Le decisioni sono soltanto l'inizio di qualcosa. Quando si prende una decisione, in realtà si comincia a scivolare in una forte corrente che ti porta verso un luogo mai neppure sognato al momento di decidere.
(Paulo Coelho)
Il cielo imbrunì presto e le nuvole illividirono, colmandosi dell'aria umida della sera. Il vento le sospingeva in avanti, le gonfiava e vi passava attraverso, per poi calare in una parabola discendente tra le strade di Kalaspirit e nel cortile della scuola. Era un vento caldo e secco, che spolverava la terra di granelli di sabbia rossa e scrocchiante. Anche a occhi chiusi, Nemeria percepiva la loro carezza ruvida sulla guancia e tra le ciglia. Si stropicciò le palpebre, stronfiò per togliersi i granuli rimasti appiccicati alle labbra e alle narici e abbracciò il paesaggio con lo sguardo.
Erano già passate due ore dall'inizio della prova e alcuni si erano addormentati, per lo più ragazzi della sua età o poco più grandi, probabilmente sfiniti dagli allenamenti del pomeriggio. Erano stati svegliati dai maestri che li sorvegliavano ed esortati a tornare nelle loro stanze senza possibilità di replica. Non che avessero qualcosa da obiettare: avevano fallito la prova e questa consapevolezza si accompagnava a un'espressione diversa per ognuno. Nell'indifferenza, Nemeria poteva cogliere la vena della paura; nella stanchezza, l'ombra del dubbio; nell'incertezza, la ruga della rassegnazione.
Non li seguì mentre si allontanavano, né si soffermò più di tanto sui loro mormorii preoccupati o sui singhiozzi decapitati tra i denti. Per quanto provasse dispiacere per loro, non doveva perdere di vista il suo obiettivo. Così lasciò che il vento acchiappasse gli strascichi delle loro conversazioni e li disseminasse lontano da lei, prima che piantassero radici nella sua testa.
Al suo fianco, Noriko piegò una gamba, distese le braccia e chiuse pollici e indici ad anello. Era stato il suo unico movimento in quelle due lunghe ore. A piedi nudi nella sabbia, si manteneva in perfetto equilibrio, come se non avesse fatto altro in tutta la sua vita. Anche l'immobilità di Ahhotep era ammirabile, seppur diversa. Se lei era uno stelo d'erba bloccato nel ghiaccio, una vita cristallizzata nell'inverno, Noriko era una quercia che sfidava il vento.
Durga pareva riposare all'ombra dei suoi rami. Aveva disegnato una griglia e vi aveva disposto dei sassolini che aveva trovato frugando sotto la sabbia. Per distinguerli, aveva disegnato una mezzaluna bianca con l'unghia, ripassandola due o tre volte perché fosse visibile. Quella era forse la quinta partita che cominciava, Nemeria non le aveva contate tutte. Però aveva notato che quel gioco catalizzava completamente la sua attenzione. Avrebbe volentieri partecipato anche lei, se solo avesse potuto chiederle di spiegarle le regole.
Udì un lieve russare alle sue spalle, il respiro lento e profondo del sonno. Una donna con il collo adornato da collane colorate e le labbra dipinte di blu avanzò verso una ragazza che era crollata rannicchiata di lato. Al suo fianco, chiuso come una chiocciola, dormiva il suo compagno, uno sha'ir con i capelli macchiati d'oro e il collo chiazzato di lentiggini.
- Alzatevi, asiri. -
Entrambi i ragazzi si svegliarono. Si fissarono intontiti per un momento prima di prendere coscienza di cosa fosse successo.
- Ci dispiace. - mormorò lo sha'ir.
La donna tacque. Solo il lieve ondeggiamento del labbro tra i denti lasciava intuire che stava valutando cosa dire. La luce della torcia illuminava solo metà del viso, lasciando l'altra in ombra, come se la linea bianca che lo divideva in due metà perfette fosse la linea di confine per una terra di nessuno.
