3.1


La situazione al fronte non è mai stata così drammatica. Novembre ha portato con sé un’altra ondata di gelo dalla Siberia, che ha spazzato via anche le più flebili speranze di vittoria. Come fagotti tremanti, i soldati si aggrappano ai fucili e alle macerie in attesa dell’ennesimo attacco sovietico. Dormono sonni inquieti col capo reclinato sul grembo dei camerati, addossati l’uno all’altro contro le pareti della casamatta. Una stufa scassata emana onde di calore effimero, che si disperde in fretta attraverso gli spifferi; l’artiglieria rimbomba in lontananza come un eterno temporale senza pioggia. Fino a qualche giorno prima, quella struttura difensiva apparteneva ai russi: scritte in un cirillico incerto inneggiano a Stalin e alla Grande Madre Russia.

Schwerin ha le mani puntate sul tavolo e fissa la mappa; Richter non si stacca dal binocolo. Sembrano due belve in gabbia, logorate dal senso d’impotenza: nessuno può prevedere quando le trincee erutteranno una nuova ondata di nemici.

“La radio non prende, i camion in panne hanno le ruote impantanate nel ghiaccio.” Schwerin pronuncia quelle parole con distacco, senza il coraggio di guardare in faccia il collega. “Il Don è una lastra ghiacciata, non arrivano rinforzi né rifornimenti. Siamo bloccati qui.”

Hermann si lascia ricadere il binocolo sul petto con un sospiro. “Possiamo solo resistere a oltranza. Anche l’Armata Rossa è nella stessa situazione, ma non si arrende.”

Si scambiano un lungo e significativo sguardo. Alla fine, Schwerin abbassa di nuovo gli occhi sulla mappa e mormora: “Anche i loro comandanti sanno bene qual è la posta in gioco.” Per un attimo pare che la sua espressione risoluta vacilli, velata dal dubbio, ma subito dopo stringe il pugno e se lo porta al petto, quindi alza di nuovo la testa. “La guerra non sarà persa finché resterà ancora qualcuno con la volontà di combattere.”

Hermann non risponde: anche se per un brevissimo istante, Schwerin l’ha messo a parte dei suoi dubbi, e lui ha come l’impressione che gli abbia mostrato un lato di sé che a chiunque altro sarebbe precluso. Tuttavia, lo vede ergersi come un faro nell’oscurità, una fiamma che arde in tutto quel gelo.

“Signor maggiore!”

A quelle parole, i due si voltano di scatto: un tenente è entrato nella casamatta, facendo spirare all’interno una potente ventata di freddo che arriccia la mappa. È un ragazzo pallido e allampanato, con un mitra a tracolla, che non dimostra vent’anni. Si ferma davanti a Schwerin e si irrigidisce sull’attenti. “Signore, abbiamo sventato una sortita. Ci sono dei prigionieri.”

“Arriviamo subito.” L’ufficiale ha parlato al plurale, includendo anche Richter, che lo segue senza dire una parola.

Attraversano un camminamento scavato in una fossa dalle pareti ghiacciate mentre vortici di neve cadono da un cielo privo di colore, quindi giungono a una postazione dove quattro soldati con le mani alzate e la stella rossa sull’elmetto sono sorvegliati dai fucili di altrettanti fanti in grigioverde.

I due più anziani tra i bolscevichi rimangono in silenzio a fissare i tedeschi con un misto di astio e timore, ma non osano muovere un dito. Un terzo ha una vistosa ferita da taglio sulla guancia e un proiettile gli perfora la gamba.

Alla vista dei due ufficiali, l’ultimo prigioniero, un ragazzo gracile con l’elmetto che gli copre gli occhi, china il capo e grosse lacrime iniziano a scorrergli sulle guance. “Pomotsch,” mormora, il petto scosso da potenti singhiozzi.

Per tutta risposta, uno dei soldati lo colpisce, ma un gesto perentorio di Schwerin lo induce ad abbassare il fucile.

Il maggiore si avvicina al ragazzo, che si morde il labbro inferiore fino a farlo sanguinare, quindi si ferma di fronte a lui e a bassa voce, in russo, gli dice qualcosa che da quella distanza Hermann non riesce a cogliere. Ha un tono fermo e autorevole, ma le sue parole riescono in qualche modo a riscuotere il ragazzo, che annuisce e riserva occhiate remissive ai suoi carcerieri.

“Accompagnateli nel rifugio, fate medicare il ferito e lasciate qualcuno a sorvegliare a vista gli altri. Chi maltratta un prigioniero inerme dovrà risponderne a me personalmente.”

