#5
Alissa
Non ho mai voluto vivere. Da bambina non capivo perché gli adulti continuassero a trascinarsi avanti, giorno dopo giorno, quando sarebbe stato così facile salire una o cinque rampe di scale, scendere al piano più alto. Scavalcare il parapetto. Buttarsi giù come da un trampolino: braccia tese avanti, mani giunte, e la spinta delle gambe ti fa precipitare.
Non c'è piscina. Solo asfalto, e la gravità fa il resto.
Basta cadere di testa per morire.
In estate, un'anguria che si apre sull'asfalto è di buon auspicio: porta fortuna raccoglierne i pezzi, ficcarseli in bocca e masticare; anche se il succo cola via dalle labbra, nessuno ci fa caso. Eppure, quand'è il sangue di qualcuno a schizzare sui passanti, tutti si agitano; e i pezzetti di un cervello umano sul marciapiede – fuori da un cranio spaccato a metà –, nessuno si ferma a raccoglierli. La gente non vuole pestarli. Se capita, li raschiano via dalla suola delle scarpe.
Louboutin. Jimmy Choo. Balenciaga.
Nessuno lecca e ingoia i pezzi degli altri, Lena; a meno che non siano attaccati a un bel corpo. Ancora pulsanti di vita. Non solo per piacere, ma anche per raggiungere una posizione. C'è sempre qualcosa che deve sporcarsi, se vuoi ricevere in cambio dal mondo: la tua coscienza. Le ginocchia, mentre succhi il cazzo al capo, o infili la lingua nel culo della vecchia troia a cui devi pagare l'affitto. Pure se c'è la muffa che corre sulle pareti, come i ratti sotto i letti, e non sai se sarà l'intossicazione a ucciderti o la febbre da morso. Anche se l'hai chiamato Gennarino per farci amicizia, un ratto resta comunque un ratto, e arriva a rosicchiarti l'alluce nel sonno.
Il mondo è una perenne compravendita: sei costretta a dare, ma ricevere è un lusso. Lo sanno bene quelli come tuo padre, abituati a incassare, mentre quelle come mia madre si accontentavano e basta. Vendevano tutto di sé stesse. Ogni cosa potessero dare, erano pronte a farlo. Per quanto il prezzo potesse essere basso, non si rifiutava niente.
Pochi euro per uno schiaffo. Tre banconote per scoparsi la figlia.
Da bambina già sapevo che il genere umano era disperato. L'avevo accettato, e avevo accettato il fatto che adulta non lo sarei diventata. Gli uomini e le donne che conoscevo si trascinavano su gambe come zampe. Parassiti attaccati a quell'unica speranza: la vita poteva migliorare.
Io, invece, ero arresa da tempo. Incapace di strisciare.
Poi ti ho incontrata, Lena.
Ho trovato così presto ciò che le persone impiegano un'esistenza intera a cercare: qualcuno con cui condividerla, chi possa renderle complete, strapparle alla miseria. C'è chi è fortunato abbastanza da incontrare la propria metà, chi non riesce a godersela, chi per poco tempo, e chi non saprà mai cosa significhi avere chi ti sorregge, quando sei troppo stanca per farlo da sola.
Ti ho trovata, Lena, e allora ho cominciato a vivere; apprezzando il dolore, quando sono le tue dita a infliggerlo. Vorrei trattenerle sul mio corpo in eterno, con le unghie affondate nella carne per lasciarmi i segni, la lingua che ne traccia i contorni. Eppure, tra tutti i nostri modi di amarci non hai mai incluso il dolore.
Sei gentile sulla mia pelle. Ti appartengo, tu mi appartieni, ma sono io quella che serra più forte i denti sulle tue spalle; ravviva i marchi ogni volta, perché non scompaiano, e ne fa sbocciare di nuovi.
Ricorda che mi appartieni, mentre sei delicata come se temessi di vedermi appassire tra le tue braccia, se solo stringessi di più. Ricorda che io, invece, non esiterei a spezzarti.
Edo lo sapeva, e anche se quel ratto in casa, alla fine, non mi ha uccisa, ho dovuto comunque ripulirne le tracce.
Un disinfestatore lo cercava. Voleva afferrarlo.