- Andate da Nande a farvi controllare. Se vi ammalaste di nuovo, sarebbe un problema per Tara. -
Lo Sha'ir annuì. Tese la mano alla ragazza, l'aiutò ad alzarsi e poi quasi la trascinò fuori dal cortile. La sua magrezza smunta appariva ancor più spettrale nella semioscurità.
Come ti senti?
"Stanca. E questa sabbia è tutto fuorché comoda."
Pavona rise nella sua testa. Il suono aveva un che di leggero e rassicurante.
"Mi dispiace che stasera sei venuta inutilmente."
Prima o poi sarebbe successo. Non è l'unica scuola di gladiatori che fa una cosa del genere.
"Quante ce ne sono?"
Nell'Impero Siham? Tante. Quella di Kalaspirit è una delle più conosciute, ma di certo non è la più grande.
Durga sbadigliò rumorosamente e si fece scrocchiare le dita, prima di muovere un'altra pedina in avanti. Nemeria le lanciò una lunga occhiata e attese le altre mosse per assicurarsi che non si addormentasse.
"Non penso sia giusto che tu parli con me."
Preferisci che me ne vada?
Nemeria si prese il suo tempo per rispondere. Fissare Agni che danzava tra le fiamme la rilassava, ma senza uno stimolo sarebbe crollata prima dell'alba. La fame, anche se l'aiutava a rimanere sveglia, presto sarebbe rimasta schiacciata dallo sfinimento della giornata.
Non penso che le tue amiche ti biasimerebbero, se è questo che ti preoccupa.
"Come fai a saperlo?"
Tu diresti loro qualcosa?
"No, ma..."
Ma?
"È che mi sembra di barare. Non è giusto nei loro confronti."
Allora parliamo finché non senti di potercela fare da sola, va bene?
Era difficile dire di no. Se sull'altro piatto della bilancia non ci fosse stato Batuffolo, forse avrebbe rifiutato: lui contava più del suo orgoglio e delle aspettative di Tyrron.
"Anche se, dopo tutto quello che ha fatto per me, non voglio deluderlo."
A chi ti riferisci?
Il sussulto di Nemeria scatenò l'ilarità di Pavona.
"A Tyrron, il mio lanista. A suo modo mi ha aiutata ed è stato..." cercò la parola giusta da associare. " È stato gentile, ecco."
Allora cerchiamo di non deludere le sue aspettative.
La scuola divenne inconsistente, sprofondò in un bianco accecante e i contorni si distorsero, delineando una piana che si estendeva a perdita d'occhio. L'erba era affilata, dritta e ispida come il pelo di un gatto. Davanti a Nemeria, come perse in lontananza, nuvole bianche e paffute nascondevano allo sguardo la cima delle montagne.
- Le Montagne Celesti. Le avevi mai viste? -
Pavona era apparsa al suo fianco. Indossava una tunica lunga fino al polpaccio, con maniche larghe e colletto alto foderato di pelliccia. I calzoni, di un marrone scuro che aveva trattenuto il profumo di quercia, erano rimboccati all'interno degli stivali di pelle a punta rialzata. Un vento freddo frusciava tra gli steli e le scompigliava la coda che fuoriusciva dal copricapo rosso. Senza trucco non sembrava nemmeno lei.
- Ne avevo solo sentito parlare. - rispose Nemeria.
Non era agitata: quella era una Condivisione, tanto reale da sembrare vera. Ma inconsciamente, con una consapevolezza che niente aveva da spartire con la ragione, avvertiva che non era niente di più che un ricordo molto vivido.
- Come puoi farlo se sai padroneggiare solo la terra? -
- La terra è un elemento pesante, come l'acqua. Conoscerne a fondo uno equivale a carpire qualche segreto dell'altro. - le lanciò un'occhiata in tralice e aggiunse, - Tu sai di cosa sto parlando. -
Nemeria stava per ribattere, quando si ricordò che lei aveva visto tutto durante la Condivisione del loro primo incontro.
