2.3
“Anche stavolta, il conto del macellaio è stato salato,” osserva Richter guardando i teli verdi che celano altrettanti corpi, allineati sul cassone di un camion. La sua figura è un’ombra scura che si staglia contro il tramonto. “Quanti giorni abbiamo combattuto in quel buco? Quattro, cinque? Ho perso il conto.” Volta le spalle alla finestra, schermata da un telo trasparente per proteggere l’interno dagli spifferi, e si versa una tazza di caffè. “L’ultimo dei miei era un ragazzo di diciassette anni, arrivato dalla Germania pochi mesi fa. Aveva passato l’addestramento con ottimi risultati e si sentiva onorato di essere entrato a far parte della divisione Eisenfaust. Camminava coi piedi piagati dal freddo, ma non passava giorno in cui non lo vedessi ridere e scherzare insieme ai suoi camerati.”
Cala un lungo silenzio assorto, dove entrambi sembrano indugiare in qualche ricordo lontano. Schwerin conosce bene la nostalgia, è una sensazione che ormai è entrata a far parte del suo essere. “Muore giovane chi è caro agli dei,” mormora infine, come rivolto a se stesso.
“Dulce et decorum est pro patria mori. Una volta ci credevo anch’io.” Anche Richter sembra aver pronunciato quelle parole tra sé e sé, in tono distaccato, tuttavia Schwerin non può fare a meno di fissare lo sguardo su di lui: la sua espressione è indecifrabile, come se una barriera lo separasse dal resto del mondo, ma nei pozzi gelidi dei suoi occhi sembra ardere qualcosa che gli risulta familiare.
“Siamo nati per morire,” gli fa eco lui. “Ce lo ricordano dal giorno in cui ci siamo arruolati.”
“Ho visto morire centinaia, forse migliaia di uomini. Alleati, nemici, camerati... amici. Eine Kugel kam geflogen: gilt es mir oder gilt es dir? [*]” Richter appoggia la nuca allo stipite divelto e si perde a contemplare una crepa sul soffitto. La visiera del berretto nasconde in parte il suo volto, ma non l’ombra di tristezza che alberga in fondo al suo sguardo. “Il mio Vecchio diceva sempre: o ti abitui alla morte, cerchi di renderti insensibile, oppure impazzisci e ti spari un colpo alla testa. Non c’è una via di mezzo.” Esala un sospiro. “Adesso è morto anche lui.”
Schwerin non risponde subito, ma riflette a lungo sulle sue parole, mentre ricordi dolorosi riaffiorano in superficie.
“Non mi fraintenda, non ho alcuna intenzione di sminuire il sacrificio dei nostri soldati,” continua l’altro, senza farci caso. “Non sono come quegli ufficiali infatuati dei loro gradi e dell’autorità che rappresentano, che amano sfilare in alta uniforme per le strade di città conquistate col sangue altrui. Non sono come quegli ipocriti che mandano a morire frotte di disperati mentre se ne stanno rintanati come talpe nei loro bunker. Amo la mia Patria e darei la vita per essa, se dalla mia morte potesse dipendere un futuro migliore.” Finisce il caffè, posa la tazza sul davanzale. “Adesso, però, sento che la marea si sta rivoltando contro di noi: se dovessimo perdere questa guerra, per noi resteranno soltanto l’infamia e l’oblio della Storia.”
Schwerin, ancora seduto su una cassetta di munizioni rovesciata, si versa una tazza a sua volta. È caffè riscaldato, di pessimo sapore, ma si sforza di inghiottirlo senza una smorfia. “Sa, Richter, una volta ero convinto che avremmo vinto la guerra. Ricordo ancora le marce attraverso le cittadine polacche, coi volti sporchi di fuliggine e gli stivali infangati, ma l’animo lieto. Di ritorno dalle missioni cantavamo Bomben auf Polenland e Wir sind die schwarzen Husaren der Luft. Credevo che niente ci avrebbe potuti piegare – e lo credo ancora: piuttosto ci spezzeremo, pur di non darla vinta ai nostri nemici.”
“La vita è una lotta, ma finché c’è lotta c’è vita,” mormora l’altro, in tono assorto. “Combatti perché devi, perché la legge universale dentro di te ti impone di non gettare le armi.”
