3.2
Fiocchi bianchi si posano sulla terra bruciata dal gelo, nascondendo alla vista i campi minati e i labirinti delle trincee. Nella piazza sgomberata dal ghiaccio, i soldati stanno salendo sui camion, pronti per riprendere la marcia.
Prima di partire, Hermann si guarda intorno alla ricerca del suo collega, sperando di scorgerlo tra le file di ufficiali inferiori radunati intorno all’uscita del rifugio.
Lo individua alla fine, mentre in disparte osserva gli uomini del suo reparto, le mani dietro la schiena e il berretto leggermente sulle ventitré.
Si avvicina e gli rivolge un rapido saluto militare. “Schwerin, la stavo cercando.”
L’altro si volta verso di lui; il cielo infuocato dell’alba fa risaltare i suoi occhi azzurri sul volto dal profilo aristocratico. “Può chiamarmi Eugen.”
Colto alla sprovvista, Richter fatica a credere a ciò che ha appena udito: è la prima volta che lo sente usare con tanta disinvoltura il proprio nome di battesimo. Ha come l’impressione che l’altro gli abbia accordato un privilegio che non concede spesso. “Va bene... Eugen.” Annuisce, ricomponendosi. “Solo se lei mi chiama Hermann, però.”
“Hermann,” ripete l’altro, in un tono che fa sembrare l’inflessione della sua voce ancora più calda.
In quell’istante sospeso, i loro respiri si condensano in tenui nuvolette di vapore; si scambiano uno sguardo e si sentono come se fossero in confidenza da sempre. La consapevolezza li colpisce come un fulmine a ciel sereno, ma la presenza dei loro subalterni li trattiene dal fare un ulteriore passo avanti.
*
La buca che ospita i due ufficiali è una cantina dal soffitto basso, da cui i pezzi d’intonaco si staccano come farina. Fuori, da ore, ulula un’implacabile bufera di neve.
“È la fine del mondo, un dannato inferno ghiacciato...” geme un soldato.
Uno dei più anziani, che dall’aspetto si direbbe un veterano della Grande Guerra, si rigira nervosamente tra le coperte e grugnisce: “Se andiamo avanti di questo passo, la neve ci sommergerà tutti. Non ci ritroveranno più.”
Si fa avanti un sergente, all’incirca dell’età di Schwerin e Richter. È alto, vigoroso, sembra uscito da un manifesto di propaganda. “Basta così!” li rampogna. “Se volete morire, uscite fuori e sdraiatevi per terra: sarà questo gelo infame la vostra tomba. Nessuno si ricorderà più di voi e state certi che non mancherete a nessuno.” Nessuno osa replicare mentre il giovane, mani puntate sui fianchi, scruta i soldati a uno a uno. “E voi sareste soldati della Eisenfaust? Mi sembrate un branco di smidollati! Tirate fuori le palle e smettete di lagnarvi, o abbiate almeno la decenza di tenervi codesti pensieri per voi. La tempesta finirà.”
“La tempesta finirà...” ripete un giovanotto. “Signorsì, signore.”
A quelle parole, l’espressione del sottufficiale si ammorbidisce. “Animo, ragazzi miei. Chi si dà per vinto è già perduto.” Si lascia scivolare il fucile giù dalla spalla, prende una cassetta di munizioni vuote e va a sedersi di fronte a loro, accavallando le gambe. “Cantiamo qualcosa, piuttosto.”
Un giovane caporale tira fuori un’armonica a bocca e, mentre il vento ulula e muggisce, i soldati intonano un timido canto.
Weit ist der Weg zurück ins Heimatland, so weit, so weit.
Dort wo die Sterne stehn am Waldesrand, es blüht die neue Zeit.
(Lontana è la strada per tornare a casa, così lontana, così lontana.
Laggiù, dove le stelle incontrano il margine del bosco, germoglia una nuova epoca.)
In piedi di spalle, le mani dietro la schiena, il maggiore Richter – o meglio, Hermann – non si muove: sembra assorto nella contemplazione del poco cielo che si riesce a intravedere da una fenditura nel muro.
Jeder brave Grenadier sehnt heimlich sich nach dir.
Jo! Weit ist der Weg zurück ins Heimatland, so weit, so weit.
(Ogni buon soldato prova nostalgia per la sua terra.
