3.3
Mentre il sole spande i suoi ultimi raggi dorati sulla terra di nessuno, il reggimento macina altri chilometri in terra russa. La neve è così alta che da essa riaffiorano solo creste di muri, e a un lato della strada s'intravede la carcassa di un T-34 col cannone rivolto verso il cielo.
Le canzoni risuonano tristi per il paese fantasma, le voci sono stanche, i volti rigati di lacrime.
Il maggiore Richter dà ordine alla schiera di fermarsi all'ombra di una quercia spoglia, quindi balza giù dal camion. Schwerin lo imita poco dopo, seguito dagli altri soldati: alcuni recano delle vanghe e delle croci di legno, altri trascinano a braccia i sudari dei caduti – non tutti hanno diritto a una bara.
Senza voltarsi verso di loro, Richter alza lo sguardo sull'albero: alto diversi metri, con un tronco robusto e rami nerboruti, dà l'idea di essere resistito a mille anni di intemperie e di turbolenta Storia russa. "Camerati!" La sua voce rimbomba nel silenzio, riverbera nell'aria gelida. "Oggi più che mai le difficoltà sono immense, ma noi siamo ancora qui e non ci è concesso demordere. Qui, alle porte di Stalingrado, ci stringeremo gli uni agli altri, ci sentiremo parte di un unico gruppo e renderemo onore al sacrificio dei nostri compagni. Chi si dà per vinto è già perduto."
Cita involontariamente le parole del sergente che arringava i soldati nel rifugio, caduto in combattimento quella mattina stessa. È lui il primo a essere tumulato ai piedi della quercia, in una modesta cassa da morto avvolta nella bandiera di guerra del Reich.
Gli stessi soldati dell'altro giorno riprendono a cantare.
Ich hatt' einen Kameraden
einen bessern findst du nit
Die Trommel schlug zum Streite,
Er ging an meiner Seite
In gleichem Schritt und Tritt.
(Avevo un camerata
non ne puoi trovare uno migliore.
I tamburi incitavano alla battaglia
lui stava saldo accanto a me
allo stesso passo di marcia.)
Mentre la neve riprende a fioccare nell'aria, le tombe dei caduti vengono ricoperte di terra e i loro elmetti d'acciaio apposti sulle croci. Forse in primavera vi cresceranno dei fiori.
Eine Kugel kam geflogen,
Gilt's mir oder gilt es dir?
Ihn hat es weggerissen,
Er liegt vor meinen Füßen
Als wär's ein Stück von mir.
(Giunse fischiando una pallottola;
è per me, oppure per te?
L'ha strappato alla vita,
egli giace ai miei piedi
come se fosse una parte di me.)
Richter assiste in rispettoso silenzio alla cerimonia, con le mani nelle tasche del lungo cappotto.
Cerca di fare il vuoto nella mente, ma il ricordo di Werner Altendorf lo colpisce ancora una volta come una stilettata ghiacciata che lo trapassa da parte a parte. Lo sguardo vacuo fisso di fronte a sé, si irrigidisce e stringe i pugni.
Era autunno, allora, nei pressi di Smolensk: il capitano gli aveva comunicato via radio che la vittoria era vicina e quel giorno stesso era morto in maniera orribile. Hermann non aveva potuto far altro che giungere sul posto e assistere impotente mentre spirava, la mano stretta nella sua. Di quella compagnia non era rimasto nemmeno un superstite.
Quel giorno, Hermann ha perso molto più che un semplice camerata: è come se insieme a Werner fosse morta anche una parte di lui.
Will mir die Hand noch reichen,
Derweil ich eben lad'.
"Kann dir die Hand nicht geben,
Bleib du im ew'gen Leben
Mein guter Kamerad!"
(Vuole tendermi ancora la mano
mentre ricarico il fucile.
"Non posso darti la mano,
riposa in pace nella vita eterna,
mio buon camerata!")
Si dice che morire combattendo per la propria Patria sia l'onore più grande per un soldato, ma spesso non basta ad alleviare il peso che una tale perdita si porta dietro. Soprattutto se di quella morte ci si sente indirettamente colpevoli.
Ai caduti di quella compagnia era stata riservata una cerimonia solenne: Hermann ricorda ancora le bandiere scarlatte che avvolgevano i feretri, la parata funebre e gli ufficiali in alta uniforme che cantavano, con gli elmetti lucidi e le sciabole alla cintura. Lui faceva parte della guardia d'onore, ma ha vissuto l'intero evento come una sorta di strano incubo allucinato.
