2.1

Schwerin rivolge un ultimo sguardo ai suoi ufficiali e si lascia guidare dal collega: il maggiore Richter sembra conoscere le trincee meglio di chi le ha scavate e si orienta in quel labirinto come se avesse una mappa stampata nella memoria. Procede sicuro, con passo marziale e portamento eretto, ogni tanto ricambiando i saluti dei capisquadra che spronano le truppe con parole aspre. Ha le spalle di un Atlante e il polso fermo; dà l'idea di essere uno di quegli uomini capaci di ergersi mentre la tempesta sferza ogni cosa.

Vicino a una postazione d'artiglieria campale, ben nascosta dietro un ridotto, un maresciallo sta redarguendo i serventi di un mortaio da trincea.

"Che cosa sta succedendo qui, Baumgartner?" tuona il maggiore.

"Con il dovuto rispetto: giudichi lei, signore. Questi imbecilli..."

Schwerin si mantiene in disparte mentre Richter avanza di qualche passo, con implacabile calma. I soldati, che fino a poco prima vociavano e sembravano sul punto di arrivare alle mani, si separano e si irrigidiscono sull'attenti. Uno di essi china il capo con aria mortificata e si scusa a nome di tutti.

L'ufficiale ordina il riposo con un gesto sommario. "Tornate ai vostri posti. Non una parola di più."

Quelli non se lo lasciano ripetere due volte.

Richter rivolge al collega uno sguardo penetrante, quindi scuote la testa e passa oltre, come se nulla fosse successo. Ancora una volta, Schwerin si limita a seguirlo, il fucile in spalla e gli stivali che affondano nella neve lorda di fango, mentre in lontananza si odono gli echi onnipresenti della battaglia.

Arrivano a una postazione operativa, una specie di pergola fatta di tronchi e paglia che ospita una radio da campo, una macchina da scrivere, delle cassette di munizioni e un tavolino sbilenco su cui è stata spiegata una mappa del fronte. L'unica fonte d'illuminazione è una lampadina dalla luce tremolante.

I due ufficiali si avvicinano e prendono posto ai due lati del tavolo. "Questo è il punto con più alta concentrazione di truppe sovietiche," inizia il maggiore Richter. "Faranno di tutto per ricacciarci al di là del Don, ma noi dobbiamo proseguire l'avanzata."

Schwerin si china a sua volta sulla mappa, sulla quale sono tracciati vari simboli: un guanto d'arme, lì nel punto in cui è concentrato il grosso delle loro forze, simboleggia la divisione Eisenfaust. Gli altri reparti sono indicati da sigle o numeri romani e varie frecce segnano l'avanzata di ciascuno. "Ho parlato con Bühler e Bentheim della Ostpreußen, intendono attaccare i russi da nord mentre questi sono concentrati a respingere le truppe che tentano di oltrepassare il fiume", spiega. "So che anche loro hanno subito pesanti perdite, a combattere la guerra dei topi casa per casa."

L'altro annuisce. "E a sud ci sono i reparti della Großdeutschland, stando agli ultimi rapporti."

"Precisamente."

Con la penna, Richter indica una croce di ferro tracciata sulla mappa, poco più a nord di Stalingrado. "Quindi, se noi cerchiamo di sfondare lo schieramento sovietico con un attacco frontale, possiamo contare sull'appoggio della Ostpreußen."

"Era proprio quello che intendevo. Adesso che siamo qui, ci conviene unire le nostre forze." Schwerin alza la testa con disinvoltura, fino a incontrare gli occhi dell'altro. "Manca poco prima che il gelo blocchi le colonne di rifornimenti: dobbiamo agire al più presto."

Richter rimane a guardarlo per qualche secondo di più, comunicandogli senza bisogno di spiegazioni che anche lui aveva pensato la stessa cosa. Il suo sguardo sembra rischiararsi appena, ma la sua espressione resta seria. Si china di nuovo sulla mappa. "L'obiettivo sono queste fabbriche." Accompagna le sue parole tracciandovi una X. "Quanti effettivi conta il suo reparto, Schwerin?"

"Poco più di quattro centinaia. Quando siamo partiti da Kharkov eravamo due battaglioni."

"Neanche i miei arrivano a cinquecento, ed è tutto ciò che resta di un intero reggimento," risponde l'altro in tono grave. "E i rossi là fuori sono almeno dieci volte tanti."

Se rimaniamo bloccati qui, finiremo come gli Spartani alle Termopili. Mentre Schwerin formula quel pensiero, i loro sguardi s'incrociano di nuovo: molto probabilmente anche Richter ha pensato la stessa cosa – lo coglie dal guizzo metallico che attraversa le sue iridi – ma nessuno dei due osa esternarlo ad alta voce.

Finiscono di elaborare le ultime strategie d'attacco, e quasi si stupiscono della facilità con cui si trovano d'accordo sulla linea da adottare. Probabilmente nessuno dei due arriva ai trenta, ma hanno sulle spalle anni di battaglie campali che hanno forgiato la loro esperienza; si capiscono al volo e altrettanto rapidamente indovinano le intenzioni dell'altro.

Alla fine, Richter scribacchia su un foglietto alcuni appunti e chiama a gran voce il maresciallo Baumgartner, un tipo sulla quarantina col naso rubizzo da bevitore e gli occhi vispi. Gli porge il foglietto e gli ordina di andare a trasmettere le sue disposizioni.

Il sottufficiale vi dà una rapida scorsa, quindi annuisce con vigore. "Sissignore, può contare su di me, signore. Vedrà che quei cani rognosi li rispediremo nel paradiso dei lavoratori a calci nel culo!" Subito dopo si accorge del maggiore Schwerin e fa un passo indietro; le sue guance diventano ancora più rosse. "Chiedo scusa, Herr Major."

