𝗹𝗲𝘁 𝗺𝗲 𝗹𝗼𝘀𝗲 𝘆𝗼𝘂𝗿 𝗺𝗶𝗻𝗱

─── ・ 。゚☆: *.☽ .* :☆゚.───

A contarle, non passano nemmeno ventiquattr'ore prima che nella mia vita si ripresenti l'idea, la persona, l'essenza di Yūji Terushima.

Davvero, nemmeno ventiquattro.

Perché è mattina, le otto e mezzo esatte, quando il mio cellulare squilla, la tendina delle notifiche si abbassa ed eccola lì, la sequela di numeri a simboleggiare un contatto non salvato che mi manda un messaggio, a dirmi che è qui, è tornato, eccolo che si ripresenta con la stessa violenza con cui s'era manifestato la prima volta.

Sorrido tra me e me.

Nemmeno il tempo di elaborarti, Terushima?

Nemmeno due minuti due per cercare di capire che cosa stia succedendo?

Ok che mi fai sentire quella sensazione di aver lasciato la testa a casa, ok che qualcosa in te è tremendamente, inevitabilmente rilassante, ma sono un pur sempre un autosabotatore che pensa troppo, almeno lasciami un barlume di me stesso.

E invece no, invece assolutamente no, invece eccoti a sfondare le linee serrate del mio patetico ordine mentale al grido di...

"Come ti piace il caffè?"

Stringo lo sguardo sul messaggio.

Eh?

Avrà sbagliato contatto.

Non stento a credere che abbia chili di persone salvate sul telefono, a giudicare da come gli piovono addosso numeri di cellulare, quindi avrà sicuramente...

Mi guardo attorno, la luce è ancora un po' pallida sulla strada, le persone sono ammassate nella frenesia di dover correre a lavoro, il negozio è solo a qualche metro da me che attende di essere aperto. Ho il corpo un po' intorpidito dal sonno, ancora, e la luce del sole un po' mi dà fastidio, credo di aver bisogno di sbadigliare.

È che non sono un essere mattutino.

Il negozio apre alle nove e io alle nove devo essere qui, e sono corretto in questo, non tardo mai nemmeno di un minuto, però a dire che mi piaccia non mi spingo.

Quindi...

Tanto vale, se ha sbagliato contatto peggio per lui, non butterò al vento l'occasione di un caffè gratis.

Prendo il telefono in mano, rispondo.

Mi arriva di rimando solo un "arrivo", alzo gli occhi al cielo quasi per nascondere a me stesso che sto anche sorridendo, rimetto il telefono in tasca e ricomincio a camminare.

Di lui non so niente.

Niente, zero.

So...

Quello che ho visto, quello che ho recepito dal suo amico, Futa, e quello che ho senza alcuna vergogna – no, in realtà con moltissima vergogna – scavato su Instagram il secondo stesso che sono arrivato a casa ieri sera.

E messo in fila significa che...

Simpatico. Sicuramente è simpatico, questo l'ho visto, l'ho sentito. C'è anche del carisma, là, quel tanto che basta per interessare qualcuno, in questo caso me. C'è della cultura e c'è tanta politica, perché sono stringente nel giudizio dei libri che le persone leggono e quest'uomo, di tutto quello che poteva lasciarmi, mi ha sbattuto sotto al naso uno dei saggi femministi più importanti del secolo scorso.

Poi c'è l'aspetto, e l'aspetto è quel che è, particolare, assolutamente non sobrio, tanto, tanto attraente. E non m'imbarazza dirlo di qualcosa che c'è fuori, riconosco la bellezza molto più facilmente del coinvolgimento emotivo, quindi sono totalmente onesto nel trovarlo terribilmente bello.

A questo si aggiunge che il ragazzo non è sicuramente timido e non è sicuramente dimesso, la sua voce non trema come fa la mia quando parla con gli sconosciuti, quando ti guarda lo fa negli occhi, tutto nel suo modo di fare comunica sicurezza in se stessi che vira giusto un pochino verso l'arroganza.

Poi c'è quel che ha detto Futa.

Che ovviamente non cambia in me l'opinione che ho di lui, sicuramente non mi permetterei mai di giudicare le scelte che qualcuno fa sulle proprie frequentazioni dentro e fuori la camera da letto, ma che m'intriga, perché qualcosa ho sentito dentro il negozio, ieri, e non riesco a capire cosa fosse.

Ero convinto fosse tensione.

Almeno, per me lo era.

Ma Terushima non par proprio uno che s'intimorisce a dichiarare i propri intenti, quindi se quella fosse stata tensione per quale motivo tutto quello che ha fatto ieri è stato chiedermi il numero?

Forse non era tensione, forse l'ho percepita solo io.

Forse ha un fine che non riesco a capire.

Però non credo sia un secondo fine cattivo, non in quel senso, niente di lui mi è sembrato in alcun modo cattivo, forse solo non coincidente col mio fine, e per questo...

Ma qual è il mio fine, poi?

Io non so quale sia il mio fine.

So che Terushima è bello, so che ho provato delle cose ieri, molte fisiche, qualcosina mentale, so che ho un interesse, sicuramente ce l'ho, ma non so che altro.

Potrei pensarci ancora un po', potrei.

Magari una soluzione salterebbe fuori.

Però...

Non ne sono mai saltate fuori, di soluzioni, in nessuna delle volte che mi sono seppellito sotto alla coltre dei miei ragionamenti astrusi, anzi tutto quello che ne ho ricavato è stata ansia e non voglio che l'ansia c'entri, in questo caso. Ho promesso a me stesso che avrei evitato i drammi e questo comprende anche tutti quelli che mi creo da solo, quindi basta pensarci su.

Lui non ci pensa, si vede che non ci pensa, si vede che fa quel che vuole.

Forse non caverò un ragno dal buco alla fine di tutta questa storia, ma tanto che ci sono, sicuramente posso imparare a vivere con più serenità e a smettere di mettermi i bastoni fra le ruote da solo.

Mi fermo di fronte al negozio, mi chino verso il lucchetto e tiro fuori le chiavi dalla borsa di tela, faccio scattare la serratura e tiro su la saracinesca.