"Tu senti mai la mancanza di casa, Hermann?"
Non lo so. Ogni volta che torna in Turingia deve attraversare le stesse strade, visitare gli stessi parchi e percorrere gli stessi viali, pur sapendo che lui non tornerà più. Non potrà più vedere il guizzo di baldanza nei suoi occhi di cielo, né intrecciare le dita tra i suoi capelli biondi nei loro preziosi momenti di solitudine. Una lapide spoglia nel cimitero della città, con incisi il suo nome e una croce di ferro, è tutto ciò che resta di lui.
Sente lo sguardo di Schwerin su di sé, ma si sforza di restituirgli una facciata impenetrabile. Qual è il confine tra il cameratismo e l'ineffabile sintonia che serpeggia tra due uomini uniti dagli stessi intenti? Cos'è che marca la differenza tra un soldato modello, dedito ai commilitoni prima che a se stesso, e quello che verrebbe bollato senza indugi come un depravato privo di dignità? Forse, se Eugen conoscesse il suo tormento, non lo guarderebbe più con gli stessi occhi. Nella migliore delle ipotesi gli riderebbe in faccia e gli negherebbe la sua amicizia, nella peggiore lo denuncerebbe, condannandolo a finire la guerra in galera e privato della possibilità di dare il suo contributo.
E su di lui, oltre al disonore, peserebbe la colpa di una seconda sconfitta.
Nell'aria riecheggiano per tre volte le salve dei fucili, come ultimo saluto ai caduti.
L'ufficiale sente che i suoi occhi si inumidiscono e mentalmente incolpa il vento sferzante.
*
Prima che la tempesta renda la strada impraticabile, i soldati riescono a ottenere asilo presso alcuni contadini russi, che mettono a disposizione le loro isbe. Una di esse, completamente disabitata, funge da quartier generale per i due comandanti; le altre vengono occupate dalle compagnie.
Fuori imperversa la bufera, ma nel camino arde un grosso ciocco di legna, e i soldati, seduti a gambe incrociate per terra, bisbigliano, borbottano e ridono mentre divorano i loro pasti caldi. Due massicci cani da pastore col pelo lungo come lana di pecora girano loro intorno e li annusano, per poi avvicinarsi e accettare le loro carezze.
Gli anziani padroni di casa, a capo di una famiglia che conta almeno quattro generazioni, si stringono l'uno all'altro per invitare alla loro tavola gli ufficiali; parlano in un dialetto così stretto che capiscono solo a metà il russo letterario del maggiore Schwerin, e si limitano ad annuire con aria dimessa mentre rimestano i cucchiai nella zuppa. Hanno occhi chiari e tristi, barbe lunghe come i simulacri delle divinità slave, e sembrano depositari di una saggezza che il comunismo delle città non ha mai conosciuto.
Seduta a un angolo della tavola c'è una ragazza tutta sorrisi e lentiggini, con una lunga treccia bionda che le ricade sulla spalla, che ascolta le parole del maggiore indugiando con occhi languidi su di lui. Eugen ci fa caso appena, mentre con lo sguardo cerca Richter: neanche lui parla, solo di tanto in tanto risponde con un grugnito d'assenso quando qualcuno lo interpella.
Finita la cena, la maggior parte dei soldati tornano ai loro dormitori improvvisati, ma qualcuno si trattiene ancora insieme alle ragazze e agli anziani dal volto senza tempo. Comunicano tra loro a gesti e frasi prive di significato, cantano canzoni popolari e festeggiano una vittoria di cui a quei vecchi contadini probabilmente non importa nulla.
L'anziana babushka, incurante delle chiacchiere dei tedeschi, si siede in un angolino a sferruzzare una sciarpa e il vecchietto dalla barba lunga si assopisce su una sedia a dondolo.
Schwerin e Richter rimangono in disparte, uno a scaldarsi le mani seduto su un ceppo vicino al fuoco e l'altro alla finestra, a osservare la neve che si posa sui tetti spioventi.
Come l'altro giorno nel rifugio, si trova a pensare Eugen. Vorrebbe avvicinarsi, ma ancora una volta l'esitazione gli impedisce di allontanarsi dal suo angolo caldo. Sa che anche una sola parola fuori luogo potrebbe distruggere il sodalizio su cui si reggono le sorti di quella faticosa avanzata, e non se lo può permettere. Con un sospiro, torna a fissare le fiamme che danzano e si contorcono crepitando intorno al legno consunto.
