendere fiato. Il dolore la pungolava dall'interno e, quando meno se lo aspettava, affondava i suoi denti velenosi nei muscoli.

"Forse dovrei tornare a letto."

Ma il tarlo di scoprire a chi appartenesse quella casa era impossibile da ignorare. Inoltre, chiunque fosse, l'aveva portata via dall'arena, doveva quantomeno ringraziarlo.

Piegò la gamba per compiere un passo, ma si fermò col piede a mezz'aria, il cuore improvvisamente pesante. Lo sguardo vitreo di Kimiya le asciugò la bocca e soffocò l'euforia sotto le acque del dubbio: dov'era finita? Era scappata o era rimasta lì, nell'arena? Il solo pensiero che fosse ancora tra le mani di Abayomi le raggelò il sangue.

Strinse forte i denti e gli occhi e si obbligò a camminare. La porta non era altro che una semplice tenda di lino; le scivolò sulle spalle e sul viso come una carezza, quasi la volesse invitare a proseguire.

Nemeria fece un respiro profondo e, appoggiandosi al muro con l'unico braccio sano, avanzò lungo il corridoio un passo dopo l'altro. Si sforzò di aumentare l'andatura un paio di volte, ma le sue gambe protestarono e la obbligarono a rallentare. O, quando i crampi le annebbiavano la vista, la costrinsero addirittura a fermarsi. Non seppe come fece ad arrivare alla fine senza scoppiare in lacrime. Si affacciò su un altro corridoio, anch'esso dipinto di rosso, e si trascinò finché non arrivò in una nuova stanza, ancora più grande della sua. Sul tavolo centrale, attorniato da cinque letti con le testiere istoriate d'argento e avorio, era stata adagiata una ciotola di bronzo con fichi, datteri, pesche e mele, mentre in un'altra, molto più piccola e anonima, delle olive nere. Quando Nemeria si avvicinò, scoprì che sotto il panno bianco c'era anche un piatto con diverse pagnotte. A quella vista, il suo stomaco emise un lungo e sonoro brontolio.

"Da quanto tempo sono qui?"

La domanda sorse spontanea e rimase in sospeso, assieme a tutte le altre che le si affastellavano davanti agli occhi. Scosse veementemente la testa e si dovette appoggiare al tavolo per non cadere. Prima che le ginocchia le cedessero, si diede la spinta per andarsi a sedere su uno dei letti. Il materasso scricchiolò e la bambina sprofondò, finendo quasi per cadere dall'altra parte. Quando riuscì a rimettere i piedi a terra, si accorse di stare girando scalza. La pelle sulla pianta era ruvida, screpolata lungo tutto il tallone e dura al centro. Non si era mai resa conto di quanto si fossero rovinati fino a quel momento. Nel tempo passato con la Famiglia non aveva più fatto caso a tante cose.

"Non ci pensare, non ora."

Lasciò le gambe a penzoloni per un momento, prima di saltare di nuovo giù e avvicinarsi al tavolo. Prese una panetto con semi di papavero, finocchio e sedano, li infilò nelle tasche della tunica e poi prese due manciate di datteri.

"Sono sicura che anche lei avrà fame."

Lo stomaco gorgogliò ancora. Nemeria analizzò i frutti rimasti e prese la mela più rossa di tutte. Quando l'addentò, il sapore dolce della polpa le esplose in bocca. Era così tanto che non ne mangiava una che si era dimenticava che gusto avesse.

- Sì, non potrà non piacerle. - mugolò tra sé e sé, - Anzi, quasi quasi gliene porto una. -

Tastò quelle rimaste come aveva visto fare ai fruttivendoli del Quartiere del Legno e alla fine optò per una pesca. Non era molto grande, ma la buccia era morbida e profumatissima.

Con le mani appiccicose e il succo ancora fresco sulle labbra tornò a guardarsi intorno. A parte quegli strani letti – ma se era una sala da pranzo, perché i commensali avrebbero dovuto dormirci? – c'erano altri due tavolini tondi di bronzo, tutti con le zampe lavorate a forma di testa di leoni; infine notò diverse sedie, alcune con lo schienale, altre senza, altre ancora ne avevano uno lungo e poco più sotto della metà spuntavano i braccioli.

Nemeria si diresse verso la porticina socchiusa e sbirciò all'interno. Rimase sorpresa e delusa nell'appurare che la cucina era un ambiente piccolo rispetto alla sala, con diversi treppiedi sopra un bancone sporco di carbone. Sotto il piano di laterizio si aprivano delle arcate in cui erano state riposte fascine, paglia e qualche ciocco di legno. Il cuoco non si vedeva da nessuna parte. Compì un cauto passo all'interno.

- Kimiya? - chiamò a bassa voce, - Kimiya, sei qui? -

Sondò l'ambiente circospetta e attese un momento. Si aspettava di veder sbucare la testa arruffata della sua amica da sotto la tovaglia. Si batté una mano sulla fronte quando le tornò in mente che anche se avesse urlato il suo nome, Kimiya non avrebbe potuto sentirla.

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top