Pian piano il metallo si ritrae e lascia il posto al vetro, e dietro al vetro ai fiori, che mi annoiano qualche volta, quando è pomeriggio inoltrato e la mia mente giovane è costretta a ritmi forzatamente pacati, ma che alla mattina, quando li vedo, un po' mi dicono che contro ogni pronostico, io qui sono felice.

Quando la serranda è completamente su riprendo le chiavi fra le mani, le sfoglio come carte alla ricerca dell'altra, quella della porta d'ingresso, per poter aprire.

L'ho appena trovata, quando la voce dietro di me mi fa trasalire.

– Consegna speciale per Yamaguchi Tadashi, triplo espresso con sciroppo alla vaniglia e latte di riso. –

M'irrigidisco, sento le vertebre una ad una cementificarsi nello spavento di esser stato colto di sorpresa, ma con la stessa rapidità con cui era arrivata, la paura defluisce quando le mie orecchie comprendono di chi sia la voce.

Sento il mio viso rilassarsi, le spalle ammorbidirsi.

– Non avevo detto di volerlo col latte di riso. –

– No, tu no. Ma me l'ha detto il pianeta, ho dovuto per forza ascoltarlo. –

Spingo in avanti la porta ed entro, premurandomi di tenerla aperta per permettere a Terushima, che mi sta dietro, di fare la stessa cosa.

Percepisco il suo corpo vicino al mio, non mi sta toccando ma ho quella sensazione di brivido alla nuca che provo quando qualcuno torreggia sopra di me, è come se ne percepissi l'ombra.

Mi sposto con calma, mi giro a guardarlo solo dopo aver acceso le luci, lo trovo in mezzo al negozio con due tazze di cartone in mano e mi viene spontaneo sorridere, mentre ringrazio e prendo il caffè che a quanto pare non stava scherzando sul volermi portare.

– Mi hai salvato la vita con questo, sappilo. –

– Al suo servizio, messere. –

– Quanto ti devo? –

Stringe le labbra, finge di pensarci.

– Un bel sorriso e un po' del tuo tempo. –

Sento il mio viso scaldarsi.

– Stai cercando di comprarmi? –

– Funziona? –

Mordermi l'interno della bocca non aiuta. Non ce la faccio, a reprimerla, la genuina gioia che m'infonde, e non riesco a reprimere quel velo d'imbarazzo, di emozione. Le mie labbra si distendono, il naso si arrossa, una risata sfiatata, sottile, rotola fuori dalla mia gola.

Annuisco, non me la sento di parlare.

Il suo sguardo si fa soddisfatto, poi forse un po' malizioso, piega il capo.

– Allora sì, stavo cercando di comprarti. E per rispondere alla tua prossima domanda sì, Tadashi, ne vale assolutamente la pena. –

Non stavo per chiederglielo.

Ma sentirlo è...

Me le godo, le sue parole. Le lascio scivolare nella mia testa, assorbire nella mente, nel corpo, me le godo appieno.

E quando lui si sposta per avvicinarsi al bancone del negozio mi sento giusto un po' più leggero di quanto non mi sentissi un attimo fa.

– Allora, il negozio di fiori, eh? Perché di tutti i posti hai scelto proprio questo per lavorare? – chiede, cambiando completamente argomento, mentre apro la porta sul retro bevendo il mio caffè un sorso alla volta.

– Non ho scelto. –

– Non hai scelto? –

Incastro il fermaporta tra il legno e il pavimento, indietreggio verso l'unica finestra, la apro con una mano sola.

– Ho preso quel che ho trovato. Mi sono trovato costretto. –

– E ti piace? –

Afferro l'annaffiatoio da terra, l'ho riempito ieri sera quindi pesa un po', non troppo.

– All'inizio non mi faceva né caldo né freddo. Ora... credo di averci preso un po' gusto. È un lavoro un po' ripetitivo, ma ha qualcosa di pacifico che credo mi faccia bene. –

– Si vede che sei a tuo agio in mezzo ai fiori. –

– Già, mi sono sempre piaciuti. –

Appoggio la tazza di cartone sul bancone, stringo il manico dell'annaffiatoio con entrambe le mani, raggiungo l'ingresso.

Non devo dare l'acqua a tutte le piante.

Solo ad alcune.

Quelle un po' più... delicate.

– Tu perché i tatuaggi di tutte le cose che potevi fare? –

– Perché dopo l'Accademia volevo fare qualcosa che mi facesse stare a contatto con le persone e perché mi sono sempre piaciuti. –

– Hai fatto l'Accademia? –

– Non ci credi? –

Alzo lo sguardo dal terriccio a lui.

– Ci credo, ci credo. –

C'è qualcosa di strano nel pensiero di quest'uomo a studiare all'Accademia di Belle Arti. Tanto strano che poi ha senso, perché in effetti, ci starebbe proprio bene dentro, perché è un ambiente che a lui si confà almeno tanto quanto non gli si confà.

– Tu studi? –

– Studiavo. Ho preso un anno sabbatico a settembre. –

– Cosa? –

– Letteratura. –

Vedo le sue sopracciglia sollevarsi, gli occhi scintillare d'interesse.

– Oh. Ti piace leggere? –

– Leggere e criticare quel che leggo. Forse più la seconda della prima. Molte volte mi capita di leggere le cose solo per poterle criticare. –

– Sei adorabile nella vita reale e stronzo coi libri, allora. –

Rido piano.

– Ti assicuro che qualche volta sono stronzo anche nella vita reale. –

Lascio che le ultime gocce cadano sul vaso degli anemoni, tiro su l'annaffiatoio, mi dirigo verso il retro per metterlo a posto.

Quando gli passo vicino, Terushima segue il mio viso col suo, gira il suo corpo in favore del mio. Si ferma quando io mi fermo, e lo fa rivolto a me, con gli occhi nei miei.

– Qual è il tuo scrittore preferito? –

– Il tuo? –

Stringe lo sguardo, lo imito.