- Imparerai, a piccoli passi. -
- Vorrei possedere la tua sicurezza. -
- I maestri devono avere fiducia quando i loro allievi non ne hanno abbastanza. -
Pavona sorrise e Nemeria si sentì rinfrancata.
Rimasero sedute sui massi su cui erano apparse, a fissare il recinto dei montoni, dei cavalli e dei buoi sorvegliati da quattro cani dal pelo lungo e maculato. Un altro, un mastino col muso schiacciato e la lingua di fuori, si aggirava tra le yurte, più per elemosinare del cibo che per far loro la guardia. Quando giunse vicino, annusò le gambe di Pavona, si accucciò al suo fianco e la fissò finché non le strappò una carezza.
- Zambaga. Me la ricordo ancora. Amava rincorrere i cavalli, anche quando era chiaro che non aveva possibilità di vincere. - mormorò la donna, grattandole il collo e dietro le orecchie, - Vieni, è ora di pranzo. -
Fece cenno a Nemeria di seguirla verso la yurta più vicina.
Negli ultimi anni, Nemeria le aveva viste usare poco, forse perché la sua tribù non si era spesso spinta oltre i confini dell'impero, ma ricordava lo scheletro di doghe e la quantità di calore che il panno di feltro era capace di trattenere. Tuttavia, il luogo di nascita di Pavona era un luogo freddo, ben lontano dal deserto e dalle sue piccole oasi. E di quel giorno non le rimanevano altro che sfumati ricordi tattili, legati più a suoni e sapori appartenenti a una memoria sopita e impolverata dagli anni.
La porta di legno della yurta si aprì senza un cigolio. Pavona dovette piegare la testa per entrare, mentre Nemeria scivolò dentro senza nessuna difficoltà. Anche lei indossava i suoi stessi abiti, con un copricapo simile ma a falda larga.
Ad accoglierle fu un'aria di festa e due Jichéngrèn poco più alti di cinque piedi e mezzo. L'uomo vestiva come Pavona, la donna invece indossava un cappello con delle lunghe nappe verdi, abbinate alle strisce blu che si avviluppavano attorno alle orecchie, così lunghe e sottili da sembrare le ali di un pipistrello. Le escrescenze ossee che disegnavano le sopracciglia e contornavano gli zigomi sporgenti erano state dipinte di rosso, in modo da mettere in risalto gli occhi a mandorla.
Nemeria si inchinò in segno di saluto, seguendo l'esempio di Pavona, e poi vennero accompagnate alla tavola, un tappeto di lana attorno a cui erano seduti sia altri Jichéngrèn che i membri della tribù. Nemeria riconobbe Hediye, Fakhri, Arsalan e molti altri. Tutti erano più giovani, più sorridenti; parevano amici raccolti alla stessa tavola durante una ricorrenza, parlavano tra di loro con un'intimità che Nemeria aveva visto riservata solo all'interno della tribù.
- Sedici anni fa era diverso. -
Pavona si sedette tra due bambine Jichéngrèn che stavano divorando delle frittelle. Le lanciarono una lunga occhiata incuriosita, poi una di loro, la più piccola a giudicare dalle escrescenze ossee meno accentuate, le porse una ciotola con brodo e gnocchi fritti.
Nemeria prese posto dietro Pavona e rimase imbambolata a guardare i partecipanti al banchetto. Sua madre era bellissima da giovane. Non era sicura di quanti anni avesse, ma portava i capelli tagliati corti e una lunga collana di finti denti di leone e perle colorate. Aveva le guance rosse, sia per il riso che per l'arakà, il liquore a base di latte prodotto dagli Jichéngrèn. Fakhri e Arsalan sedevano vicini e si stavano dividendo le fette di pane per spalmare il formaggio di capra. Lei corrispondeva alla maestra dei suoi ricordi, quella che portava le orecchie tempestate di orecchini di tutte le grandezze e forme e i capelli perennemente raccolti in una crocchia al di sotto della nuca, con solo qualche filo di un grigio così tenue da confondersi col bianco della chioma. Mangiava con la solita calma, masticando ogni singolo boccone come se fosse il primo e unico. Pure Arsalan era come lo ricordava: burbero, austero, con delle occhiaie che, col tempo, si erano approfondite fino a diventare una vera e propria rete incisa nella pelle.