Richter non può fare a meno di stupirsi del comportamento del suo parigrado: da quando si trova in Russia ha visto fucilare decine di uomini ed è ormai troppo avvezzo a quel modo sporco di fare guerra, senza quartiere e senza prigionieri. Schwerin invece non si è lasciato corrompere: se lo immagina su un alto destriero da guerra, con un’armatura lucida e la lancia ornata di nastri. Un cavaliere in un mondo che va scomparendo, un uomo tra le rovine, nobile nell’animo prima che nel nome.

Za Rodinu! Za Stalina!” Le grida dei russi irrompono nel silenzio della notte, accompagnate dalle salve di altrettanti fucili e dal crepitare furioso delle mitragliatrici. “Vperjod!” Centinaia, migliaia di gole innalzano al cielo un gigantesco Hurra mentre le bocche dei cannoni vomitano tonnellate di fuoco. “Za Stalina! Hurra pobieda!

Appiattito dentro una buca insieme a due soldati con la mitragliatrice pesante, il maggiore Richter ritira la testa tra le spalle. Colonne di fumo plumbeo si torcono nell’aria, rendendola così rovente da far sciogliere la neve prima ancora che tocchi terra.

Sieg Heil!” urla un sottufficiale incitando i propri uomini, ma la sua voce è troppo timida per coprire il fragore della battaglia. Stanchi e sfibrati, pochi soldati si uniscono, preferendo combattere in silenzio. Intorno a loro ci sono reparti della Wehrmacht, delle Waffen-SS, perfino della Hitlerjugend: combattono dietro muri crollati, nelle voragini scavate dagli obici, dietro ridotti di sacchi ammassati alla rinfusa; focolai di scontri dilagano per tutto il centro abitato. La differenza è che, quando un tedesco muore, i camerati si stringono intorno a lui cercando di resistere; quando muore un russo, al suo posto ne sopraggiungono altri dieci, che combattono con più furore e urlano a voce più alta.

Hurra pobieda!” Il grido, prima vigoroso, perde d’intensità fino a rendere più chiaro un ruggito di motori in sottofondo.

“Sono i nostri Tiger! Gott mit uns!

Alla vista dei carri armati, che procedono allineati per la strada principale sferzando lo schieramento nemico con raffiche di mitragliatrice, i bolscevichi si disperdono come bestie braccate e i tedeschi si avventano su di loro con rinnovato furore.

Richter fa per strisciare via dalla propria postazione, quando a pochi metri di distanza, leggermente più avanti, intravede la figura ormai familiare di Schwerin che sta cercando di tenere a bada un’orda di russi a colpi di pistola, riparato dietro i resti di un muro di mattoni. Uno dei soldati della sua scorta viene colpito da un proiettile e si accascia per terra come un sacco vuoto. Subito dopo, un altro lascia cadere il fucile e si rannicchia contro il muro gemendo di dolore. La neve ai suoi piedi è macchiata di sangue e il maggiore è rimasto solo.

Hermann si rende conto dell’istinto che lo ha guidato fin lì soltanto quando, ginocchia a terra, si accorge di aver sfidato una bordata di proiettili solo per raggiungerlo.

L’altro lo fissa sbalordito. “Richter?” Ha la fronte imperlata di sudore e i suoi occhi azzurri sono un tocco di colore in tutta quella tetraggine.

“Attento!” è la risposta. Richter lo afferra per un braccio e lo trascina in copertura mentre una salva di bossoli tintinna a un palmo dalla sua spalla, poi si sporge appena e spara al russo armato di mitra, che scompare dietro un cumulo di macerie senza un lamento.

“Adesso non c’è più nessuno,” mormora, mentre l’altro abbassa il braccio armato e riprende fiato.

Si abbandonano con la schiena contro il muro, spalla a spalla. Schwerin cerca la sua mano e le loro dita si sfiorano appena, in un muto gesto d’intesa. “Non mi aspettavo di trovarla qui... camerata.”

Hermann si limita a rafforzare la stretta intorno al suo polso, senza dire nulla né voltarsi verso di lui. Non c’entra niente la gratitudine per essere stato salvato da prigionia o morte certa: è qualcos’altro, che lo porta quasi a considerarlo un amico. Insieme hanno vegliato, marciato e sopportato ore di incessanti bombardamenti. Insieme hanno provato stanchezza, fame e paura, ma si sono fatti forza con la reciproca presenza. Si rende conto che non conosce nemmeno il suo nome di battesimo, non sa da dove venga né quale sia la sua storia, ma nella Wehrmacht nulla di questo conta. Sa solo che sotto quell’uniforme c’è un uomo nelle cui mani può tranquillamente riporre la propria vita, e tutto il resto passa in secondo piano.

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