Che questa è una domanda da cento punti, può elevare una persona esattamente quanto può distruggerla.

– Virginia Woolf e Simone de Beauvoir. –

– Steinbeck. E forse Sartre. –

Impasta le labbra fra loro, gli angoli che pregano di tirarsi su, l'espressione divertita.

– Ma come siamo radicali, ragazzo dei fiori. –

– Dice quello coi gusti da femminista in rivolta. –

– Io sono un femminista in rivolta. –

– E forse io sono un po' radicale. –

Si sposta.

Dal bancone su cui era appoggiato, si sposta, facendo leva sulla schiena. Lo vedo mettersi in piedi, avvicinarsi a me, tanto da essere probabilmente oltre quella che definirei una distanza di cortesia.

– Lo sai che prima o poi scoprirò il tuo trucco, vero? –

– Non ho la minima idea di cosa tu stia parlando. –

Devo tirare un po' indietro il collo per guardarlo.

Stringo le braccia al petto in un riflesso istintivo di difendermi, di proteggermi, ma non indietreggio, non distolgo lo sguardo.

– No? Nessuna ipotesi? Nessun suggerimento su quale magia tu mi abbia fatto vendendomi i tuoi fiori? –

– Non credo nella magia. –

– Nemmeno io, ma eccomi qui, ieri non avevo idea di chi fossi e oggi vorrei non dovermene andare per nessun motivo al mondo. –

Fatico a non chinare lo sguardo.

C'è qualcosa di intenso qui, che ci separa, qualcosa che mi rende complicato respirare, che mi atterra sul petto come un mattone.

Però non cedo.

Non saprei dire perché, ma non cedo.

– Se prometti che stai zitto e buono mentre parlo coi clienti per me puoi anche rimanere. –

– E chi li fa i tatuaggi alle persone che hanno prenotato oggi? –

– Questo non è affatto un mio problema. –

Ridacchia.

Annuisce piano, tira su un braccio, delicato e appena percettibile mi aggiusta una ciocca di capelli dietro l'orecchio.

– Io e te andremo molto d'accordo, Tadashi. Non lo pensi anche tu? –

– Penso che potremmo essere ottimi amici, sì. –

– Amici? –

– Hai altre opzioni in mente? –

– Un paio. –

Chino lo sguardo per un attimo solo.

– Esponile. –

– Sarebbe prematuro. –

– Pensavo fossi un tipo diretto. Non era ieri che dicevi di preferire chi ha le... "palle di dire quello che pensa"? –

I suoi occhi si aprono un po' di più, credo sia il massimo d'influenza che possa subire da qualcuno, coi nervi saldi che pare avere oserei dire che quasi ci rimane un po' scioccato, a sentirmi dire queste parole.

Però poi sorride.

Sorride ed è un sorriso grosso, ampio, luminoso, un sorriso strafottente che sembra urlarti quanto è soddisfatto, quanto è felice, quanto sente di aver vinto una gara che non so se stiamo effettivamente intrattenendo qui.

– Per ora "amici" va bene. –

– Per ora? –

– Poi vediamo. Magari non siamo proprio compatibili. Magari non andiamo d'accordo. Magari... –

Lascia la frase a metà.

Non dice niente, dopo quel "magari".

Ma io lo so che cosa voleva dire, e lui sa che lo so, e ci guardiamo per un attimo sapendolo vicendevolmente e scegliendo di far finta che non sia così.

Ok, amici.

Ho una risposta per il mio cervello folle che si fa troppe domande.

È una risposta che mi lascia il retrogusto dell'illusione, una risposta di cui non mi fido, una risposta un po' fumosa, ma è una risposta e decido per ora di impormela, per darmi pace, per avere un motivo.

Alzo gli occhi sui suoi.

Lui li abbassa sui miei.

Mi piace il colore che hanno. Sono castani ma c'è qualche pagliuzza dorata incastonata sull'iride, che riflette la luce. Ha le ciglia lunghe, l'immagine di un pugnale tatuato sul viso, proprio a fianco dell'orecchio, l'argento dei piercing che scintilla, sotto la lampadina elettrica sopra di noi.

Vorrei sciogliere le braccia che tengo di fronte al petto.

Vorrei guardarti più da vicino.

Vorrei fissare gli occhi sulle linee frastagliate disegnate sul tuo collo, sul nero costellato da occhi che riempie la tua mano, sulle lettere che spuntano dalla tua maglietta.

Vorrei...

La tensione cade in pezzi al rumore dello scacciapensieri attaccato alla porta, a comunicare che qualcuno è entrato, che qualcuno è qui con noi.

Io mi risveglio dal mio torpore, così fa Terushima.

La mia mente inizia a slittare da qualsiasi modalità abbia installato ora a quella del lavoro, il mio viso cambia espressione, il mio corpo cambia linguaggio, mi rimane solo un secondo prima di dover assumere le fattezze di quel che devo effettivamente fare.

Lo uso per guardarlo, quel secondo.

E per dirgli, a voce bassa, sussurrando, un "ora vai, dopo passo a salutarti", perché abbiamo deciso di diventare amici, perché gli amici si vedono spesso, perché il cuore mi batte all'impazzata nel petto alla sola idea di poter passare con lui un altro po' del mio tempo.

Nelle successive due settimane, il caffè diventa di rito e di rito diventa il tè verde, super naturale, super concentrato, super magico di Futa alla mia ora di chiusura, seduto sul divano della loro stanza sul retro, circondato da persone che poco fa non conoscevo ma che ora non rimpiazzerei con niente al mondo.

Il tempo pare scorrere in un verso tutto suo, nei giorni che passano, non è più secondi, ore, giorni, è stare con loro e stare da solo. È passare il mio tempo al telefono a rispondere a messaggi sagaci e non tanto amichevoli quanto allusivi, cercare di annaffiare le piante mentre Terushima mi tempesta di domande su di me, guardare Futa agitarmi l'incenso addosso, guardare i disegni di Bob appesi alle pareti.

È avere degli amici.

Una cosa che non mi aspettavo di fare, ma che è successa, che mi piace.

Anche se non tutti gli amici sono uguali.