Era strano per Nemeria vederli così, com'erano stati anni prima. Sembravano persone diverse, più felici, più libere, più umane. Persino le Jinian Anziane si concedevano qualche sorriso e, anche se quello che provavano non era altro che l'ombra di un sentimento, il corpo rilassato esternava la loro serenità interiore.
- Cosa ci è successo? - mormorò meravigliata.
- Sedici anni fa, l'Alta Sacerdotessa scelse il suo Unico e rimase incinta. -
Non servì che Pavona gliela indicasse, Nemeria la riconobbe subito. Sedeva sorseggiando una tazza di tè accanto allo Jichéngrèn che era venuto ad accoglierle. La luce cerulea dei tatuaggi filtrava attraverso la stoffa e bastava un movimento poco più ampio del braccio perché la manica li scoprisse un po'. Nemeria, però, non riusciva a staccare gli occhi dal ventre gonfio che l'Alta Sacerdotessa non smetteva di accarezzare.
- Era un uomo del Nord conosciuto durante un pellegrinaggio al santuario dell'acqua, in Jogalia. Per la Madre, quanto amava quella bambina! Quando nacque, me lo ricordo, eravamo ancora qui e io assistetti al parto. Dovevi vedere come la stringeva, l'amore nel suo sguardo mentre le dava il suo latte. -
- E cosa è cambiato da allora? -
- Le Anziane, dopo un anno dalla nascita, dovettero obbligarla ad affidare la bambina all'Ikaelan scelta. È stato orrendo vederla crollare. -
Nemeria non riusciva nemmeno a immaginarsi una scena del genere. Per lei, l'Alta Sacerdotessa era sempre stata una donna forte, eterea, invincibile.
- Non so se fu quello o l'inizio del conflitto con l'impero Skandaaleshan a indurla a credere che allontanarci ancora di più dai mortali fosse la scelta migliore. -
- Quindi loro... - indicò gli astanti, - Loro sapevano chi eravamo? -
- Probabilmente sì, ma l'Alta Sacerdotessa tolse loro la memoria prima di ripartire. Forse c'è ancora qualcuno tra i mortali che si ricorda di aver mangiato alla nostra stessa tavola, ma ormai siamo materiale da leggende. - fissò i fondi d'erbe e trasse un profondo respiro, - È il motivo per cui ho abbandonato la tribù. Volevo vedere, volevo conoscere, non potevo più accontentarmi di osservare il mondo da lontano. -
- Mi dispiace che tu te ne sia andata. -
Pavona tese la mano verso una Jichéngrèn che le stava offrendo del tè.
- È stata una mia decisione, sapevo che quello era un addio. Se potessi tornare indietro non rimarrei, ma direi ad Afsar e alle mie sorelle quanto le amavo una volta di più. -
Nemeria si ricordava di Afsar. Era una donna sulla quarantina, con le labbra prominenti, le sopracciglia disegnate e i capelli rasati screziati di grigio. Si prendeva cura di Ziba e dei suoi due fratelli nonostante gli acciacchi della vecchiaia e l'anca dolorante.
