#7
Alissa
Nessun altro era presente. Nessuno poteva guardarmi, tranne l'uomo sopra di me. Troppo pesante perché potessi combatterlo, mi schiacciava: cosce strette ai fianchi, mentre facevo per sollevare le mie, ma l'unico risultato era l'attrito – jeans contro jeans. Lo sentivo, il suo punto più debole, e non avrei esitato a schiacciarlo, se solo avessi potuto.
Avrei voluto farlo, Lena. Avrei voluto colpirlo talmente forte da farlo bagnare di sangue e piscio, fluiti via dal posticino speciale tra le sue gambe. Invece, sono stata debole. Così sciocca da farmi cogliere alla sprovvista, gettare a terra come altri – prima di lui – hanno fatto.
Un colpo secco sulla testa, improvvisamente sanguinava, e tutte le fantasie che, sotto di lui, io non ero riuscita a realizzare, tu le hai rese realtà. I miei polsi ancora stretti in quei pugni, mentre lui cadeva: la fronte schiacciata a terra, la faccia accanto alla mia, eppure non mi guardava. Non più.
È così che gli uomini scopano: te li ritrovi tra le gambe, fanno pressione, spingono sempre più forte e poi finiscono, scivolando a lato come corpi morti. Soffiano l'aria contro il tuo naso, quando già ti hanno sporcata sotto – dentro – e anche sopra vogliono macchiarti. Non gli basta mai.
Lorenzo respirava ancora, Lena. Se l'avessi colpito più forte, non avrei resistito fino a casa. Ti avrei voluta lì, subito, sul pavimento. Ti avrei chiesto di dominarmi e prendermi, come aveva fatto Edo, ma quelle donne non l'avevano desiderato così. Le tue dita tra le cosce avrebbero cancellato quell'impronta. La sensazione di un cazzo che preme attraverso i vestiti.
Solo da te mi faccio scopare.
L'ho attesa, quella sensazione. C'erano altre faccende da sbrigare: ragazzi da abbandonare come cani per strada, martelli e lampade di sale da distruggere.
Siamo tornate a casa con la notte ormai alle spalle, attorno, ovunque; e lo sfarfallio delle luci nei lampioni era sottofondo alle macchine di passaggio che s'incrociavano per la prima e ultima volta. Il silenzio, quando non c'era parola pronunciata, era scandito dai nostri respiri altrettanto veloci. Siamo entrate come due ladre nella nostra stessa casa, in fretta: per non ascoltare rumore che non ci appartenesse; io per guardare la tua schiena inarcata contro la porta d'ingresso e avere quel corpo dove l'avevo desiderato sin dal principio – sul mio. Le mani che ti modellavano e le tue già più in basso. Non resistevi di più. Cancellavi il ricordo di chi aveva provato a rimpiazzarti.
Le tue labbra centellinavano il tempo: assaporavi ogni istante per paura che svanissi. Mi cercavi sulla punta della lingua, scivolavamo l'una nell'altra, sciogliendo le nostre carni. Esalando gli stessi respiri. Gli occhi socchiusi, mai serrati, per non perderci di vista: ci scorgevamo attraverso le ciglia.
Bella. Capelli neri nei miei pugni. Guance rosse che dovevi baciare, ma quando lasciavi le labbra, il vuoto faceva male come il contraccolpo di una pistola, ed eri stata tu a sparare per prima.
Colpa tua, Lena. Tremavo: gelatina in ogni parte, improvvisamente liquida. Ossa sottili. Fragili da spezzare. Ginocchia al collasso, mentre mi sorreggevi per intera e le tue braccia erano sostegno e trappola. Volevi salvarmi e farmi fuori, perché non avessi via d'uscita, fossi completamente tua, un corpo privo di volontà, incapace di trarsi indietro. E io volevo qualunque cosa. Volevo ciò che tu volevi, finché le tue mani avessero continuato a percorrermi e afferrare, non m'importava quale sarebbe stata la fine.
Le mie labbra fredde, annaspavano in tua assenza; e per quanto fossi vicina, con la bocca all'altezza del cuore, sentivo la tua mancanza. Ho abbassato lo sguardo, ne hai accusato il peso, mentre prendevi da me tutto quanto potessi prendere.