Invece, a nessuno importa davvero di Edo. Non c'è nessuno che incalzi per la sua scomparsa, che voglia trovarlo, che aspetti il suo ritorno a braccia aperte per abbracciarlo. No, nessuno è disposto a toccarlo, a sfiorarlo nemmeno.
Nessuno lo ama abbastanza.
La sua famiglia è convinta dell'allontanamento volontario, ma la polizia arriverà all'appartamento di Edo, prima o poi, e io ci ho lasciato qualcosa di mio.
L'aria vecchia di quasi due mesi attraversa le narici, circola nei miei polmoni, poi ritorna alla casa di Edo. Chiudo la porta dietro me, al buio, perché la luce potrebbe trapelare dalla porta come da un'emorragia aperta. Gli esseri umani non amano il pericolo, ma di certo ficcano il naso, e poi urlano, piangono, supplicano, quando se la vanno a cercare. Ma stasera nessuno deve farsi male, perciò non accendo alcun interruttore. Uso la torcia sul cellulare. Salvo chi metterebbe a rischio la propria vita pur di non farsi i cazzi suoi.
L'appartamento è in ordine: non un bicchiere nel lavabo d'acciaio, un residuo di caffè nella macchinetta smontata ad asciugare, un piatto fuori posto. Le ante delle finestre chiuse, con le persiane abbassate, hanno impedito che il vento trascinasse sul pavimento polvere e pioggia.
Ordine. Pulizia. La casa curata di chi sa di ritornarci.
E invece.
Un paio di guanti di pelle nera tirati bene sui miei polsi. La torcia scandisce gli angoli dell'appartamento di Edo, mentre apro le ante dei mobili abbastanza spaziosi da conservare detersivi, alcol, stracci, secchi. Qualcosa, qualunque cosa possa tornarmi utile, ma in cucina non c'è niente.
Il lampadario del bagno sembra piuttosto pesante: cristalli finti pendono da un'unica un'unica lastra d'acciaio. Tiranti tesi, lampadine spente, l'impressione che un istante di più possa strappar via l'intonaco dal soffitto.
I ricchi hanno cattivo gusto, Lena. Tu sei sempre stata l'eccezione: nata nel lusso, hai conosciuto la miseria. È stata mia madre a spingerti tra le sue braccia: hai segni ancora addosso, che i soldi non possono cancellare. Ti starebbero così bene, collane d'oro e argento – diamanti sulle dita e fra i capelli –, ma non vuoi più sguardi addosso di quanti la tua bellezza ne catturi. Gli esseri umani potrebbero scorgere la cicatrice sotto il colletto di una Ralph Lauren.
L'appartamento di Edo ha due bagni: niente vasca; uno specchio in ognuno di essi, sopra il lavabo, e c'è sempre un'anta che cela medicine da scartare. Flaconcini di pillole per ogni evenienza. Un mobile, sotto, mi fa piegare a metà, poi in ginocchio.
Ci sono detersivo e stracci. Proprio ciò che mi serve, e dovrebbe bastare.
Non è trascorso molto tempo dall'ultima volta che sono stata qui. Sarebbe un guaio se la polizia trovasse le mie impronte su un paio di oggetti sconvenienti che nessun altro – tranne Edo – avrebbe dovuto toccare. È stato lui a mostrarmelo, l'ultima volta: il suo nascondiglio.
Passi felpati sul pavimento in resina scura, da una stanza all'altra, fino alla camera di Edo. Un letto a due piazze – addossato alla parete grigia – mi guarda entrare: il piumone è una campitura cerulea su cui sono poggiati cuscini di piuma. La testiera è in finta pietra, e chissà quante ragazze ci avranno lasciato le impronte, stringendola coi palmi sudati, su e giù, sopra di lui, mentre bestemmiavano di piacere o fingevano e basta. Edo sembrava il tipo d'uomo che lascia alle altre il lavoro pesante, finisce per primo, poi se ne va.
Spalanco le ante della cabina armadio, coi faretti che si accendono in automatico: maglioni e camicie piegate, abiti affissi alle grucce, cappotti in fila, cassetti che non aprirò, perché l'ultimo è il più interessante. A Edo non piacevano le precauzioni, perciò non le usava mai; nemmeno in questo caso, a scapito dei segreti che non ha saputo nascondere.