- Questi ricordi sono tutto ciò che mi rimane della nostra tribù, ma per quanto li tenga stretti pian piano svaniscono. Ho deciso di condividerli con te perché vorrei che anche tu li conservassi. Magari molti di loro non li hai mai incontrati, però è importante che tu sappia com'eravamo. -
- Lo capisco. -
Giunse le mani in grembo e posò lo sguardo su Hediye. Quanto le sarebbe piaciuto andare da lei e stringerla forte, dirle che le voleva bene, che era stata la madre migliore del mondo. Invece l'unica cosa che poteva fare era osservare com'era in un ricordo. Si strinse la stoffa all'altezza del cuore. Era così vicina, eppure già troppo lontana nel tempo.
- Hediye era una brava persona. Tutte le Anziane concordarono nell'affidare a lei la figlia dell'Alta Sacerdotessa. -
Nemeria rimase interdetta. Aprì le mani e contò a bassa voce sulle dita. Per ogni anno che sottraeva, l'intuizione che aveva avuto si delineava con sempre maggiore chiarezza nella sua mente. Come le tessere di un mosaico, i dettagli andarono al loro posto, delineando il quadro generale. Impallidì.
- Qualcosa non va? - domandò Pavona.
- Ti ricordi il nome della bambina? -
- Etheram. - girò appena la testa e la fissò in tralice, - Significa qualcosa per te? -
Le labbra a cuore, il naso all'insù, le ciglia lunghe e folte e le orecchie leggermente a punta. Visti sotto un'altra luce, quegli elementi acquisivano un altro significato. Allungò l'indice e sfiorò il bozzo della pietra di luna nascosta sotto i vestiti.
- Mi chiedo solo perché non me ne sia mai accorta. -
- Quando una persona è una costante nella nostra vita, la vediamo meno chiaramente di quanto pensiamo. -
- Sì, ma... -
Si interruppe prima di proseguire la frase. Aveva davvero importanza, a quel punto, sapere chi era figlio di chi? Etheram non ne aveva idea e nemmeno Nemeria sarebbe mai dovuta venirne a conoscenza.
- Nemeria? -
Scosse la testa e trasse un lungo respiro: - L'unica cosa che mi dispiace è non averlo potuto scoprire con lei. -
- Ti riferisci alla persona che ti ha regalato la pietra di luna? -
Nemeria tirò fuori il ciondolo e se lo rigirò tra le mani. I riflessi violacei si coloravano ancora di più ogni volta che captavano la luce.
Pavona chiuse la pietra tra le ultime due falangi e abbozzò un mezzo sorriso.
- Non poteva sceglierne una migliore per te. La pietra sacra della Madre è al contempo simbolo del coraggio, della speranza, della purezza e della fede. -
Nemeria deglutì e percepì gli occhi riempirsi di lacrime. Pavona la prese sottobraccio e l'aiuto a mettersi in piedi.
Fuori il vento aveva ammassato le nuvole in uno strato compatto che la luce faceva fatica a oltrepassare. Il freddo si insinuava sotto i vestiti e le intirizziva le dita delle mani e dei piedi. Per quanto sapesse che non poteva ammalarsi, Nemeria affondò il viso nel colletto di pelliccia.
Rimasero a contemplare il paesaggio per un po'. Per la gente che si spostava in quel nulla colmo di vita, la libertà correva nel vento e passava tra i fili d'erba, piegandoli con la gentilezza di un soffio primaverile. Era veloce, alta, leggiadra; cavallo, aquila e servalo assieme. E le Montagne Celesti parevano l'unica barriera esistente, una frastagliata corona di roccia e ghiaccio opaco che si perdeva nel bianco abbacinante.
Pavona sfiorò ancora una volta la pietra di luna. Le sue dita rimasero sospese un istante prima di discostarsene.
- Un giorno le vedrai anche tu. -
Le strinse forte le mano. Cielo e terra divennero un tutt'uno e il bianco sommerse ogni cosa.
Nota autrice
Mi rendo conto che questo capitolo è lungherrimo, ma non mi andava di spezzarlo in due parti perchè c'è una rivelazione troppo importante. Quindi niente, ve lo beccate così xD Spero non mi odierete.
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