Anche se la uso come scusa per calmare la mia testa.

Anche se so che c'è qualcosa sotto.

Di Terushima ho imparato nuove cose, in queste due settimane.

Ho imparato che sul braccio sinistro ha tatuato un insetto, una specie di millepiedi, che mi farebbe schifissimo nella vita reale ma che sulla sua pelle sta bene, e che negli spazi vuoti c'è una cascata di occhi, scuri, ammassati, quasi inquietanti, che sfumano verso le dita.

Ho imparato che mette gli occhiali quando disegna, e che quello è anche probabilmente l'unico momento della giornata in cui sta zitto.

Ho imparato che Futa non scherzava, quando l'ha definito un malato di sesso, perché ogni giorno ha segni nuovi sul corpo, ogni giorno dorme con una persona diversa, ogni giorno ha nuove storie pazze da raccontare che mi divertono, lo fanno sul serio.

La prima volta che mi sono reso conto che ci fosse un succhiotto, sulla sua spalla, coperto dall'inchiostro, mi sono chiesto se provassi gelosia, se provassi invidia, se provassi qualcosa verso quel segnetto scuro sulla sua pelle.

Ancora non mi sono dato una risposta.

Non sono nessuno per pretendere che lui non abbia questo tipo di frequentazioni e ovviamente, ovviamente non lo giudico, però c'è una parte di me, una un po' più petulante, un po' più fastidiosa, che si lagna, ogni volta che lo vede.

È anche la stessa che poi gongola come un'idiota quando la mattina, invece di rimanere con chiunque abbia trascorso la notte con lui, lo trovo seduto sul marciapiede di fronte al negozio dove lavoro col caffè ad aspettarmi.

È che... ok, siamo amici, sulla carta, e fra noi non c'è niente di niente di niente. Però...

Diciamo che sempre quella parte di me vorrebbe che qualcosa ci fosse.

E che è per questo che lei è l'unica a non mettersi l'anima in pace.

Ma tutto il resto lo fa.

Quindi la pesto giù, faccio finta di niente, ascolto quel che dice e rido senza darci troppo peso, perché siamo amici, abbiamo deciso di essere amici, la tensione sessuale percepibile non è segno di niente di strano che aleggia nell'aria e che nessuno dei due vuole tirare fuori.

Poi, se le cose cambieranno, lo farà anche il mio atteggiamento.

Per ora, giusto così.

Per ora...

Ad estirparmi fuori dai miei pensieri è la scena che mi si para di fronte nel momento in cui apro la porta dello studio dove lavora Terushima.

Mi ripesca dalla mia mente, mi sciacqua via le idee e mi butta là, nel mondo reale, con la sola immagine di...

Futa esasperato.

Una ragazza che mi dà spalle aggrappata al bancone.

Il suono di voci che parlano netto e distinto nell'aria.

– Tesoro, detesto dover essere insistente ma sono due giorni che te lo dico. Ti prego, smetti di presentarti qui e vattene a casa tua. –

– Ma un minuto, uno solo, non puoi chiamarlo e... –

– Lui non vuole vederti. Non ho la minima intenzione di alzarmi e andare a disturbare il mio migliore amico che lavora perché tu non sai rispettare i limiti di una persona. –

– Ma non voglio dargli fastidio, voglio solo che mi dica qualcosa, non mi risponde al telefono e non riesco a capire come mai e voglio solo una risposta a... –

– Te l'ha data ieri. Ieri ti ha parlato, e so per certo che ti ha dato una risposta. Ora smetti di venire qui, per favore. –

– Sì, ma non è che può fare lo stronzo e fare sesso con me e poi rifiutarsi di vedermi, non è affatto giu... –

– Lui non fa lo stronzo, e so per certo anche questo. So che ti ha detto quali fossero le sue intenzioni prima di fare qualsiasi cosa abbia fatto con te, e so che se tu hai acconsentito questo ti rende responsabile di quello che è successo dopo. Quindi te lo ripeto per l'ultima volta, ti prego smettila di venire qui. –

Sbatto le palpebre.

Ho capito bene?

Oh, mi sa che ho capito bene.

Mi sa che qualcuno qui sta cercando la stessa persona che cerco io.

– L'ultima volta. Fammi parlare con lui un'ultima... –

– Ciao Futa! Scusa se t'interrompo, sai per caso dov'è Yūji? –

Futa mi nota.

La ragazza, mi nota.

E io mi rendo conto di essere una merda, quando mi rivolgono la loro attenzione, perché so benissimo cosa sto facendo, ma non posso fare a meno di farlo e di sentirmici pure bene.

L'ho detto, no, che c'è una parte di me che gongola quando vengo trattato con un occhio di riguardo? Ecco, è esattamente questa la parte di cui stiamo parlando ora. Quella che gongola. Quella che da una parte vorrebbe sapere perché lei è stata a letto con lui e io no, e dall'altra si risponde che comunque, alla fine della fiera, dei due ad avere la sua attenzione sono io.

Eppure l'ho detto che sono un po' stronzo anche nella vita reale.

Non è che non l'abbia...

La luce negli occhi di Futa urla "ho capito cosa stai facendo".

E la luce negli occhi di Futa urla "questa è la mia stronza", l'attimo dopo, quando sorride e indica la porta.

– Sul retro. Muoviti che ti aspetta. –

Percorro la distanza con calma, lo spazio che mi separa dalla porta via via più breve.

– Oh, ok, vado subito. Tu come stai, tutto bene? –

– Sì, prima che... – indica di fronte a sé la ragazza che rimane ancora aggrappata al bancone.

Annuisco, sospiro per lui.

– Domani ti porto dei fiori. Sei un santo e nessuno lo vuole ammettere qui dentro. –

Respira rumorosamente.

– Lo sono. –

Gli rivolgo un sorriso, prima di passare oltre.

Mi giro solo un secondo, prima di entrare effettivamente sul retro, uno per curiosità, perché... la voglio vedere, com'è fatta, sono incuriosito.

Ah.

Questo è inaspettato.

Questo è davvero inaspettato.