La scatola di latta è allo stesso posto di sempre. Una di quelle che le nonne cacciano dalla credenza per offrirti un biscotto, e quando li finiscono tutti, ci mettono dentro bobine di cotone, lana, ferri da maglia. Al massimo ci trovi qualche centesimo sfuso, non paia di mutandine sporche sigillate in bustine di plastica trasparente. Non trofei delle ragazze in cui Edo ha infilato il cazzo, che lo volessero o meno. E io nemmeno la prima volta mi spettavo dei pasticcini, eppure – sulla scatola di Edo – ci ho lasciato le impronte. Stavolta, invece, sollevo il coperchio con le dita guantate: le bustine sono disposte una dietro l'altra, in fila – Edo ci teneva tanto. Una lettera adesiva è appiccicata su ognuna di esse: l'iniziale di tutte le ragazze che Edo ha preso e scopato.
"Drogato, trascinato via da un locale, caricato sul sedile posteriore dell'auto, fino al suo appartamento."
Nella plastica trasparente i pezzi di stoffa sono tutti stropicciati: bianchi, verdi, rossi, ricamati, bordi in pizzo, perline e merletti. Mutandine da donna come figurine in un raccoglitore pieno zeppo, tanti doppioni e nessuno con cui scambiarle; perciò Edo voleva che guardassi la sua collezione. Ne era così orgoglioso. Fremeva dalla voglia di mostrarla a qualcuno, e a me non faceva paura.
Cos'avrebbe dovuto spaventarmi?
Sono solo mutandine sporche dentro buste da scartare. Sfilate dalle cosce di qualcuna, poi riposte, perché conservassero il suo profumo. Perché non si mescolassero assieme, nella scatola di latta. Edo ci infilava il naso – di tanto in tanto – per ritornare da ognuna di loro. Socchiudeva le palpebre, le rivedeva, mentre erano svenute, coi vestiti ancora addosso, ma gli piaceva strapparli: carta su un pacco regalo che solo lui poteva scartare, e non gli importava di ammaccarlo un po', se poteva vedere ciò che c'era sotto.
Niente cerimonie, solo pelle nuda.
Ricordava il calore che provava dentro quelle donne; come quei corpi stringessero per trattenerlo o non farlo entrare – la differenza non importava. Lui spingeva comunque.
Come diceva Edo?
Ah, sì: "un vero guerriero non teme di sporcare la sua arma di sangue", e l'arma era il suo uccello; e il sangue era quello mestruale, ancora rappreso su qualche mutandina, assieme alle chiazze bianche di sperma.
Tendo le bustine trasparenti a mezz'aria, una per volta, passandoci bene lo straccio. Sono aumentate in numero, rispetto alla scorsa volta, e ce n'è una familiare: il motivo di margherite è ricamato sul piccolo pezzo di stoffa. Queste non sono mutandine dozzinali, da grandi magazzini, ma fatte a mano. Uniche, perciò le riconosco.
Faccio schioccare la lingua sul palato.
Il paio di mutande che non trovavo più. Quando ho invitato Edo a casa nostra, deve averle rubate dal cesto della biancheria sporca. Nel linguaggio di Edo, deve significare "ti voglio bene". In un certo senso, mi lusinga.
Resto così per un po': l'angolo della bustina teso fra due dita; quell'immagine nella testa, come se fosse dinanzi ai miei occhi: Edo che afferra le mutandine nel pugno, mentre l'altro gli stringe il cazzo e gioca a fare su e giù.
Magari è stato proprio così. Magari pensava a me, mentre veniva.
Un sorriso sboccia sulle mie labbra.
"Edo ha proprio la faccia da segaiolo."
Metto da parte la busta, cosciente che un paio di mutande carine non verranno indossate mai più. Dovrò sbarazzarmene, e tu non lo devi sapere, Lena.
Infilo la bustina nella tasca posteriore dei pantaloni.
Svuoto la scatola di latta, riversando le bustine sul pavimento della cabina armadio, prima di passarci sopra lo straccio – dentro, fuori, su ogni angolo conservasse anche solo una delle mie impronte digitali. Sistemo le buste in ordine, come Edo le aveva lasciate, e ci metto sopra il coperchio. La scatola torna nel cassetto.
Le porte della cabina armadio scivolano silenziosamente nel buio della stanza.
Il portatile è sul mobiletto accanto al letto. Edo era stupido, ma non al punto da metterlo in valigia e trascinarlo in vacanza con noi. Credeva che a casa i suoi segreti fossero al sicuro, e lì li aveva lasciati.