***
I tuoi polpastrelli mi scivolano addosso, tracciano ghirigori sulle cosce, di nascosto, sotto il banco; e periodicamente il palmo si ferma a riposare. Una pausa che posso concederti, se mi prometti – poi – di ricominciare. Eppure, stavolta, ti fermi all'improvviso. Non una parola. Non una promessa, solo la mia pelle tesa tra due dita, e il tessuto dei pantaloni non smorza il dolore: quasi gemo, quando mi pizzichi la coscia. Un gesto apprezzato, in altre circostanze, lontane da qui. Non posso scoparti in classe, sulla cattedra, davanti a tutta questa gente, come nei miei sogni.
Raddrizzo la schiena sulla sedia. La penna sbatte sul banco e rotola giù. Gli occhi a te, i tuoi nei miei, e tendi il labbro – un sorriso malizioso che non riesci a trattenere. Sussurri:
«Siamo in classe. Non so a cosa tu stia pensando, ma dovresti prendere appunti.»
Sollevo i gomiti sul banco, puntata a te, ginocchia, piedi, perfino la punta del naso. Ogni mia parte è una bussola nella tua direzione, e i nostri visi sono un po' più vicini. Non puoi protestare. Non ci sfioriamo abbastanza da destare sospetti.
«Sai bene a cosa sto pensando.»
Inarchi un sopracciglio. La lingua stretta fra i denti, perché lo sai. Sai che mi riferisco alla notte scorsa, e sai anche che non possiamo parlarne qui.
Un'occhiata veloce, di sfuggita, e non hai bisogno di più. Ricalchi a mente i tratti del mio volto, ricordi i segni rossi e viola sul corpo, che tu hai lasciato, e distogli lo sguardo prima di arrossire.
Non vorresti, ma devi.
Indirizzi lo sguardo al Professore, qualche fila di studenti più avanti. Lui in piedi e loro ad ascoltare. Ora anche tu. La penna che non hai mai smesso di agguantare, scrive, e il dorso del palmo si tinge d'inchiostro. Mi fai cenno di prestare attenzione al corso, e va bene, Lena. Vinci tu.
La penna è a terra. Non provo nemmeno a cercarla. Mi hai chiesto di concentrarmi. Farò del mio meglio. Comincerò subito. Una mano sotto il banco per raccogliere la matita dal borsello.
Uno strillo mi riempie le labbra, richiama l'attenzione della classe: tutti si girano, il Professore si ferma e cerca chi – fra tutte quelle teste voltate – ha osato disturbare la sua lezione. Ti giri in uno scatto, Lena, e prima ancora che io sollevi l'avambraccio.
Sgrani gli occhi.
Sangue.
Gocce rosse diventano chiazze fra gli intrecci del maglione che indosso. Sopra i jeans, tracciano la curva delle cosce. La mia carne è aperta: un taglio profondo, sopra il polso, e il mondo – per me – è sempre stato sbiadito. Noioso. Le voci degli altri sempre ovattate, per quanto le bocche fossero vicine, da sfiorarmi i lobi coi respiri. Soltanto le urla facevano abbastanza rumore da riuscire a raggiungermi, assieme alla tua voce.
Allora perché, Lena?
Perché sei muta, quando sei sempre stata l'unica che riuscivo a sentire?
Le sopracciglia stringono il cipiglio fra i tuoi occhi. Iridi che vibrano. Venuzze rosse tracciate su bianco, come se un ago ti avesse inciso i bulbi oculari.
"Non piangere, Lena."
Sei una chiazza rosa tra mille scintille, quando le palpebre tirano giù per rendermi cieca, ma io voglio ancora guardarti. E sono più forte.
Volti girati verso di noi. Manichini che vivono bene nel loro mondo di plastica: abituati a colori slavati, felici, eppure attratti dalla sfumatura del sangue altrui.
«Cosa state guardando?» sbotto. Gli angoli delle labbra tirati all'insù. «Non è successo niente.»
Afferri le mie spalle.
«Alziamoci, Alissa.»
E non avrei la forza di farlo, di reggermi in piedi, se non ci fossero le tue braccia a farmi da bastone. Scacci le stelline dorate, soffi via la nebbia dinanzi ai miei occhi. Mi lascio andare solo per affondare di più nella tua presa.
Gli studenti sono spettatori dello show: sguardi che seguono i nostri passi tra i banchi e sull'uscio dell'aula. Lasciamo una scia di macchioline rosse sul pavimento, fino al bagno. Lì diventiamo un ritratto incorniciato dallo specchio, sullo sfondo bianco della parete, ma questa non è una fotografia.