Ha la faccia piena di lentiggini.

Le sorrido.

Lei apre la bocca per dire qualcosa.

Sento il suo "e lui ora chi diavolo è" attraverso la porta, chiusa alle mie spalle, mentre continuo a camminare lungo il corridoio che mi si para di fronte.

Il retro del loro studio è organizzato in quattro stanze diverse.

Ci sono le due stanze coi lettini, quella di Terushima e quella di Bob – ho scoperto dopo che Futa non è tatuatore ma è si occupa dell'organizzazione di tutto –, poi c'è il bagno e la sala comune, che è quella dove sono diretto adesso, quella dove vado di solito.

Non so se il proposito originale fosse quello di renderla un ufficio o una sorta di salotto, so solo che convivono là dentro una marea di cose diverse, dai divani – super comodi, davvero, super comodi – a qualsiasi materiale da disegno uno possa immaginare alla TV, pile di libri lasciate agli angoli della camera, un frigo che non c'entra niente col resto, l'altare coi cristalli di Futa, dove è sempre acceso un incenso.

È un posto che mi piace, la loro sala comune.

È incasinata, caotica come caotici sono loro, però fra il profumo del legno che brucia e il rumore delle loro voci ha assunto per me l'aspetto di un luogo dove sentirmi a mio agio.

Quando entro sento le mie spalle sciogliersi di riflesso, il viso rilassarsi e quella piacevole, tiepida sensazione di star bene salirmi su dalle gambe.

Mi guardo attorno pacatamente, alla ricerca delle persone che mi aspetto di trovare qui dentro.

Bob non c'è. Non so se sia andato a casa prima o se stia finendo un appuntamento.

Terushima è seduto sul divano, gambe aperte, testa indietro sullo schienale, occhi chiusi, una sigaretta fra le labbra e la maglietta tirata su dalla noncuranza del gesto a mostrare giusto una striscia di pelle tatuata.

Lo guardo un secondo, prima di parlare.

Miseria, è proprio, proprio bello.

– Ce l'hai una sigaretta? –

Non si spaventa, credo mi avesse sentito arrivare, tiene gli occhi chiusi. Lo vedo muovere una mano accanto a sé, alzarla l'attimo dopo dalla mia parte.

– A te. –

– Grazie. –

Mi avvicino, ne pesco una dal pacchetto, appoggio le mani sullo schienale e aspetto che apra gli occhi. Lo fa, mi guarda al contrario, dal basso, sorride quel suo sorriso un po' strafottente, muove di nuovo il braccio per offrirmi l'accendino, questa volta, la fiamma dritta di fronte ai miei occhi.

Mantengo il contatto visivo quando mi chino per accenderla.

Lui lo fa di rimando.

Parla mentre la prima nuvoletta di fumo vola fuori dalle mie labbra.

– Non sapevo che ti piacesse chiamarmi per nome, Tadashi. – dice.

Merda, deve aver sentito cosa ho detto a Futa.

E io che credevo non potesse sapere che cosa avevo detto.

Tanto vale.

– Non sapevo ti piacessero le persone con le lentiggini. –

Zittisce un secondo. Giusto il tempo di lasciar defluire un grammo di malizia dalle iridi scure.

– Touché. –

Stringo il filtro fra le labbra, sento il retro della gola bruciarmi appena, tiro piano.

– Finito di lavorare adesso? –

– Dieci minuti fa. Sono distrutto. –

– Idem. È stata una giornata infinita. –

Lascia scivolare una mano verso il mio polso ancora appoggiato allo schienale del divano, stringe le dita attorno alla mia pelle, le muove delicatamente come se nemmeno mi stesse accarezzando, solo sfiorando per sapere che ci sono.

– Vieni qui? –

– Qui dove? –

– Seduto vicino a me. –

Stringo lo sguardo, arriccio le labbra.

– Quali sono le tue intenzioni, Terushima? –

– Yūji. –

– Yūji. – ripeto.

Sorride a sentirselo dire, poi alza le spalle, scuote la testa.

– Voglio farti vedere una cosa. –

Sento una delle mie sopracciglia alzarsi pericolosamente, la sua voce sfiatare in una risata stanca, divertita.

– Una cosa seria, non una cosa schifosa. –

– Ok, allora. –

Circumnavigo il divano col polso sempre stretto fra le sue dita, butto via la cenere prima di sedermi, affondo nel tessuto al suo fianco quasi trascinato verso di lui.

Le nostre spalle si sfiorano, così le ginocchia, la mano che stringe su di me è più sul mio corpo che sul suo, in più punti collidiamo uno accanto all'altro.

– Comodo? –

Annuisco, lui mi imita, poi si china verso il tavolino di fronte a noi.

Prende l'iPad appoggiato sulla superficie di vetro, con una sola mano libera toglie la copertina, lo accende, inserisce la password.

L'ho visto disegnarci sopra più di una volta. È più frequente che lo faccia su carta, a suo dire preferisce in quel modo, però poi gli stencil li sistema in digitale, a quanto ho capito. In ogni caso se l'iPad lo mostra con tranquillità a tutti, quella mattonella di fogli che si porta dietro ogni giorno tutta piena di disegni fitti fitti non credo la mostri a nessuno.

– Hai fatto un disegno che vuoi farmi vedere? – chiedo, incuriosito, mentre scorre le app per trovare quella giusta.

– Ho fatto un disegno per te. –

– Per me? –

Fa "sì" con la testa.

Prende un tiro, prima di aprire l'applicazione, espira mentre scorre fra i disegni, quando il fumo si dirada il disegno è lì.

È...

– Sarebbe per la schiena. La parte bassa. – slega le dita dal mio polso le infila fra il divano e me, le appoggia sulla mia pelle coperta dalla maglietta, preme sul punto che intende. – Credo ti starebbe benissimo. –

Lo guardo con gli occhi grandi e interessati.

È...

Bellissimo.

Ha una forma che ricorda quella di un triangolo rovesciato ed è una composizione di fiori disegnati tutti nei minimi dettagli, con bordi sottili e confini netti, ogni petalo perfettamente incastrato con gli altri in uno schema arioso, delicato, quasi dolce.

