Fermare il tempo
Venne ad aprire una bambina bruna. Capelli lunghi e sciolti, fisico minuto, un cappello da strega, un enorme naso di plastica butterato e strati e strati di cerone che non riuscivano a nascondere lo splendore degli occhi verdi, né la delicatezza dei tratti.
Aveva in mano un cestino a forma di zucca pieno di dolciumi e l'entusiasmo con cui si era proiettata oltre la porta si spense in uno sguardo deluso; la punta del cappello si afflosciò da un lato, mentre abbozzava un inchino.
«C'è un signore!» urlò.
«Come ti chiami?» le chiese l'uomo, appoggiandosi allo stipite.
«Ru-chan» rispose lei. «Sei qui per i dolcetti? Hai un bambino?» domandò sospettosa, cercando di sbirciare dietro le spalle di lui.
Dall'interno della casa, passi cadenzati di un adulto. Dietro la bambina apparve un uomo alto e imponente, una mano grande si posò sulla spalla sottile di lei e la strinse.
«Questo signore sembra un po' un fantasma» commentò la bambina, dubbiosa, socchiudendo gli occhi per guardarlo meglio. Era proprio bianco come un cencio, magro, scavato, con le occhiaie viola e le labbra pallide pallide. Non si poteva dire che fosse truccato male, ma insomma, non era del tutto convincente. E poi, c'era il fatto che mancava il bambino.
Intanto, intorno a lei, sembrava che il tempo si fosse fermato. C'era ancora un po' di vento, i teru teru bozu ondeggiavano sul portico, ma a parte loro, e lei stessa, tutto il resto era immobile, proprio come se dovesse succedere qualcosa di sinistro, inquietante e molto pauroso. Spostò un po' il peso all'indietro, cercando con la schiena il contatto solido del padre.
«Tooru» disse lui piano, soffiando fuori le sillabe come se le baciasse una a una.
«Sì?» risposero in coro la figlia e lo sconosciuto, che si stupì e poi sorrise.
L'uomo alto sospirò, così piano e così lentamente che riuscì a rimettere in moto tutti gli orologi del mondo.
«Vai dentro Ru-chan» le disse con gentilezza. La bambina obbedì, perché anche se suo padre non alzava mai la voce, si capiva benissimo la differenza fra una richiesta e un ordine.
«Posso mangiare un cioccolatino pa'?» gridò da dentro.
«Uno solo» rispose il padre meccanicamente. «Ne hai già mangiati due. Lo sai che... »
«... gli zuccheri fanno molto male» cantilenò Tooru in un sussurro.
«... gli zuccheri fanno molto male!» completò la bimba tutta allegra, sul sottofondo del rumore dell'incarto stropicciato.
«Tua figlia è bellissima.»
«Identica a sua madre.»
«Tranne gli occhi.»
«Tranne gli occhi» concordò, con una nota sottile di orgoglio paterno.
Tooru sorrise con amarezza. «Perdonami» disse.
«Fai spavento.»
«Suvvia Waka-chan, è Halloween, se c'è un talento che ho è adattarmi alle occasioni.»
L'uomo alto allungò una mano, ma poi lasciò ricadere il braccio e fece un passo indietro, senza aprire bocca.
«Perdonami» ritentò Tooru. «Ma... »
«Ma cosa?»
«Ero ubriaco. Sono ubriaco. Voglio dire, lo sono sempre.»
«Già.» Un monosillabo pronunciato con rancore.
Finora, avevano ostinatamente continuato a non guardarsi negli occhi, lasciandosi bastare i dettagli. La fede d'oro bianco sulla sinistra dell'uno, il tatuaggio cancellato sul polso dell'altro, l'odore dello stesso dopobarba di vent'anni prima, una vecchia maglietta con la scritta stinta Sumeshi, sotto un cardigan slacciato e una larga striscia rossa.
«Perdonami, ma ho bisogno di te» riuscì a dire Tooru.
«Me l'hai già detto più di una volta. Ma sei in ritardo.»
«Ho un pessimo rapporto con il tempo, lo sai.»
Lo sapeva benissimo. Da tutta la vita. Tentare di accordarsi al suo orologio era stata un'impresa sfiancante, dolorosa e vana.
«Erano anni che non... »
«Ho provato a trattenermi.»
«Vuoi entrare?»
«No. Non credo sia il caso.»
«E allora cosa vuoi?»
«Un cioccolatino. Fondente. E dirti che sono tornato.» Tirò fuori dalla tasca un cartoncino spiegazzato con un indirizzo scarabocchiato sopra, lo stesso di un tempo.
L'errore fu alzare lo sguardo.
Era in uno stato pietoso, ma quegli occhi invincibili parlavano ancora le parole di sempre.
Il tempo si fermò di nuovo. Lo fermava lui. E ogni volta faceva male come la prima.Davvero niente male, per uno che era morto da dieci anni.
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