La mano che stringe lo straccio si muove da sola, automatica, ed entrambi gli occhi guardano per assicurarsi che abbia fatto un buon lavoro. Non sono abituata a pulire, ma memorizzavo le etichette dei prodotti che usavi, reperibili ovunque, quando creavamo insieme delle conseguenze: tu ammazzavi; io ne ero la causa.
La rabbia devi pur sfogarla su qualcuno.
Le persone normali prendono una medicina, quando hanno il mal di testa. Ansiolitici buttati giù assieme all'alcol, aspettando che facciano effetto, se gli si blocca il respiro nel petto – tra un attacco di panico e l'altro.
Sonniferi per dormire. Antidepressivi per non ammazzarsi.
Ma per noi è un po' diverso, Lena. Fare del male è l'unica medicina che abbiamo, e va bene per tutto. Non c'è prescrizione, quando uccidi, e il sangue degli altri che bagna le nostre mani, ci scivola addosso. Lo lecchiamo via coi baci, l'una dalla pelle dell'altra.
Ti fa ancora più buona.
Ho finito. La casa è pulita. Metto a posto straccio e detergente: pieni che incastro nei rispettivi vuoti, come se non avessi mai separato i pezzi del puzzle. Poso il cellulare a schermo in giù, sul mobiletto accanto al divano: la luce della torcia è un fascio teso a un Dio che chissà quante donne hanno pregato, in questa casa, mentre Edo le penetrava, ma nessuno rispondeva né le salvava. Indosso il cappotto, poi – coi guanti ancora sulle dita – raccolgo il cellulare. Spengo la torcia.
Un'ultima occhiata alle spalle: non c'è luce che l'oscurità non abbia già avvolto. Non c'è respiro, solo silenzio, e non c'è vita né memoria di ciò che è stato.
"Addio."
Afferro la maniglia, apro la porta piano, per non fare rumore, e l'aria è ancora immobile. Ferma.
È bello quando ogni cosa va secondo i piani. Non c'è sbavatura nelle tempistiche. Nessun imprevisto. Eppure la porta si apre troppo velocemente, fuori dal mio controllo. La maniglia sfugge via, prima che me ne accorga.
Mani. Quelle degli uomini sono tutte uguali – la pelle ruvida, le dita spesse, che serrano sul mio cappotto e non lo lasciano andare. I calli sui polpastrelli mi lasciano graffi bianchi addosso. Le afferro, quelle zampe, per piegarle all'indietro, farle spezzare, ma sono troppo forti: anche quando cominciano a sanguinare e a me resta la carne morta sotto le unghie, lui non molla la presa.
Periodicamente la natura mi rammenta la mia debolezza: una vagina che sanguina ogni mese; un uomo che mi butta giù. Io che finisco col culo a terra, schiaffeggiata dal marmo duro come da un paddle, ma non è piacevole se dall'altra parte c'è un gran figlio di puttana. Fa pressione sulle mie spalle, mentre col ginocchio cerco il suo cazzo moscio, ma sale a cavalcioni prima che possa colpirlo. Tutte le sue parti addosso. Tutte le sue parti sulle mie.
I nostri nasi si sfiorano.
«Non vorrai mica baciarmi, stronzo?»
Apro la bocca, così vicina al suo collo, e scopro i denti. Mi spinge via prima che possa affondargli dentro. La schiena contro il pavimento. Le sue dita nelle mie spalle.
«Dov'è Edoardo Volpe?»
«Non lo so.»
Sguscio tra le sue cosce come un'anguilla, ma non lo smuovo. Il volto è celato dall'oscurità. Non riesco a riconoscerlo.
Gli ficco le unghie nel polso, lui ritrae la mano, ma per quanto sanguini – da tutti quei graffi –, torna comunque da me. Si aggrappa in continuazione; stavolta al collo.
«Eppure tu sei qui, troia bugiarda.»
Annaspo per un po' d'aria, contro le sue dita, tra le parole e tutti gli insulti che non riesco più a pronunciare; poi un colpo secco. Sussulto, nella sua stretta che si allenta, e l'uomo sbatte la fronte contro il pavimento, proprio accanto alla mia faccia.
È allora che ti vedo, Lena.
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A presto,
Esse.
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