– Wow, ma è... –

La mia stessa voce è emozionata, la sento che un po' trema.

– Ho scelto dei fiori che secondo stanno bene con te. È per quello che è un po' che ti chiedo di dirmene i significati. –

La scena di lui che mi chiede insistentemente di spiegargli ogni pianta e cosa significhi nel linguaggio dei fiori mi balena di fronte agli occhi, sento le mie labbra tendersi, gli occhi quasi scintillare.

Indica il disegno.

– Ho messo i girasoli per primi perché secondo me tu sei un girasole. Non so spiegarti come, ma tu sei... un girasole. –

Girasole per la solarità.

– Poi le dalie, le calle, gli iris. –

Le dalie per l'eleganza, le calle per la bellezza, gli iris per la speranza.

– E poi ci ho messo anche i garofani. –

– Di che colore? –

Il disegno è in bianco e nero, s'intravedono i petali, il disegno.

Ma il garofano cambia significato a seconda del colore e non posso fare a meno di chiedermi se...

– Rosso. –

Il mio naso si scalda.

Distolgo lo sguardo e prendo un paio di tiri.

Garofano rosso per la passione. Garofano rosso che è il fiore che più di ogni altri significa... sesso.

Passa qualche istante di silenzio.

Poi prendo fiato.

– Sono bellissimi, Yūji, sono belli per davvero. Grazie di averli disegnati per me. Sono... –

– Posso tatuarteli? –

Sbatto le palpebre.

– Vuoi... –

– Sono giorni che ci penso, sai. Dal giorno in cui Futa me l'ha fatto notare, tipo... la settimana scorsa. La tua pelle è meravigliosa e ci vuole qualcosa di particolare per fare in modo che non venga coperta troppo. –

Vedo il modo in cui mi osserva il viso, le mani, il collo. È interessato, forse sotto un certo punto di vista persino devoto.

– Ho pensato che un disegno del genere, con le linee sottili e senza troppe campiture sarebbe stato perfetto. Ci ho lavorato un po' e... non sto dicendo che devi volertelo tatuare per forza, miseria, poi non è che se ne va via, però credo che se volessi sarebbe... –

– Ok. –

Eh?

Ho appena detto ok?

Ho appena detto...

– Davvero? –

– Davvero. –

Mi sa che ho appena detto ok.

Ma...

Non ci ho pensato per niente e forse è un'idea di merda e forse mi pentirò e forse non voglio e forse...

– Quando? –

– Quando vuoi. –

E forse il disegno è bellissimo, i fiori lo sono, il significato lo è, forse sto facendo una stronzata, forse non m'interessa perché ora mi sembra la cosa giusta da fare, e voglio un po' seguire questo lato di me.

– Ora? –

– Ora sei stanco morto e devi andare a casa a riposarti. –

– Non sei mia madre, Tadashi. –

– No, ma non voglio un tatuaggio tutto storto perché non hai abbastanza ore di sonno in corpo. –

Stringe le labbra, annuisce.

– Se non vuoi che te lo faccia la sera facciamo nel fine settimana, domenica, così siamo liberi tutti e due. –

– Hai davvero voglia di venire qui la domenica solo per fare un tatuaggio a me? –

– Certo che mi va. –

Rispondo al suo sorriso imitandolo, i nostri corpi forse ora sono ancora più vicini di quanto non fossero un secondo fa.

– Ok, allora andata per domenica. E sappi che se non mi fai pagare ti porterò fiori gratis per due settimane. –

– Mi piacciono i fiori. –

– Guarda che lo faccio davvero. –

Porta alla bocca la sigaretta ridotta a poco più di un mozzicone. Tira, la cenere si accende, sorride mentre lo fa.

– Lo so. E so anche che lavorerei dieci volte meglio in questo posto se fosse pieno di cose che mi ricordano te. –

Chiudo gli occhi, lascio andare la mia testa indietro sullo schienale, il rosa dell'imbarazzo mi tinge le guance.

– Ruffiano. –

– Solo per te. –

Sì, c'è una parte di me che si infastidisce quando lui viene da me coi segni che gli hanno fatto altre persone. C'è una parte che ha paura, sotto sotto, che mi veda come vede gli altri, come la ragazza che era esclusivamente una notte e via che ancora insiste per poter venire qui.

Però quella parte non è sempre una spina nel fianco.

Quando si ritiene appagata, spande in me un'emozione leggera e piacevole.

Ed è appagata, ora, mentre parlo di tutto e di niente con lui, spalla contro spalla, consapevole che forse no, non mi vede come vede gli altri, forse a lui piaccio giusto un briciolino di più.

Passa un altro paio di giorni, prima che mi ritrovi a fare un'altra di quelle cose che il me prima di incontrarlo non avrebbe mai fatto.

Sono seduto a gambe incrociate sul mio letto, ho i capelli umidi dalla doccia, addosso una di quelle vecchie felpe del liceo che ho detto a tutti non m'interessava comprare ma alla quale sono ancora stranamente legato, la fatica dell'aver lavorato tutto il giorno mi pesa sul corpo, ma non in modo negativo, oggi, ma in quel modo positivo dell'aver fatto qualcosa di utile.

Fisso lo schermo del cellulare, il contatto accampato là sullo schermo, la mia testa in subbuglio.

Io detesto le telefonate.

Mi mettono ansia.

Scrivere e ricevere messaggi, quello va benissimo. Gli audio mi intimoriscono un po', ma solo se me li manda qualcuno con cui non sono in confidenza. Rispondere alle storie, mettere like, qualsiasi cosa mi è confortevole, perché è esprimere la mia opinione senza dover necessariamente vedere o percepire la reazione del mio interlocutore.

Le telefonate, invece...

Mai piaciute.

Che siano ad un parente, ad un amico, persino per ordinare la pizza, le telefonate io le detesto, e mai mi sarei aspettato di scegliere arbitrariamente di farne una.

Ed eppure, eccomi qui.

Deve avermi spostato qualche rotella nel cervello.