Sì! Lontana è la strada per tornare a casa, così lontana, così lontana.)
Anche Schwerin si mantiene in disparte, ma per un attimo si sorprende a chiedersi che cosa stia pensando. Qualcosa, tuttavia, lo trattiene dall’avvicinarsi a lui e offrirgli uno spunto per conversare: si trovano a tu per tu da quasi un mese, hanno combattuto fianco a fianco e si sono difesi senza chiedere nulla in cambio, ma il suo mondo interiore rimane un mistero insondabile.
Forse è il carattere ombroso di Richter, forse sono gli stessi scrupoli di quella notte nelle trincee. Eppure, si sente di considerarlo un camerata, un amico, qualcuno con cui abbia condiviso una fetta significativa della propria vita. Sono due ufficiali superiori, ciascuno a guida di un’accozzaglia di battaglioni sbandati, ma le uniformi logore e i cappotti consunti li rendono poco più che due fagotti di stracci con le mostrine lucide e qualche medaglia. Perfino i vincoli di formalità si allentano, in casi del genere.
Die Wolken ziehn dahin, daher, sie ziehn wohl übers Meer.
Der Mensch lebt nur einmal, und dann nicht mehr...
(Le nuvole si muovono nel cielo, sorvolano il mare.
Si vive solo una volta, e poi non più...)
Gli ritornano in mente i tempi in cui il principe Eugen von Schwerin-Wolfshagen, all’epoca capitano della Luftwaffe, si presentava col proprio nome per intero ed era sempre alla ricerca di nuove avventure. Aveva ricevuto vari richiami disciplinari per il suo atteggiamento sopra le righe, era stato sballottato da uno Stukageschwader all’altro ed era piuttosto spigliato nel dare sfogo alle proprie inclinazioni, anche se per quell’ultima cosa aveva sempre adottato la massima discrezione. Ciò lo rendeva però anche ardito, spericolato quando c’era da partire per una missione, e gli era fruttato una croce di cavaliere per aver affondato un incrociatore inglese al largo di Calais, dileguandosi poi sotto gli occhi attoniti di una squadriglia di Hurricane senza che il suo aereo subisse danni.
Era andato avanti così almeno fino a quando non aveva conosciuto Jörg, un lanzichenecco alla conquista di Parigi, un capitano delle truppe corazzate che dilagavano per le campagne francesi.
Eugen si era tirato fuori a fatica da uno Stuka in fiamme, le mani e il volto imbrattati di sangue, e si era imbattuto in un gruppo di Panzergrenadiere di ritorno da una sortita. Lutz, il suo mitragliere, era morto prima che l’aereo toccasse terra, e i soldati dello Heer lo avevano aiutato a seppellirlo sotto l’ala di gabbiano rovesciata, salutandolo a braccio teso come un vecchio camerata.
Jörg lo aveva ospitato nei baraccamenti della sua compagnia, ferito, in attesa che qualcuno del suo stormo venisse a recuperarlo. Tra loro c’era stata una passione intensa ma fugace, imprevista, consumata nei pochi momenti di tregua dalle battaglie.
A quei tempi la Germania era gloriosa e potente, e Jörg non era vissuto abbastanza per vederla raggiungere l’acme e precipitare poi inesorabilmente verso la rovina.
Dentro di lui ardeva un fuoco che si è spento troppo in fretta.
Schwerin si riscuote all’improvviso: non sa perché gli è tornato in mente; forse non l’ha mai dimenticato. Certe cose non si dimenticano mai facilmente, non quando si arriva a condividere così tanto per così poco tempo. Dopo di lui non c’è stato più nessun altro, ma quel poco che hanno vissuto insieme basta a non fargli rimpiangere la sua vecchia vita e il tempo passato a rincorrere uomini che non sono stati capaci di lasciare il segno.
E in quel momento, alza gli occhi sulla figura imponente del suo parigrado che si erge come un pilastro nell’oscurità, si perde a fissare la sua nuca bionda. È immobile, ma per un istante gli sembra di rivederlo mentre con un gesto da predatore afferra una vanga da trincea e si lancia nella mischia per difendere i suoi soldati.
Si rende conto che è stato proprio lui a fargli tornare in mente quei ricordi: è portatore dello stesso fuoco, che arde con altrettanta intensità al di sotto della scorza di ghiaccio.