Richter gli dà un colpetto sulla spalla. "Conto su di lei, maresciallo. Faccia in fretta!"

Baumgartner prontamente scatta sull'attenti, batte i tacchi e si congeda, mentre i due ufficiali si scambiano un rapido sguardo e scuotono la testa con indulgenza.

Quando escono fuori è buio pesto e i fuochi rischiarano l'oscurità, ma la battaglia continua a infuriare: in quella stagione, a quelle latitudini, il pomeriggio non esiste.

*

Richiamate all'ordine, le truppe corrono avanti e indietro coi fucili in spalla, affondano le ginocchia nella neve mentre i comandanti di plotone sbraitano ordini.

Una volta terminato di dare le proprie istruzioni, il maggiore Schwerin si avvicina alla prima linea dove i soldati lottano con le unghie e coi denti per difendere la postazione duramente conquistata. Fiocchi pigri hanno iniziato a volteggiare nell'aria, sciogliendosi a contatto col terreno bollente. Al di là della terra di nessuno, un ammasso di ruderi riemerge dallo sfondo come un relitto incagliato.

Guidati da quell'ineffabile necessità che unisce in tempo di guerra, i suoi uomini si sono mescolati a quelli di Richter e si comportano come se fossero un unico reparto, sostenendosi l'un l'altro o scontrandosi quando l'egoismo del singolo rischia di causare la rovina del gruppo.

Schwerin ha trascorso gli ultimi due anni della sua vita in prima linea, ma non riesce ancora a dare un nome a quel senso di solidarietà che s'instaura tra i soldati nei momenti di estremo pericolo. È qualcosa che può assumere le sfumature più disparate, dal Landser stanco che poggia il capo sulla spalla del commilitone facendo cozzare gli elmetti come due vecchie gamelle, al vecchio caporale che rimprovera rudemente il ragazzo che piange.

Si chiede se anche il collega abbia esperienza di episodi simili, ma è la presenza di Richter stesso a dargli la risposta: l'ufficiale raccoglie da terra una vanga da trincea e si tuffa nella mischia menando fendenti contro i russi in avvicinamento. Combatte col furore proprio degli antichi guerrieri, anteponendo la sicurezza dei suoi uomini alla propria. Sovrasta in altezza la maggior parte degli elmetti tedeschi, ma la sua figura scompare e ricompare mentre questi si stringono intorno a lui. Lo scontro dura soltanto una manciata di secondi: una recluta urla, le dita strette intorno a una manica inzuppata di sangue; altri soldati corrono a dare manforte al maggiore. Schwerin si avvicina con la pistola in pugno, pronto a fare di nuovo fuoco, ma i russi si sono già arresi.

"Richter!" Tutto bene? vorrebbe chiedergli, tuttavia si trattiene soltanto per non metterlo in imbarazzo davanti ai suoi sottoposti.

L'altro lascia cadere l'arma improvvisata, si volta e annuisce, tamponandosi coi guanti un rivolo scarlatto che gli scende dal sopracciglio. "Qualcuno accompagni il soldato Zimmer al posto di medicazione."

Schwerin si offre volontario, porgendo il proprio braccio al ragazzo affinché vi si appoggi. Mentre si allontana, rivolge un ultimo sguardo al suo parigrado e non può fare a meno di pensare che i suoi uomini siano fortunati a poter contare su un comandante del genere.

L'artiglieria tuona in lontananza, facendo tremare le pareti del rifugio improvvisato. Casse di munizioni rovesciate e addossate contro il muro offrono altrettanti sedili per i soldati stanchi, che parlano a bassa voce o scambiano qualche facezia coi visi affondati nelle gamelle.

Dalla stanza adiacente si levano i lamenti dei feriti e dei malati in agonia, cui nulla può recare conforto.

I portaordini e gli ufficiali vanno e vengono trasmettendo messaggi, i soldati di guardia sono indistinte sagome scure che si aggirano tra le macerie.

Di tanto in tanto balzano in piedi, ridestati da un tuono improvviso. Chi dormiva abbracciato al fucile si trascina con sé le coperte, anche i feriti gravi strisciano e zoppicano per riprendere posizione. Nessuno viene risparmiato dalla furia dei combattimenti.

Schwerin non ricorda più da quanto tempo non dorme, né da quante notti lui e Richter condividono quella specie di magazzino, di cui non resta altro che un cratere dilaniato dalle bombe. Lì, giorno e notte si confondono – l'uno, troppo breve ed effimero per poter essere apprezzato appieno; l'altra interminabile, illuminata a giorno dai razzi di segnalazione e dai bagliori delle esplosioni.

Chiamato dalla voce del suo parigrado, alza la testa appena e se lo trova davanti. Richter tiene in mano due tazzine fumanti, stringendovi intorno le dita come per scaldarsi – o per preservare quel poco calore che rischia di stemperarsi in fretta. Gliene porge una con un gesto cameratesco ed egli la accetta in silenzio.

"Siamo completamente isolati." Richter ha le labbra tirate e gli occhi spenti, fissi in un punto indefinito di fronte a sé. Per un attimo, le sue spalle sembrano incurvarsi sotto un peso insostenibile, ma lui cerca di opporvi tutta la propria forza. "Possiamo contare solo su noi stessi."

Schwerin sospira, tuttavia non osa esprimere ad alta voce i propri pensieri. Rimangono in piedi, uno di fronte all'altro, a sorseggiare il caffè prima che si raffreddi.

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