La tua espressione non è felice.
Apri il rubinetto e trascini il mio polso sotto il getto freddo: lavi via il sangue, pulisci la ferita, mi dai sollievo. L'acqua batte su lembi di pelle che dovrebbero essere ancora attaccati. Parti che scottano, mentre la carne viva pulsa come se avessi un piccolo cuore incastonato nell'avambraccio.
«Dobbiamo andare in ospedale. Adesso», fai. «Tieni il braccio sotto l'acqua. Chiamo l'ambulanza.»
Recuperi il cellulare dalla tasca dei jeans, ma tiro via il polso ferito dal lavandino per afferrarti.
«Non voglio andare in ospedale. Sto bene. Non è una tragedia. Mi basta metterci sopra qualcosa, tipo... un pezzo della tua camicia?»
«Sembra un taglio profondo, Alissa.»
Un mugolio trapela dalle mie labbra, quando ti lascio andare. L'acqua ancora scorre nel lavabo: il getto punta dritto allo scarico; non trascina con sé la corona di goccioline arancioni ferme sulla ceramica.
«Non esagerare. Ti ho detto che sto bene.»
«Dimmi cos'è successo.»
«Non lo so, Lena. Volevo prendere una matita dal borsello. Ho tirato su il braccio e sanguinavo. C'era qualcosa sotto il banco», sbuffo. «Se proprio vuoi renderti utile, togliti la camicia.»
Ho sopportato dolori peggiori, e ho stretto i denti così forte da frantumarmeli quasi in bocca. Se fosse successo davvero, ne avrei perfino ingoiato i pezzi. Un cazzo di taglietto non mi ucciderà.
Non c'è nessuno nei paraggi. Aule a porte chiuse, nei corridoi, mentre le lezioni sono in corso.
Siamo sole.
«Siediti, Alissa.»
Una mano si posa sulla mia spalla, il corpo la segue – non può opporsi –, fino al pavimento. La mia schiena contro la parete, mentre raddrizzi le ginocchia alzi. Il mento sollevato punta a te come una freccia. Cerco un'indicazione: la tua prossima mossa, Lena. Gli occhi quasi ribaltati all'indietro per raggiungerti, solo con lo sguardo: così distante. Sei sempre sul piedistallo, e io giù ai tuoi piedi.
Il sangue continua a scorrere dalla crepa sulla mia pelle: cinque centimetri in verticale lungo la vena bluastra dell'avambraccio, poi gira attorno al polso. Sono un vaso rotto, ma non c'è oro nelle mie ferite. Solo carne su carne, nulla di prezioso o speciale: sanguino come tutti gli altri, come gli esseri umani che ho sempre odiato, perché dentro sono diversa, eppure il mio corpo è egualmente fragile.
Afferri i lembi del maglione che indossi tra le dita, lo fai cadere sulle mie gambe, e scopri la camicetta di cui s'intravedeva solo il colletto. Le dita sul tuo petto cacciano i bottoni dalle asole.
«Chiudi la porta, Lena.»
«Hai detto che vuoi un pezzo di stoffa. Io ti sto dando un pezzo di stoffa», sottolinei, poi apri le labbra in un ghigno nervoso. «Ah! Non vuoi che ci vedano. Potrebbero capire. Tranquilla, Alissa: le amiche si spogliano per aiutare le amiche, anche se non vogliono ammettere di essere in difficoltà.»
«Non è questo–»
«Ah, giusto, mi correggo: hai detto a tutti che siamo sorelle. Come ho potuto dimenticarlo!»
«So che non ti piace che lo sappiano tutti, ma è la verità.»
«C'è differenza tra sorelle e sorellastre», sfili la camicia dalle spalle. «Immagina se vedessero ciò che facciamo...»
«Ti prego, Lena. Chiudi la porta.»
Il sangue comincia a fermarsi, bloccato da quello che si è già coagulato a contatto con l'aria, ma potrei strappare via le croste. Potrei costringerti a sentirti in colpa.
«Supplicami.»
«Per favore, tesoro.»
Porto il palmo pulito al viso.
«Perché?»
«Mi sta bene morire, ma nessuno deve vederti così...» la mia voce muore soffocata dai battiti che rispondono alla tua. «Questa vista mi appartiene.»
Ti guardo nello spazio tra due dita e lo vedo, quel sorriso. Ciò che volevi: la risposta giusta.