Dopo un po', gli giunge all'orecchio la voce di Richter: parla in russo, rivolgendosi direttamente ai contadini per ringraziarli della loro ospitalità. Ha il suo solito tono asciutto e privo d'inflessione, ma pare che anche lui abbia gradito quell'inaspettato ristoro.
Schwerin si volta e lo scorge sulla soglia, col bavero del cappotto tirato su e le mani in tasca. Sembra titubante: per un attimo, i suoi occhi gelidi si posano su di lui, ma la visiera del berretto impedisce di coglierne l'espressione. Lo saluta con un rapido cenno del capo, quindi schiude appena la porta; basta una piccola breccia per far mulinare all'interno una manciata di fiocchi di neve. Sospinte da un poderoso ululato di vento, le fiammelle delle candele tremolano e le assi del pavimento scricchiolano, poi il maggiore scivola all'esterno e si richiude l'uscio alle spalle, facendo ripiombare la casa nella solita quiete.
Schwerin esita ancora un po', poi si congeda a sua volta ed esce fuori nel freddo a cercarlo.
*
Al piano terra dell'isba i soldati dormono ammassati sul pavimento con gli zaini come guanciali e i fucili appoggiati al muro, mentre chi è di guardia impreca contro la bufera: il passo dei loro stivali chiodati fa tremare il legno della veranda e i loro discorsi si perdono nel vento.
"Che palle, non si può nemmeno fumare una sigaretta in santa pace!"
"Perché non hai mai provato a pisciare controvento: ti assicuro che è molto peggio."
"Venite dentro, scellerati, o vi buscate qualcosa!" urla un sottufficiale, senza osare mettere la testa fuori. "Con questo freddo pure gli orsi se ne stanno rintanati nei loro buchi!"
"Parla degli orsi pelosi o di quelli che sul colbacco hanno una stella rossa e falce e martello, signor maresciallo? Perché sui secondi avrei qualche dubbio."
Schwerin alza gli occhi al cielo e si accosta di nuovo alla porta. "Date retta a Möller, forza: tutti dentro."
"Sì, signor maggiore," gli risponde una voce rassegnata.
L'ufficiale aspetta che i due uomini entrino e richiudano la porta, poi si guarda intorno alla ricerca del suo parigrado: si aspetta di trovarlo da qualche parte insieme ai soldati; invece non c'è traccia di lui. "Möller, dov'è il maggiore Richter?"
Il maresciallo indica le scale. "È andato su nell'ufficio, signore. Aveva da fare."
Schwerin annuisce. Sarà sicuramente a scrivere alle famiglie dei caduti, pensa. Il conto del macellaio è stato caro anche stavolta...
La morte non guarda in faccia a nessuno: si è portata via il vecchio con la dissenteria, ma anche il sergente dei manifesti di propaganda mentre incitava i suoi uomini a non demordere.
Decide di raggiungerlo e sale al piano superiore divorando gli scalini a due a due. Anche se la porta è chiusa, intuisce la sua presenza al di là di essa; si accosta e bussa.
Nessuno risponde.
Avvalendosi del fatto che l'ufficio è condiviso, Schwerin entra con titubanza: Richter è seduto su una vecchia sedia, di fronte a sé ha la macchina da scrivere e una bottiglia di vino mezza vuota. Sta fissando il fondo torbido del bicchiere e alza la testa su di lui solo quando la porta si richiude.
La stanza è avvolta nella penombra, solo alcune candele ardono proiettando riflessi sul vetro opaco e sui capelli chiari del maggiore.
Eugen muove un passo in avanti e lo vede irrigidirsi involontariamente, ma è Hermann stesso, con un cenno silente, a invitarlo a sedersi vicino a lui. In silenzio, egli prende una sedia e la accosta al tavolo.
"Stavo scrivendo alle famiglie dei caduti," spiega l'altro, mentre con un gesto meccanico gli versa del vino e gli porge il bicchiere. "Conoscevo personalmente la moglie e la figlia del sergente."
