#1

Alissa

Ti ho sempre vista così in alto, Lena. Così in alto da invidiare i tuoi passi, perché sei stata tutta la vita su un piedistallo, il pavimento non l'hai mai toccato, mentre io ci sono inciampata innumerevoli volte.

Giù. Giù. Giù ancora, e ogni caduta mi ha lasciata più sporca, riversa ad annaspare. No, tu non puoi capire una come me: queste macchie non si cancellano, e io mi sono arresa, ma gli esseri umani sollevano i palmi, tendono le dita per afferrarti. Si illudono che l'impegno possa condurli ovunque: sul sole, sulla luna, su una stella. Contro la pelle di una donna che non potrebbero mai avere, eppure continuano a cercarla. E gli uomini sono stupidi, Lena. Credono che la gentilezza conceda loro il privilegio. Respirano dalla bocca per conquistare una traccia del sapore che potresti avere; l'aria che hai accolto nei tuoi polmoni, e ti ha nutrita, riempiendoti come loro vorrebbero riempirti. Non nel petto, ma più in basso. Dove le persone nascono e – a volte – muoiono.

Prima ancora che un paio di mani guantate li strappi via dalla madre, ci sono bambini che soffocano tra un paio di cosce. Che bella sensazione, Lena. Sei stata tu a insegnarmela: non per uccidermi, ma darti piacere.

Gli esseri umani dovrebbero essere grati che la morte sia un'alternativa. Con le teste basse, le schiene chine, incastrati a una scrivania sei giorni su sette, dieci ore al giorno, si aggrappano al denaro che sfugge dalle dita. E lo rincorrono: a ogni criceto la sua ruota. È una gabbia che gli esseri umani non vogliono aprire, perché la libertà fa paura alla preda che sa di essere tale; e nel regno animale, il forte uccide il debole. Il leone, la gazzella. Nessuno lo accusa, se affonda i denti, ma nel mondo degli esseri umani uccidere è sbagliato.

È sbagliato tagliare la gola alla troia che ti ha rubato l'uomo.

È sbagliato legare il pezzo di merda che non ha saputo tenersi il cazzo nelle mutande, afferrargli la testa e sbatterla contro il pavimento, ripetutamente, per farla sanguinare abbastanza a lungo da offuscargli la vista. O fargli guardare il tuo sorriso mentre gli tagli l'uccello. Non importa cosa tu scelga di farci, poi – immergerlo in un barattolo di formaldeide o ficcarglielo giù per la gola –, la società ti dice che "no, non si fa".

È sbagliato tagliare il cazzo al pezzo di merda.

È sbagliato sgozzare quella che si è sbattuta tuo marito.

Regole, Lena, proteggono gli esseri umani da quelle come noi. In tv passa a ripetizione lo stesso film: eroi ed eroine che combattono senza spade né pistole, perché gentilezza e amore sono armi più efficaci. La società fa della debolezza un pregio, non un difetto da eliminare. A suon di frustate, possibilmente, con le ginocchia contro il pavimento e la cintura che scocca sulla carne future cicatrici. Rivoli di sangue lungo la spina dorsale.

Ricordi, Lena?

Era così che faceva la mamma. Esorcizzava la debolezza come un demone dal corpo, senza crocifissi fra le dita. Non era acqua santa spruzzata addosso, ma la punta di un ombrello nella pancia. Pizzicava qualche organo, prima di trarsi indietro. Era un piatto di pasta rovesciato sulla testa. Erano gli indumenti sporchi che non entravano in lavatrice, e quel pugno che li agguantava. Era il puzzo che ti spalancava la bocca prima delle sue nocche – troppo forte, il palmo stretto di un'adulta, che una bambina non può respingere. Era il calzino che ti carezzava l'ugola, e sembrava addirittura gentile, quando il pugno affondava di più. Buttavi giù saliva e sudore per non soffocare.

Gli esseri umani scappano da ciò che può fargli male. Non capiscono quanto il dolore possa essere caldo; perché bastava il palmo della mamma a farmi bruciare. Ho provato che effetto facessero gli abbracci, ma – per quanto lei stringesse forte – lasciavano impronte tiepide.

Non mi bastava.

Non bastavano.

Volevo il fuoco acceso sulla mia carne e che ogni colpo bruciasse di più: un'ustione, uno schiaffo, poi il successivo; pelle di cartapesta sotto le sue dita, finché non fossi stata cenere. Invece, la mamma si è fermata prima di calcare i nostri corpi di cicatrici: avremmo potuto ricordare meglio il suo amore, come nei pochi segni che ci ha lasciato addosso, riflessi allo specchio quando ci spogliamo, Lena.

Sotto i polpastrelli c'è ancora: la veemenza di un tempo che non si raffredda mai. Se schiacci le ferite, sono calde: innumerevoli fuochi che non si estinguono.

