Recensione - Call Me by Your Name: la vera Grande Bellezza

Per concludere la sua "Trilogia del desiderio", iniziata nel 2009 con Io sono l'amore e proseguita nel 2015 con A Bigger Splash, il regista italiano Luca Guadagnino dirige nel 2017 l'omonimo adattamento cinematografico dell'apprezzatissimo romanzo dello scrittore franco-americano André Aciman, Call Me by Your Name.

Difficile definire il genere di ambo il libro e il film: storia d'amore non sembra andare bene. Certamente l'elemento romantico è presente e occupa una parte non irrilevante, ma l'opera è anche un coming of age, un primo tentativo di approccio con la crudeltà del mondo, un'esplorazione e una scoperta della propria sessualità. Il punto di vista del protagonista, Elio, figlio di un professore universitario che ogni estate invita nella sua casa di campagna il suo studente più meritevole (che in questo caso è il ventiquattrenne Oliver) per aiutarlo nella redazione della tesi di dottorato, è sì una finestra sull'Italia di Craxi e del Pentapartito ma è specialmente un mezzo per indagare e mettere in discussione la propria interiorità, le proprie credenze, i propri pensieri e il proprio, personale modo di vedere e comprendere il mondo.

E in questo quadro già squisitamente variegato si inseriscono sublimi rimandi alla cultura classica e contemporanea, tra l'etimologia della parola albicocca, le seducenti statue di Prassitele, la filosofia di Eraclito e il tranquillo Monet's berm, dove Elio e Oliver si scambiano il loro primo bacio.

Call Me by Your Name parte come un film indipendente, girato in piccole ma suggestive location italiane in poco più di un mese, con un cast internazionale comprendente nuovi e vecchi nomi e una sceneggiatura e una colonna sonora degne di ricevere, al pari dell'attore protagonista e della pellicola in sé, una nomination agli Academy Awards (i Premi Oscar, per il volgo) 2018. Awards dominati, come previsto, da The Shape of Water di Guillermo del Toro, ma che sono comunque valsi a James Ivory – presentatosi tra l'altro con una camicia con il volto di Timothée Chalamet, interprete di Elio, stampato sul davanti – la statuetta per la migliore sceneggiatura non originale. E, in fondo, Chalamet il suo premio l'aveva già vinto: essere il più giovane nominato nella categoria Miglior attore protagonista dagli anni '30 e il terzo più giovane in assoluto.

Tra le altre vittorie, insieme alle numerosissime candidature tra cui tre ai Golden Globes, si contano una seconda vittoria della sceneggiatura ai BAFTA, una terza ai David di Donatello dove ha trionfato anche Mystery of love del compositore Sufjan Stevens come miglior canzone originale, l'inserimento nella lista dei migliori dieci film dell'anno da parte dell'American Film Institute, il premio dell'Hollywood Film Award per il miglior debutto a Timothée Chalamet e il premio per il miglior film dell'anno assegnato durante i GLAAD Media Awards dall'omonima associazione (GLAAD: Gay & Lesbian Alliance Against Defamation).

Come citato in precedenza, Chalamet veste i panni del diciassettenne italiano Elio: con la sua strabiliante performance ha conquistato i cuori della critica e del pubblico. (Nota poco seria: la scena della pesca. Chi mi vuole intendere m'intenda). E la sua spalla Armie Hammer, Oliver nel film, notato da Guadagnino grazie al suo doppio ruolo in The Social Network, non è certo da meno; peraltro, questa è stata la terza volta in cui ha impersonato un personaggio omosessuale.

Omosessualità che, in realtà, nel film non viene mai menzionata: quello tra Elio e Oliver è un amore genuino, puro, immeritevole delle etichette della società convenzionale; prende forma davanti ai nostri occhi con una semplicità e una leggerezza disarmanti, senza quegli artifici narrativi tipici di una storia romantica o delle classiche produzioni hollywoodiane. Elio e Oliver si innamorano l'uno dell'altro come succede nella realtà, lentamente, quasi con esitazione, in maniera a volte anche un po' imbarazzante per i due, entrambi ebrei e abitanti di quegli anni Ottanta che considerano l'omosessualità ancora come una malattia mentale (ricordiamo che è stata disconosciuta come tale solo nel 1994).

Call Me by Your Name è apprezzabile nella sua interezza solo se guardato in lingua originale: è infatti un generoso pout pourri di lingue, dall'inglese all'italiano, dal francese al dialetto lombardo e a un piccolo racconto in tedesco.

Definito da Guadagnino come "non un film gay, ma un film per famiglie", l'opus magnum del regista è di una dolcezza unica e di una poetica ormai difficile da trovare e riconoscere in una pellicola del genere. E per essere stato diretto da un italiano Call Me by Your Name si è guadagnato l'importante appellativo di "vera Grande Bellezza": secondo molti, per l'appunto, sarebbe ben più apprezzabile e meritevole dell'opera che è fruttata a Paolo Sorrentino l'Oscar come Migliore film straniero nel 2014.

Non avendo visto l'effettiva Grande Bellezza non posso sindacare su questo, ma è innegabile che in Call Me by Your Name di bellezza ce ne sia tanta: la bellezza delle campagne del Cremasco, dell'enorme villa in cui vivono i Perlman, della colonna sonora di Sufjan Stevens, della chimica tra gli attori, della timidezza di Elio, dell'esuberanza di Oliver, del discorso finale del padre a Elio, dell'ultima scena in cui Elio, davanti al camino, piange e infine sorride, mentre sulla sinistra dello schermo scorrono i titoli di coda. Ma, soprattutto, la bellezza di essere liberi di amare come si vuole, quando si vuole, e chi si vuole.

Personalmente, ho apprezzato molto di più il film che il libro. Mi capita molto raramente, ma questo è uno di quei pochissimi casi. Il libro giunge a una parte conclusiva in cui non si può fare altro che descrivere a spezzoni il futuro di Elio e Oliver, e se da un lato la cosa è abbastanza triste, dall'altro è anche piuttosto noiosa. Ho anche preferito il piccolo cambio di ambientazione stabilito da Guadagnino in una sezione del film di cui non specifico il contesto per non fare spoiler, perché questo è un altro di quei punti in cui il libro è pesantuccio. Avendo poi visto il "remake" di Suspiria (di Dario Argento, naturalmente) diretto da Guadagnino, ho potuto constatare che il regista sa come raccontare una storia. Per quanto non sia elettrizzata come pensavo che sarei stata all'idea che un sequel a Call Me by Your Name sia in cantiere, ripongo fiducia nelle abilità di Guadagnino, Chalamet (che ormai adoro) ed Hammer e sono sicura che faranno un ottimo lavoro. Nel frattempo mi riguardo a ripetizione la scena del primo bacio e quell'intervista in cui Hammer racconta come Guadagnino abbia lasciato lui e Chalamet a rotolarsi nell'erba sbaciucchiandosi (link per i curiosi nel commento qui a lato →).

E voi? Avete qualcosa da dirmi a proposito? Come vi sono sembrati libro e/o film, se li conoscete?

Alla presto con la prossima Fetecchia! 

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