Die Wolken ziehn dahin, daher, sie ziehn wohl übers Meer.
Der Mensch lebt nur einmal, und dann nicht mehr...
(Le nuvole si muovono nel cielo, sorvolano il mare.
Si vive una sola volta, e poi non più...)
Fa un passo avanti e gli si avvicina. “Hermann,” lo chiama, a voce bassissima.
L’altro si volta verso di lui con un sobbalzo, ma subito dopo le sue labbra si piegano in un accenno di sorriso. “Eugen.”
Rimangono per qualche istante in silenzio, mentre un sibilo più forte s’insinua tra le feritoie. Schwerin conosce bene gli uomini, ma con lui si sente stranamente impacciato: teme di metterlo in imbarazzo o di indisporlo, e allontanarlo da sé è l’ultima cosa che vuole. Come sempre quando è nervoso, si morde il labbro inferiore. “Tu senti mai la mancanza di casa?” gli chiede infine, indicando con un cenno del capo i soldati che cantano.
“Non lo so,” ammette l’altro, con una scrollata di spalle. “Adesso il mio posto è qui, al fronte... almeno fino a quando questa guerra non sarà vinta. Sinceramente credo che ci sia più bisogno di me qui che in Patria.”
Eugen annuisce. “È così per tutti noi.” Segue una lunga pausa, poi soggiunge: “Tu di dove sei, se posso chiedere?”
“Eisenach, in Turingia. È da tanto tempo che non ci torno, però.”
“È una bella città, ricca di cultura e storia.”
“Sì, quando passeggi per il centro storico o per i dintorni, ai piedi del castello di Wartburg, è come fare un viaggio indietro nel tempo.” Gli occhi di Hermann si illuminano appena nel riflesso delle candele. “Ci sei mai stato?”
Egli annuisce. “Ho girato la Germania in lungo e in largo, più volte, e considero casa mia ogni luogo dal Maas al Memel, dall’Adige al Belt. La mia famiglia è originaria della Pomerania, ma io sono nato e ho vissuto a lungo in Prussia Orientale... mi piacerebbe ritornarci, un giorno.”
Weit ist der Weg zurück ins Heimatland, so weit, so weit.
Dort wo die Sterne stehn am Waldesrand, es blüht die neue Zeit.
(Lontana è la strada per tornare a casa, così lontana, così lontana.
Laggiù, dove le stelle incontrano il margine del bosco, germoglia una nuova epoca.)
“Mi chiedevo se...” Tentenna, poi tace.
Hermann sembra vagamente deluso. “Se?”
Egli scrolla il capo. “No, niente. Cose militari, ma ne abbiamo già parlato.” Gli volta le spalle, si avvicina alla caffettiera. Con gesti imprecisi versa del caffè in due tazze e vi lascia cadere due zollette di zucchero, poi gliene porge una senza neanche guardarlo in faccia. “Ne prenda un po’, Richter. Ci converrà rimanere svegli, stanotte...”
“Eugen.” La mano dell’altro gli si poggia sulla spalla. “Se hai qualche dubbio, parliamone. Sai che non ci è concesso di sbagliare o fallire.”
Schwerin si limita a sorbire il suo caffè freddo, senza dire nulla: in realtà la strategia non c’entra niente con la sua titubanza. La verità è che ha offerto a Richter un grado di confidenza che da anni non offriva più a nessuno, e l’ha fatto quasi senza pensarci, senza tenere in conto le conseguenze che quel gesto potrebbe avere. Ma c’è anche qualcos’altro, qualcosa che non aveva previsto e che non deve ripetersi: se Richter lo venisse a sapere, se dovesse sospettare qualcosa, tutto ciò che hanno duramente conquistato in quelle settimane finirebbe spazzato via da uno scandalo senza precedenti. “Ho piena fiducia in te e nei nostri uomini, Hermann,” si costringe a dire, alla fine. “Nemmeno in passato sono mai stato così sicuro di poter resistere alla marea rossa.”
“E questa è la cosa importante,” gli dice l’altro, prendendo la tazza di caffè dalle sue mani.
Schwerin annuisce, ma ancora una volta preferisce guardarlo negli occhi e tacere. Non ci sono parole per esprimere quello che vorrebbe dirgli in quel momento; forse nemmeno lui le conosce.
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