Non so spiegarmelo nemmeno io.

Premo il dito sull'icona della cornetta, tiro su il cellulare, lo appoggio all'orecchio.

È che non c'era, oggi, allo studio, quando sono passato a bere il tè. Futa mi ha detto che era andato a casa prima, che aveva avuto una giornataccia, e che sicuramente l'avrei rivisto domani, allegro come prima, passato oltre qualsiasi cosa gli fosse successa.

Non voglio intromettermi.

Voglio solo sentire come sta.

E in ogni caso, se non avesse voglia di sentirmi, gli basterebbe ignorare la mia sconvolgente telefonata e lasciar perdere, per cui mi prendo solo per metà la responsabilità di star facendo un passo dalla sua parte.

Sento gli squilli rotolare uno dopo l'altro.

Forse anche questo, odio, delle telefonate.

Non sapere se l'altro ti risponderà.

Stare qui in croce in attesa del tuo destino.

Chissà cosa vorrà fare.

Magari ha qualcuno a casa. Magari non è a casa sua. Magari è fuori, a fare festa, o a vedere un film al cinema, magari dorme, magari sta cenando, magari...

Magari...

– Tadashi? –

Il sollievo si spande dentro di me come se esplodesse dall'interno.

Rilasso muscoli che non ricordavo di aver contratto.

– Ciao, Yūji. Scusa se ti disturbo, Futa mi ha detto che hai avuto una brutta giornata oggi a lavoro e volevo solo sentire come stessi. – dico, la voce tesa, ansiosa, a ripetere una frase che ho pensato e ripensato prima di anche solo sedermi sul letto col telefono di fronte agli occhi.

– Vuoi sentire come sto? –

Sembra... sorpreso.

Perché è sorpreso?

Pensa che a me non interessi sapere...

No, questa è una congettura da autosabotatore. Forse semplicemente non si aspettava di sentirmi. Non posso trarre subito conclusioni affrettate.

– Sì. Se stai bene, ecco. –

– Eri preoccupato? –

– Oddio, se consideri che in quasi un mese che ti conosco non ti ho mai visto di cattivo umore manco per sbaglio, direi di sì, un po' lo sono. –

Non risponde.

Per qualche istante lo sento solo respirare.

Ha... il fiato corto?

Miseria, non è che l'ho interrotto mentre...

– Mi dai un secondo, Tadashi? Un attimo. Arrivo subito. –

Le mie sopracciglia si aggrottano da sole.

– Guarda che se stai facendo qualcosa posso anche richiamarti do... –

– No, no, no, assolutamente no. Un secondo e arrivo. –

– Oh, allora... ok. Fai con calma. –

Mi pare di percepire un rumore netto, oltre la cornetta, come se avesse appoggiato il cellulare da qualche parte.

Poi, pensando che probabilmente non dovrei ascoltare e che questa conversazione sicuramente non è destinata a me, sento delle voci che assolutamente non mi concentro per distinguere.

– Mi dispiace, davvero, lo so che sembrerò uno stronzo e giuro che non voglio ferirti, ma è successa un imprevisto e per adesso devo stare al telefono. –

– È successo qualcosa di grave? –

– No, è che... devo stare al telefono. –

L'altra voce è di una ragazza.

Oh, merda, l'ho davvero interrotto.

Sento il sangue salirmi alla faccia e ringrazio il cielo che questa sia una telefonata e non una videochiamata.

Ma se stava... allora perché diavolo ha risposto?

– Posso aspettare, se vuoi, non è un problema. Finisci quel che devi fare e poi ricominciamo. – sento dire di nuovo dalla voce femminile, mentre percepisco come un piccolo nodo stringersi nel mio stomaco.

– No, preferisco di no. Davvero, mi dispiace che sia andata così e ti assicuro che l'avessi saputo prima non avrei sprecato il tuo tempo, però al momento non posso fare altro. –

La ragazza non risponde.

Sento solo un mezzo sospiro.

Quando riparla sembra rassegnata.

– Mi stai buttando fuori da casa tua? –

– Nel modo più educato possibile, sì. –

– Per parlare con qualcuno al telefono? –

– Esatto. –

Sospira di nuovo.

– Passami i pantaloni. –

– Eccoli. –

Per qualche istante mi raggiunge solo il rumore di vestiti che si strofinano sul altri vestiti, immagino che lei si rivesta, ma non lo posso sapere.

So solo che la mia faccia è viola.

E che nonostante questo non mi passa nemmeno per l'anticamera del cervello l'idea di smettere di origliare una conversazione privata.

– Non mi ricordavo che fossi così sottone, Terushima. – commenta poi lei, ridacchiando un po', con nessuna traccia di offesa nella voce, solo un po' di esasperazione.

– Non sono sottone. –

– Sì che lo sei. Non credevo che esistesse al mondo una ragazza in grado di farti smettere di fare le cosacce per parlare al telefono. –

– È un ragazzo. –

– Sì, quel che è, hai capito. –

– È che... –

S'interrompe a metà.

Come se non sapesse neppure lui spiegare che cosa effettivamente sia... questo.

– Che il karma ti sta tirando un bel calcio nel culo e per una volta nella vita non sei tu quello che fa sbavare ma sei quello che sbava. Era ora, per Dio. –

– Io non sono quello che sba... –

– Sì, come dici tu. Ora vado, tu torna pure al telefono, se mi cerchi sai dove trovarmi. Alla prossima, Terushima. –

– Ciao. – risponde lui, senza aggiungere altro.

Per un po' non succede niente.

Io rimango zitto, lui rimane zitto, sento qualche rumore arrivarmi dall'altro capo della telefonata ma non ci faccio caso, i pensieri mi si impilano nella testa uno sopra l'altro.

Lei ha detto che...

Ma no, è solo perché voleva prenderlo in giro, non lo pensava davvero.

Però è vero che lui abbia interrotto la sua... serata per parlare con me.

Sì, ma l'ha fatto per gentilezza, forse perché non aveva voglia di farlo stasera.

Non ha senso che io mi fidi delle parole di una sconosciuta che...

Però...