Il maglione che raccogli mi lascia un'impronta calda addosso. Lo indossi, nascondendo il reggiseno di pizzo nero, poi ti chini per avvolgere le maniche della camicia attorno al mio polso: un nodo che non posso sciogliere da sola. Avrei bisogno di te.
Chiudi la porta del bagno. Torni. Quando ti accovacci di fronte, tiro su le gambe per farti spazio. Ti avvicini ancora, annulli perfino i centimetri, prendi le mie labbra. Socchiudi le palpebre; io le sollevo per guardarti gridare vittoria, ma non ci sono parole né grida. Solo pelle calda.
***
La lama del taglierino è ancora ferma a mezz'aria, bloccata sotto il banco da pezzi di nastro adesivo fissati con cura, perché potesse ferirmi.
Chissà chi ci ha messo tanto impegno.
Li taglio via.
Le ultime due ore di lezione trascorrono tra le domande occasionali di chi mi ha vista uscire dall'aula, poi tornare con una sorta di benda al braccio, e pretendeva di sapere cosa fosse successo. La chiamava "preoccupazione" per giustificarlo, anziché "curiosità".
La sofferenza altrui intrattiene, la sfortuna fa gioire, il dramma tira. La gente tende le braccia a te più quando fallisci, che quando hai successo. Vogliono fermarti al tuo posto, spingerti ancora più giù, mentre soffri e sei già debole, come in una sabbia mobile che ti inghiotte, senza via d'uscita. E tu stai lì, ferma, assuefatta all'amore che ricevi solo perché sanguini, e allora vuoi continuare a farlo. E se non ti feriscono abbastanza, lo fai con le tue stesse mani.
Tagliati. Bruciati. Perdi centimetri di te stessa ogni volta. Parti di te che guariscono, solo per scucirle ancora. Piacciono anche i segni agli esseri umani: ti puntano gli occhi addosso. Li notano. Continuano a fissarli.
Ma c'è un altro tipo di esseri umani: quelli che non si lasciano disturbare dalle vite altrui; quelli indifferenti. Non sono scioccati da due gocce di sangue o qualche lacrima. Nel bene o nel male, non hanno abbastanza a cuore il prossimo da interessarsene.
Decisamente miei preferiti.
L'aula si svuota velocemente. Gli studenti passano attraverso le porte a mo' di escrementi lungo uno scarico, trascinando con sé l'aria sporca che mescola i loro respiri: fumo, la puzza di latte che risale dalla gola di chi è a digiuno; mentre quelli a stomaco pieno hanno ancora i resti di uno snack incastrati fra i denti giallognoli.
Scansiamo gli esseri umani, saltelliamo per allontanarci da loro, come fa la scarpa con la cacca di un cane sul marciapiede, lì, proprio nel mezzo. Devi guardare in basso per non pestarla. Ti rovinerebbe la giornata.
«Stai prendendo la situazione troppo alla leggera, Alissa», pronunci una volta fuori. «Questo è un attacco bello e buono.»
«Cosa dovremmo fare?»
«Capire chi voleva farti male, innanzitutto. Non possiamo attaccare alla cieca.»
«Ora abbiamo troppi occhi puntati addosso. Non possiamo complicare le cose. Dobbiamo aspettare e vedere che succede.»
***
Dovevamo correre in ospedale – dice il dottore –, perché non avevo mai smesso di sanguinare sotto quegli strati di stoffa. Non ero in pericolo, Lena, eppure tu mi guardavi come se lo fossi: la stizza tirava a lato le tue labbra. Sotto lo zigomo un'ombra scura come una voragine. Succhiavi la guancia nella bocca per strappare pezzettini di te stessa coi denti; brandelli di carne che danzavano sulla tua lingua, e ci giocavi. Li spostavi da una parte all'altra, prima di ingoiare, poi ricominciavi.
Se ti avessi baciata allora, avrei sentito il sapore del sangue. In minima parte, ti avrei mangiata.
Qualche punto di sutura. Una vera fasciatura attorno all'avambraccio. La promessa di tornare per un controllo.
Avrei potuto dimenticare l'incidente del taglierino, se fosse stato un caso isolato. Un singolo evento. Un picco d'emozione casuale su una vita piatta e noiosa, al punto da esserne quasi grata; ma quando vuoi minacciare qualcuno è stupido fermarsi, se hai appena cominciato.
Il giorno successivo, alla fine delle lezioni, ho indossato il cappotto. La fasciatura ancora stretta all'avambraccio, mentre infilavo le mani in tasca.
