#3
Alissa
Qualcuno è andato alla polizia, e quel qualcuno aveva informazioni rilevanti per il caso di Edo.
Cazzo. Cazzo. Cazzo.
Niente panico. Siamo partiti in quattro: io, tu, Edo e Nora. Non c'era nessun altro, Lena. Anche quando Edo ha invitato degli estranei alla nostra festa, avevo il controllo. Gli infilavo bicchieri nei palmi, spinelli fra le dita, ecstasy in bocca, LSD sulla lingua. A quei cinque sconosciuti e a tutti gli altri. Non te ne accorgevi nemmeno; forse perché non erano gli unici ad accettare. Non frequentavano il nostro corso di laurea. Non erano nemmeno di Roma. Ma se Nora ha detto la verità, la persona che è andata alla polizia potrebbe essere chiunque. Potrebbe averci seguite, viste o peggio. Potrebbe sapere cos'è successo quella sera, alla festa, quando Edo è scomparso.
Edo è scomparso.
Lo ricordo come se fosse ieri. Ricordo l'ultima volta che con l'indice ho tracciato le forme del suo petto. Aveva aperto la sua porta di casa, perché voleva farmi entrare, forse voleva entrarmi dentro, e – nella sua testa – una delle due portava all'altra. Lo sapevi, Lena, perciò ti ho mentito.
Quando andai a casa di Edo, ero preparata: una bottiglia d'acqua nello zaino, cibo per riempirmi la bocca di no, declinare ogni sua offerta e mettermi al sicuro. Un mostro che ne visita un altro: non ne avevo la certezza, ma era chiaro che lo fossimo entrambi. Ci riconosciamo a vicenda, noi della stessa specie, e non avevo bisogno d'altro che di una conferma.
C'era una minima possibilità che Edo si guardasse bene dal conservare i suoi segreti sul disco rigido del portatile. Era una fortuna che, invece, sembrasse stupido e lo fosse pure. Attesi il momento giusto, che lui si allontanasse, e sfilai le dita da una ricerca stampata da sci–hub, per recuperare il portatile che Edo aveva lasciato dall'altro lato del tavolo. Acceso, come se lui non aspettasse altro, che tutti quei segreti divenissero anche miei. La pagina di Safari aperta su Nature era solo una copertura.
Edo non era solo un molestatore da autobus; di quelli che ti strizzano il culo o ci premono contro il bacino, finché non percepisci pure le palle. No, Edo era un artista: niente audio, nei suoi video; facce tagliate dall'inquadratura, ma all'occorrenza le tirava su: capelli di colore diverso ogni volta, sempre fra i suoi pugni. Ragazze come trofei tutti ammaccati per il piacere della telecamera. Dita vestite di guanti di pelle, che strappavano abiti leggeri come fazzolettini di carta, facevano saltare bottoni, tiravano lembi di camicette che non resistevano a lungo. Polsi sottili legati, gambe aperte, gonne sollevate sopra le cosce e schiaffi sulla pelle che diventava rossa. Le unghie affondavano lì, nella carne; la stringevano forte. Spasmi diffusi o localizzati, lungo il corpo nudo di una donna – su, giù, dappertutto –, tranne nelle parti che a Edo servivano davvero: quelle che non erano umide a sufficienza da accoglierlo, eppure non gli importava.
Faceva più male a loro che a lui.
A Edo non piacevano le bambole: si assicurava che le dosi fossero giuste. Drogava per stordire, non addormentarle. Non c'era gusto se non si ribellavano un po'.
Le immagini, nei video, scorrevano veloci: flash intermittenti nelle mie iridi; percussioni nel cervello; tasti di un pianoforte che suonavano tutti insieme, come le urla di quelle donne, soffocate appena dal palmo di Edo sulla bocca. Mutandine sporche, chiazze sui vestiti, i segni permanenti sulla carne di quelle ragazze. Erano fotogrammi confortanti: sapevano di quel tepore che avevo dimenticato; delle braccia della mamma che mi stringevano per intera, mentre i lividi bruciavano come fuochi d'artificio sulla pelle, sotto i vestiti, prima che mi lasciasse all'uomo che mi aspettava. E lei andava dal suo.