A quelle parole, Schwerin non può fare a meno di chiedersi se anche Richter abbia qualcuno che lo aspetta in Germania, e il pensiero gli provoca un'inaspettata fitta di gelosia. Fingendo indifferenza, si porta il bicchiere alle labbra e sorbisce un sorso di vino scadente. "Anch'io dovrò preparare diverse lettere, stanotte," risponde, in tono neutro. "Al capitano Weiss è stata conferita la croce tedesca una settimana fa, ma sarà sua madre a ricevere il pacchetto."
Hermann si limita ad annuire. Ha un'espressione indecifrabile, ma la sua postura è rigida. "Ho ricevuto una comunicazione dal comando generale: tra una settimana parte l'operazione Wintergewitter," annuncia infine. "Dobbiamo tenere duro ancora qualche giorno, poi arriveranno altri rinforzi."
"Se siamo arrivati fin qui, possiamo farcela ancora."
Senza replicare, Richter si versa dell'altro vino e beve in silenzio; i suoi occhi grigi sembrano scaglie d'oro alla luce delle candele.
Eugen abbassa la voce. "A che pensi, Hermann?"
"A tutto e niente."
"Si dice che la guerra faccia emergere il vero volto degli uomini... la loro vera essenza, il loro valore, al di fuori di ogni sovrastruttura borghese. Abbiamo condiviso tante cose, io e te, senza il bisogno di sprecare tempo in chiacchiere effimere." Si pente subito di essersi lasciato scappare quel pensiero ad alta voce, ma l'altro scrolla il capo, continuando a fissare dritto di fronte a sé.
"È così, e te ne sono grato," ammette. "Ti sono grato per non avermi fatto domande e per non esserti perso in inutili elogi." Fa una lunga pausa, poi si volta verso di lui e i loro occhi si incrociano: solo in quel momento sembra che l'abisso di dolore che dimora sul loro fondo si spalanchi, ma il suo contegno rimane composto. "Il capitano Altendorf era il mio aiutante di campo. Era ardito, brillante, competente. Uno degli ufficiali migliori che abbia mai avuto al mio comando. Quel giorno avevo dato l'ordine alla sua compagnia di attestarsi in una vecchia fabbrica, un punto strategico per le nostre operazioni, mentre io col resto delle truppe avrei tentato una manovra di accerchiamento. Sembrava che fosse il piano perfetto, una vittoria assicurata." Sospira e abbassa lo sguardo sulle fiamme. "Nessuno aveva previsto il contrattacco dei sovietici, arrivato prima ancora che noi potessimo ricevere l'allarme. Quando sono arrivato sul posto, della fabbrica restava solo un cumulo di rovine fumanti e i carri armati russi dilagavano per i campi, mentre la compagnia era rimasta intrappolata all'interno. Non abbiamo potuto far altro che scavare delle buche e cercare di contrastare i nemici con armi da fanteria. Siamo riusciti a ricacciarli indietro solo dopo otto ore di combattimenti." Le parole gli escono dalla bocca in tono distante, apatico, come non fosse davvero lui a pronunciarle, ma Schwerin nota che i suoi muscoli si sono irrigiditi e i suoi occhi vengono attraversati da un bagliore sinistro. "A quel punto siamo andati a recuperare i feriti dalle macerie. Erano passate ore, ma il capitano respirava ancora... il suo viso era una maschera di sangue, quasi irriconoscibile... mi sono davvero reso conto di quello che stava succedendo solo quando ha aperto gli occhi e mi ha guardato, senza dire nulla." Le dita vanno a sfiorare le foglie di quercia della croce che porta al collo, ma i suoi occhi diventano due lame di ghiaccio. "Non lo dimenticherò mai."
Schwerin lo fissa come se lo vedesse per la prima volta. Crede di conoscere il dolore a cui allude, perché l'ha provato lui stesso quando, subito dopo la parata trionfale lungo gli Champs Elysées, ha appreso che il nome del suo amante era tra i caduti della 24. Divisione Corazzata.
D'istinto, si avvicina a lui e gli passa un braccio intorno alla spalla: un gesto fraterno, al quale Richter non si sottrae, ma esala un profondo sospiro e rilassa appena la propria postura, abbandonandosi contro di lui.
Eugen rafforza la stretta e, con uno slancio che meraviglia lui per primo, solleva una mano a sfiorare la guancia liscia dell'altro, che si tende impercettibilmente verso quella carezza.
Rimangono così per un istante imprecisato, la fronte di Hermann contro la sua guancia, vicini come non lo sono mai stati. Nessuno dei due osa proferire parola.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top