«Alissa?»
Con lo zaino in spalla, eri pronta ad andare. Gli studenti avevano lasciato posti vuoti dietro sé, ma l'aula non lo era. Un ultimo ragazzo era rimasto indietro: un escremento che lo scarico non aveva tirato via; lasciato lì a galleggiare nella nostra orbita.
La lingua mi si rivoltava sul palato convulsa, come un pezzo di carne mozzata: memoria muscolare di tutto ciò che avrei voluto dirti – la verità –, ma non potevo. Saresti impazzata.
«C'è qualcosa che non va?»
Silenzio.
Il ragazzo ha raccolto lo zaino.
«Alissa?»
Il ragazzo ha attraversato la porta dell'aula. Non sapeva che gli stavo salvando la vita.
«La stessa persona che ieri mi ha fatto del male, ci sta riprovando.»
I miei palmi, cacciati dalle tasche del cappotto, erano coppe di carne per mostrarti decine di puntine: piccoli aghi che mi punzecchiavano le dita e sarebbero andati a fondo, se solo avessi stretto di più. Invece, li avevo lasciati andare: s'infransero sul legno del banco, sotto di noi. Rotolarono giù dal bordo, sul pavimento.
Non importava che il resto del mondo si ferisse. Ma, ora, ero io la bambola – graffiata, con le mie crepe, i puntini rossi degli spilli ancora su pelle – e tu mi hai spogliata, Lena: le mie braccia sollevate a mezz'aria, dove le avevi lasciate; il corpo immobile, mentre sfilavi via il cappotto, come da un manichino, solo per darmi il tuo.
«Perché non me l'hai detto?» fai, e i miei capelli stanno così bene fra le tue dita; ti scivolano addosso come miele di cui vorresti vestirti. Bagnarti.
«Dovevano uscire tutti dall'aula, altrimenti avresti ucciso... chiunque.»
I tuoi occhi grandi, vicini alla mia faccia. Ciglia corvine che spostavano l'aria.
«Qualcuno deve morire, Alissa.»
«Aspettiamo ancora un po', tesoro. Adesso sono curiosa.»
***
Ma un attacco non si ferma se lo ignori, e il giorno dopo ancora – durante la lezione – ho raccolto la bottiglia d'acqua dalla borsa e l'ho tesa a mezz'aria. Seduta al mio banco, avevo gli occhi rivolti al Professore. Giravo il tappo fra le dita, in automatico, con le labbra e la lingua già pronte a inghiottire, eppure tu me l'hai strappata via. Io, lasciata a boccheggiare sul nulla; tu che fissavi in controluce le particelle biancastre risalire dal fondo della bottiglia di plastica, sulla superficie dell'acqua.
Le pasticche non si erano sciolte del tutto.
Più tardi, eravamo in cima a una rampa di scale, Lena. Due mani mi hanno spinta, schiaffate contro la mia schiena così forte da fare rumore, e l'eco mi riverberava fra le ossa. Le scuoteva. Come se volessero toccarmi il cuore, quelle dita; affondarci l'indice, il medio, entrambi allo stesso tempo, prima di spingermi via.
Una voragine. Un vuoto improvviso, sotto i miei piedi, mentre tendevo una mano tesa al corrimano che non riuscivo ad afferrare. Le suole delle scarpe perdevano presa. Instabile, su quei gradini, e tu eri dinanzi a me.
"No."
"Scappa, Lena."
Parole incastrate nella mia gola, mi ci strozzavo, battevo col pugno sul petto e tossivo per sputarle fuori, ma non uscivano. Solo schizzi di saliva nell'aria; saliva che m'impastava la bocca. Incollava le labbra.
Se ero incapace di proteggerti, di assolvere all'unico scopo che avesse importanza, la mia vita era già finita; perciò ho allungato le braccia per raggiungerti, per sfiorarti con le punte dei polpastrelli e prendere tutto il tuo peso un'ultima volta, gettandoti a lato. Non ti avrei trascinata giù con me.
La morte era sempre stata confortante: un pensiero che si affacciava alla mia mente, di tanto in tanto, mi salutava, andava via, ma l'avrei abbracciata più forte, in quel momento. L'avrei accettata, pur di salvarti.
Era l'eventualità di perderti a farmi paura. L'eventualità di ucciderti.