C'è qualcosa di poetico in un bel faccino contorto dal dolore. Edo lo sapeva; e anche quando non le vedevo in quelle inquadrature, potevo immaginarle: la smorfia che sgualciva il viso di una donna; le labbra che boccheggiavano, ma un pesce fuor d'acqua non può tornarci da solo e le pinne che battono sono carezza sulla pelle di chi vuole fargli del male. Inutile lottare, con ossa così fragili; facili da spezzare nella presa che ti stringe. Meglio farsi mangiare e basta. Opporre resistenza ti fa solo soffrire di più, quando non puoi salvarti.
"Pianti e lamenti per così poco. Doveva solo farsi scopare."
Sullo schermo, le dita di Edo finivano sempre sulla gola sottile di una ragazza: il pesciolino che avrebbe trattenuto ancora un po', come se lui fosse stato un bambino; di quelli che affondano gli avambracci nell'acquario – dal dentista – per afferrarne uno: infilano le unghie nelle branchie, un mignolo in bocca e spingono giù, prima di lasciarlo andare. Incapace di nuotare. I lembi di carne tesi, le parti slabbrate dalle mani che ci avevano giocato fino a macchiarsi di rosso, e continuavano a muoversi per vedere quanto potesse allargarsi una fessura tanto stretta. Se lui potesse riempirle di più, quelle pareti molli, così sottili, che gli angoli si strappavano facilmente, mentre si faceva ancora spazio, e a Edo dava una certa soddisfazione, rompere.
Perché non avrebbe dovuto farlo?
Il volto di Edo compariva nell'inquadratura, la penombra lo celava a mo' di maschera, e ognuna di quelle donne era brutta, quando lui aveva finito: teste rosse, simili a palloncini. Avresti voluto affondarci uno spillo per farle scoppiare. Edo si chinava su di loro, disegnava le vene gonfie con la punta della lingua, assaporava le lacrime dagli occhi e beveva quel dolore. Rideva come se fosse ubriaco. Allentava la stretta, di tanto in tanto, per non ucciderle sul serio.
«Cosa cazzo stai facendo?»
Una voce – la sua – per la prima volta così nitida. L'Edoardo che aveva giocato a nascondino sin dal momento in cui ci eravamo presi le mani per pronunciare i nostri nomi e presentarci, era qui; e io l'avevo rincorso. Potevo finalmente afferrarlo.
Dal capo opposto del tavolo, lo guardavo: una persona che non avevo mai visto. L'avevo solo scorta, come dall'altra parte di un finestrino appannato; attraverso la foschia che non si diradava mai abbastanza da scoprire i veri tratti del suo volto. L'espressione di quei video: il mento alto, le labbra tirate, la lingua che rimescolava la bava nella bocca. Le ombre della notte sotto gli zigomi, simili a squarci senza sangue, mentre le pupille abbracciavano le iridi. Aveva l'eccitazione iniettata negli occhi; l'adrenalina nel petto come sperma fra le piccole labbra di tutte le donne dei suoi video.
L'ho sempre sentita, quella puzza, provenire dal corpo di Edo. Poteva spruzzarsi addosso la colonia, buttarcisi dentro e restarci, finché la carne non fosse scivolata già dalle ossa, ma non l'avrebbe camuffata comunque.
Non poteva.
La riconoscevo, Lena.
Carne.
Edo respirava, mangiava, beveva per farsi simile agli esseri umani, quando non c'era parte di lui che non fosse marcia. Un complesso di pezzi rotti che si tenevano così bene assieme, dall'esterno, eppure bastava esercitare un po' di pressione e si frantumava.
Si frantumava.
«Quei video sono finti.»
«Sì, certo.»
L'indice di Edo tracciava il bordo del tavolo, mentre avanzava. Io sulla traiettoria e i suoi passi inesorabili: nell'arco di tre respiri, eravamo già vicini. Due anime affini. Due corpi all'apparenza umani, l'uno a un metro dall'altro. Esseri superiori di una razza che non riusciva a concepire la nostra esistenza, perciò ci additava.
Mostri.