Schwerin indugia per un po’ sulla sua figura: ha imparato a fare affidamento su di lui come un pilastro, ma non si è mai accorto di quanto i suoi lineamenti spigolosi siano in realtà armonici e gradevoli. Anche l’altro si sorprende a guardarlo; i loro occhi s’incrociano e si incatenano gli uni agli altri, comunicando l’inesprimibile. Si rende conto che parlare con lui è come vedere riflesso in uno specchio il se stesso di pochi anni prima: un’anima che soffre per le stesse ferite, ma più fresche e più brucianti. È come muoversi in un terreno insidioso, nel quale una sola parola fuori luogo potrebbe scoperchiare un vaso di Pandora di segreti inconfessabili.
È proprio Richter a cambiare discorso, distogliendolo dalle sue riflessioni. “C’è una cosa che non le ho mai chiesto. L’altro giorno... come ha fatto a trovarmi a colpo sicuro in mezzo a quel pandemonio?”
“È stato un caporale a condurmi fin lì. Non si è presentato, ha solo capito chi ero e chi cercavo. Ma se devo essere sincero, avevo già sentito parlare di lei e non è stato difficile riconoscerla.”
Richter si lascia scappare una leggera risata priva di allegria. “Ah, sì? Non pensavo di essere così famoso.”
“Tutti nella Divisione parlano di Smolensk e di come lei, con una compagnia dimezzata...” Vuole essere cortese, ma s’interrompe a metà, rendendosi conto che l’espressione dell’altro si è improvvisamente indurita.
“Davvero una vittoria schiacciante,” replica, a denti stretti. “Ma il merito va tutto al capitano Altendorf.”
Schwerin apre la bocca per dire qualcosa, ma Richter ha già lo sguardo rivolto verso l’uscita. “Adesso, se vuole scusarmi... devo proprio andare.”
Rimane a guardarlo mentre raccoglie il cappotto e lo saluta, asciutto e sbrigativo; poi, quando la porta si chiude, si prende la testa tra le mani ed esala un sospiro.
Non riesce a spiegarsi quello scatto repentino, ma più di tutto fatica a capire che cosa lo attiri verso quell’uomo freddo e distaccato, spingendolo a ricercare la sua compagnia con tanta assiduità.
Fuori nel pomeriggio gelido, Hermann muove qualche passo nel cortile sommerso dalla neve. Gli stivali vi affondano fino al polpaccio e il suo respiro si condensa in nuvolette di vapore che sembrano quasi avere consistenza fisica. Stringe le braccia intorno al petto per proteggersi dal freddo e getta un ultimo sguardo in tralice alla finestra della postazione di comando. Con la coda dell’occhio gli sembra di scorgere l’ombra di Schwerin affacciato; è tentato di tornare da lui, ma quando si volta di nuovo la luce all’interno è spenta.
C’è qualcosa, nelle maniere cortesi del suo parigrado, che lo affascina e lo mette in imbarazzo: non riesce quasi a credere che qualcuno si sia voluto intrattenere con lui di sua sponte e non per obbligo militare.
Si pente subito di quello scatto, ma rivivere ciò che ha visto in quella battaglia è come una pugnalata al cuore. Certe volte si ritrova a pensare che avrebbe preferito morire lui al posto del capitano, ma non può far altro che rassegnarsi al sonno e lasciare che quei ricordi lo perseguitino anche nei peggiori incubi. Non riesce a perdonarsi di non essere arrivato in tempo, di non aver potuto far nulla per lui: ogni volta che ci ripensa, il senso di colpa lo ghermisce come una morsa gelida e gli mozza il respiro.
Da una parte, però, una voce gli suggerisce che ha fatto bene ad andarsene: la solitudine è una benedizione, è la compagnia – per quanto disinteressata – a costituire un’invasione del suo territorio, quella landa desolata e sferzata da venti gelidi su cui nessun altro dovrebbe affacciarsi.
Come può aver pensato, anche solo per un istante, che il maggiore Schwerin possa essere diverso dagli altri?
✠
[*] Giunse fischiando una pallottola; è per me, oppure per te?
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