Vertebre sbattute contro gli spigoli dalla gravità; gradini tesi, punte simili a lance, dritte alla mia schiena, cercavano la pelle, la carne, le ossa, sotto i vestiti, e tutto quanto potessero ferire e spezzare. Non finivano più, ma non facevano male davvero, perché tu eri al sicuro.
Potevo riposare.
***
Due punte d'acciaio affondate nelle mie tempie, da un lato all'altro, che se girassi gli occhi potrei vederle, spaccarmi a metà il cranio. Sangue, materia cerebrale, parti di me che girano. Una strana lobotomia fa danzare il mio cervello: lo srotola, poi attorciglia, e i nodi li sento tutti. Ma non c'è trapano. Non c'è punta. Non c'è arma che mi stia davvero ferendo, solo dolore, nel mio corpo, in testa e ovunque, perché mi hanno già fatto del male, Lena.
Avresti ucciso chiunque avesse provato a toccarmi ancora. Le dita tese come artigli per sottolinearlo: l'avvoltoio intercetta la preda, agguanta ciò che è suo, perciò fai riposare le braccia sul mio corpo. Questo letto a una piazza sola è nostro. Non c'è una sola cosa che mi appartenga davvero e non abbia scritto anche il tuo nome.
«Lena?»
Sussulti sulla poltrona, raddrizzando la schiena, e la pressione sui miei arti schiacciati si allenta. Occhi spalancati in uno schiocco di dita.
«Alissa, come stai?»
«Mi scoppia la testa, ma sto bene. Avvicinati», dico, e tu obbedisci. Fai sfiorare i nostri nasi. «Non dovevi piangere, tesoro. Credevi che ti avrei lasciata per così poco?»
«Hai dormito per due giorni», un mugolio soffocato nell'incavo del mio collo. Tiri su col naso. «Ho avuto paura.»
«Va tutto bene, Lena.»
Sollevi la faccia all'improvviso, lasciando un'impronta umida sulle mie clavicole. Lacrime che tracciano i contorni delle tue guance, mi scivolano addosso, le bacio e sanno di pioggia e mare e sofferenza e paura di perdermi. Fa sempre piacere, la tua disperazione, che rivedo nei bulbi oculari come perle fra due conchiglie di carne; nelle palpebre gonfie, nelle borse sotto agli occhi arrossati, percorse da venuzze simili a graffi. Hai le labbra puntellate da ferite: goccioline di sangue affiorano e svaniscono sotto la tua lingua. Altre sono crosticine che strapperai la prossima volta che ti farò preoccupare.
Una vista che riempie il cuore. È un giorno felice, quando torturi te stessa - anima e corpo - e non lo nascondi, ma lo dai a vedere: l'unico modo di sapere che dici la verità, quando affermi di amarmi.
Oggi mi vuoi ancora.
«No, non va bene», pronunci fra i singhiozzi. «Cosa pensavi di fare spingendomi via? Avrei potuto attutire la caduta.»
«Ti avrei trascinata con me.»
«Dovevi farlo, Alissa», sospiri.«Mi dispiace.»
Raccogli il mio corpo come se stessi annegando: io la ciambella e tu disperatamente in cerca di qualcosa da afferrare. Il tuo tepore mi scalda, lenisce il dolore, carezza tutti quei lividi che ancora devono affiorare, già pulsando di sangue vivo, ma non fanno poi tanto male, perché tu oggi mi vuoi ancora.
Oggi mi ami davvero, forse più del solito, e questa certezza è la medicina.
Faccio arrampicare le braccia e le dita sulla tua schiena, sfiorandoti il collo, poi la nuca e i capelli. Ciocche nere mi scivolano addosso. Una pioggia di carbone.
«Di cosa ti scusi, amore mio?» Traccio la circonferenza del tuo cranio. «Io sto bene, ma se ti fosse successo qualcosa, cos'avrei fatto?»
«Stupida.»
«Hai ragione, sono una stupida. Non volevo che soffrissi a causa mia», rispondo. «Facciamo la nostra mossa.»
Dacché affondavi il viso nel mio sterno, alzi appena lo sguardo: occhi lucidi, come i miei, e la stessa determinazione.
«Ho già chiamato i Cani.»
🥀🥀🥀
Ciao! Questo è il primo capitolo quasi completamente inedito di FAM. Non l'avevate letto nella versione di bozza, perché non è mai stato postato su wattpad. Vi lascio i soliti crediti, per chiunque fosse interessato:
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A presto,
Esse.
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