Un paio di braccia non fanno lo stesso effetto. Non scottano abbastanza.

Ma tu non vuoi colpirmi, tesoro. Fai scivolare le dita fra i miei capelli, senza afferrare. Raccogli i polsi per baciarli, non li strattoni né spingi né tiri. I tuoi palmi sulle guance solo per accarezzarle. Eppure sai che mi piacciono le cose rotte, i giochi sono fatti per essere usati, e io ho sempre desiderato consumarmi tra le tue dita.

L'aula era già piena, quando siamo arrivate, e tu non volevi lasciare la mia mano. Non volevi sederti da sola, distante, accanto agli esseri umani che inspirano ed espirano da bocche fetide: l'aria fra i denti gialli, tutti storti, eppure riesce ancora a passare. Avrei dovuto considerarlo prima di scegliere l'università pubblica: i poveri puzzano, e hanno nasi brutti su brutte facce, brutti corpi e brutte mani. Brutte persone che non meriterebbero l'attenzione di qualcuno nemmeno se gli aprissero le gambe per succhiare e basta.

Mi dispiace, perché stamattina ho richiuso gli occhi, anziché alzarmi, e tu non ce la fai a buttarmi giù dal letto. Vuoi farmi compagnia. Sei la spina dorsale che fa il calco sul mio petto. Conosco ogni vertebra: le ho dato nome. Le conto una a una, di notte, prima di addormentarmi. Le saluto, quando chiudi gli occhi. Mi sveglio solo per guardarle, al mattino, e do loro il buongiorno. Ti arrabbi, quando facciamo tardi a lezione, poi mi perdoni sempre; ma oggi è diverso. C'è così tanto da perdonare, Lena, mentre ti arrabbi per le ragioni sbagliate e dimentichi quelle giuste.

Ti prego, non ricordarle.

Nora Niola è arrivata dopo di me. Dacché si è seduta, ha centellinato i respiri. La faccia girata alla finestra la maggior parte del tempo, per raccogliere quanta più aria possibile, farsela bastare, lanciare lo sguardo alla lavagna e scrivere in apnea, fino a rigirarsi ancora. Siede vicino al ragazzo coi capelli unticci, quello che ha fatto il passaggio da ingegneria a economia, e si asciuga il moccio col dorso della mano. Quello che infila le dita nelle narici, come se non ci fosse nessuno a guardarlo, poi passa i polpastrelli bagnati sotto il banco.

«Hai sentito la storia di Edoardo Volpe?» chiede sopra la spalla della ragazza. Forse cerca di attaccare bottone – o squagliarle una guancia col suo alito. I capelli di Nora si agitano come fili di paglia per un sospiro di vento; rovinati dalla decolorazione che – nella sua immaginazione – doveva renderli simili ai mei, ma per una mora naturale cercare il biondo significa più andare incontro alla calvizie.

«No», mormora lei a labbra strette. Ruota la testa, come a far scrocchiare il collo, ma si ferma a pochi centimetri dal mio: le narici larghe sulla mia pelle. Si riempie i polmoni di Baccarat Rouge 540.

«Dicono che sia scomparso.»

Nora non risponde. Raddrizza la testa. Alza gli occhi al prof Nardone, fermo accanto alla cattedra, in silenzio. Il gessetto stretto tra l'indice e il pollice, la gamba tesa, la spocchia di uno a cui basta poco per credersi Dio: scarpe laccate di nero, un completo in tinta, una cattedra all'università pubblica.

«Un attimo di silenzio, per cortesia», sputa lui, assieme agli schizzi di saliva che raggiungono i ragazzi ai primi banchi. «Un vostro compagno è stato dichiarato scomparso. Non si hanno notizie di Edoardo Volpe da circa un mese. Chiunque sia in possesso di informazioni utili all'indagine, o l'abbia sentito di recente, può contattare la polizia.»

Gli studenti sussultano, nelle loro sedie. Si stringono di più, tutti ammassati, come sacchi dell'immondizia in una discarica. Fronti aggrottate, rughe su volti di vent'anni, perché nel mondo di questa gente, Edo merita pietà. Invece, è solo un mostro della nostra stessa specie, Lena, e io sapevo che questo momento sarebbe arrivato. Sapevo che avresti potuto odiarmi, ma, quando giri la faccia, non c'è rabbia. I tuoi occhi sgranati mi danno la risposta che aspettavo da settimane.

Non ricordi cos'è accaduto la notte in cui Edo è scomparso.


🥀🥀🥀

Anche oggi, grazie per aver letto il capitolo #1 di FIDELIS AD MORTEM. Grazie anche a chi si è iscritto su Patreon e chi mi invia DM su insta per darmi dei feedback. Per me è molto importante ricevere supporto. Sapere che, dall'altra parte, c'è qualcuno che vuole leggere ciò che scrivo, sicuramente mi fa sentire più motivata. 🖤

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A presto,

Esse.

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