«Non hai accettato da bere né da mangiare. Hai preso precauzioni. Hai sentito qualche storia o hai tirato a indovinare?» chiese. Un tono gentile. «Ti sei messa a frugare nella mia roba e ti ho beccata. Dovresti avere paura, Alissa.»
Credeva che sarei scappata?
Credeva che mi sarei ritratta?
Credeva che non avrei accettato le sue braccia, che volevano afferrarmi così disperatamente, quando avevo freddo? Quando non c'eri tu a scaldarmi, Lena?
Perché almeno una volta al mese papà vuole vedere il futuro amministratore delegato dell'azienda di famiglia. L'uomo generoso che mi ha adottata, presa come sua figlia, riempiendoci il conto corrente allo stesso modo, sa che – dopotutto – non lo sono davvero. Quando si parla di affari, io non sono coinvolta, e quel giorno, Lena, tu eri con lui. Io da sola; la mia mano in cancrena dal momento che l'avevi lasciata andare, ma – per qualche ragione – Edo la cercava: avevo il pugno all'altezza del suo cuore. Quelle mani attorno alla vita, coi pollici che provano a toccarsi e comprimermi, come se fossi stata una di quelle ragazze.
Un fraintendimento.
Il mio coltello carezzò la carotide che sfioravo con la punta del naso. Un cenno dell'indice e l'avrei ferito. Un cenno e avrei visto cosa c'era sotto la pelle di Edo, così sottile, dove s'infrangevano i miei respiri e riposavo le labbra. Avrei potuto succhiargli via la vita. Così vicina, lo vedevo, il capezzolo che non esisteva ancora, ma l'avrei creato per nutrirmi di lui come una bambina.
Un taglio e l'avrei ucciso.
«Abbracciami pure, Edo. Ho bisogno di calore, ma solo per qualche istante. A Lena non piacerebbe.»
Inspirai il profumo della carne, lì, tra le sue braccia. Uno zigomo contro il petto e lo sentivo, il cuore che batteva. Strapparlo via in un morso, ingoiarlo per intero, sarebbe stato facile. Ma non avevo rincorso Edo così a lungo, giocato a stanare il coniglio, a cavare il ragno dal buco, solo per farlo fuori.
No, volevo che fosse mio. Volevo metterlo in una gabbia e giocarci per sempre.
Schiacciavo la lama contro quell'intrico di vene pulsanti; stregata dai battiti, dai respiri di Edo, che affioravano su pelle come brividi che avrei voluto infilzare con una schiera di spilli.
Mi provocavano. Cercavano la punta del mio coltello per farsi penetrare.
Lui allentò la presa.
Un ghigno divertito sbocciò sulle sue labbra: un fiore bianco; gli stessi denti affilati che aveva mostrato all'occhio della telecamera, dopo essersi ubriacato di lacrime e sangue. Ma il tuo è più bello, Lena.
In quel momento, avrei voluto te. Il pensiero di quanto forte avresti potuto mordermi, se avessi scoperto dov'ero e con chi, faceva strisciare serpenti invisibili tra le mie gambe. Annebbiavano i miei pensieri. Bramavo la tua punizione.
Volevo comportarmi ancora più male. Essere una bambina cattiva, ma solo per te.
«Chi sei tu?»
«Una che si è trascinata via dalla miseria. Quelle puttanelle ben vestite non sarebbero sopravvissute.»
«Non sei normale.»
«Nemmeno tu», pronunciai, e lasciai che le braccia di Edo scivolassero via. Mossi un passo indietro. Mi mancavi, Lena. Il corpo di quell'uomo era una mera consolazione e non sarebbe mai stato all'altezza.
«Adesso cosa facciamo?» domandò lui.
«Mostrami cos'hai», risposi. «Voglio vedere tutto.»
«Perché dovrei fidarmi?»
«Sono tua amica. Ti faccio compagnia. Non ti senti solo?» Rigirai il coltello tra le dita. «Al mondo non ci sono abbastanza persone come noi, ed è difficile incontrarne altre, ma ora hai me. Abbiamo bisogno di qualcuno, anche quando non vogliamo ammetterlo. Proteggiamoci a vicenda, Edo.»
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A presto,
Esse.
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