– Rieccomi. Scusa, c'è voluto un po' più del previsto. Sei ancora là, Tadashi? –

– Sono qui, sì. –

– Oh, menomale. –

Ha la voce un po' pensierosa, non saprei come descrivere in che modo io lo percepisca ma lo so, lo sento. Ha il tono più dimesso del solito, più tranquillo.

Lo sento prendere fiato.

– Ora possiamo parlare. Se ti va ancora di... –

– Mi va, mi va. Ma davvero, te lo ripeto, se vuoi posso anche richiamarti dopo. –

– No, ora. Ho risolto, ora ci sono. –

– Sì, ma... –

Una risata sottile arriva alle mie orecchie.

– Ma mi sono dimenticato di mettere il muto, hai sentito tutto e ora ti stai chiedendo per quale motivo mai io sia qui a rispondere a te invece che continuare a fare quello che stavo facendo prima. –

La mia faccia diventa ancora più calda, ancora più rossa, l'imbarazzo è tale che potrei morirci dentro, ma mi costringo a rispondere.

– Esatto. –

Ride di nuovo, questa volta un po' più forte.

– Credo solo che in questo momento mi vada tanto di parlarti, solo questo. –

– E ti va così tanto da... –

– A quanto pare sì. Forse la ragazza non aveva tutti i torti. –

– Sul fatto che sei un sottone? –

– Sul fatto che sbavo. –

Il nodo che si è stretto e stretto e stretto ancora nella mia pancia si stringe un'altra volta. Poi frizza, si libera e si scioglie, scalcia e svolazza, prendendo la forma di...

Farfalle nel mio stomaco.

Mi mordo l'interno delle guance per non emettere nessun rumore, mi lascio cadere indietro sul letto e sento le mie emozioni sfavillarmi dentro, saltare da una parte all'altra, gridare nella mia testa.

Cerco di mantenermi calmo, di cambiare argomento, di respirare, perché Dio se vorrei mettermi ad agitare le gambe e a ridere come una ragazzina quando la sua cotta le sorride.

– Dov'eravamo prima? Eravamo a... sì, giusto. Allora, come stai? –

– Meglio. Ho avuto una giornata un po' storta ma ora sto meglio. –

– Ti va di raccontarmi cos'è successo? –

– Sì, mi... mi va. –

Mi sposto di lato, appoggio la testa sul cuscino, tengo il telefono premuto all'orecchio mentre torturo il lato di un'unghia coi denti.

Yūji respira piano, prima di ricominciare a parlare.

– Mio padre mi ha scritto un messaggio. Non vado d'accordo con mio padre e sono contento a far finta che non esista ma oggi mi ha scritto e mi ha completamente distrutto l'umore. –

– Posso chiederti cosa ti ha scritto? –

– Non ne ho idea, ho cancellato il messaggio senza aprirlo. Però mi ha scritto. Odio quando lo fa. –

Stringo meglio il telefono con le dita, chiudo gli occhi per concentrarmi di più sulla sua voce.

– Ha mollato mia madre che io avevo sette anni. È sparito dal giorno alla notte. L'ha lasciata da sola con quattro figli da tirare su e ora, ora rispunta fuori così come se niente fosse successo e come se tutta la fatica che l'ha costretta a fare non valesse un cazzo. –

– Quattro figli? –

– Sì, ho tre sorelle. –

– Ah, wow, non lo sapevo. Scusa se ti ho interrotto, ero solo... –

– No, no, figurati. –

Lo sento sorridere dalla voce, sorrido anch'io.

– Ne hai parlato con loro? Con le tue sorelle, dico. O con tua madre. –

– Sì, prima, per quello sono uscito prima da lavoro. Mi ha un po' tranquillizzato, però sono ancora un po'... –

– Infastidito? –

– Forse solo un po' scioccato. Non me lo aspettavo. –

Mugugno in assenso, lo ascolto respirare, prendere fiato con calma.

– Ne stanno succedendo parecchie di cose che non mi aspettavo, in questi giorni, in effetti. – aggiunge, poi.

– Davvero? –

– Già. –

– Cosa ti è successo che non ti aspettavi? –

– Beh, ieri mi sono accorto che nel palazzo dove vivo c'è una finestra sulle scale che non avevo mai visto prima. Mi ha molto sorpreso. –

Mi viene istintivo ridere, non mi trattengo.

– Incredibile, questo sì che ti cambia la vita. –

– Oh, e la scorsa settimana ho provato il gelato alla menta ed ero convintissimo che sapesse di dentifricio e invece è davvero buono. –

– Il gelato alla menta sa di dentifricio. –

– No, non è vero, è buonissimo! –

Ride anche lui, il rumore è lievemente metallico, ma piacevole.

Si affievolisce dopo qualche istante.

– Poi credo di aver iniziato a capire che cosa intenda Bob quando dice che la stabilità non è noia ma è pace. –

– Eh? –

– Ho sempre pensato che le cose che non cambiano fossero noiose e Bob mi ha sempre detto che non sono noiose, ti fanno sentire in pace, e il suo discorso inizia ad aver senso. –

– C'è qualcosa che ti sta facendo cambiare idea? –

– Qualcuno. –

Il cuore inizia a battermi nel petto un po' più in fretta.

– Ho sempre pensato che per me il mondo fosse diviso in persone con cui voglio fare sesso e persone che voglio siano mie amiche e ho cercato di mettere questo qualcuno in una delle due categorie ma ogni volta che mi capita di pensarci inizio a credere che forse dovrei metterlo nell'altra e non riesco a spiegarmi niente di quello che faccio. –

Il mio respiro si fa più breve.

– Mi sta un po' incasinando l'ordine mentale. –

– Dev'essere una persona importante, allora. –

– Credo lo sia, sì. –

Apro gli occhi e li incollo al muro di fronte a me, sento qualcosa nel corpo che prima non avevo mai sentito.

– Non riesco a togliermela dalla testa. –

– Forse anch'io ho una persona così. –

– Davvero? –

– Mi sa di sì. –

È nuova.

La sensazione che provo, è nuova.

Non la conosco.

Non so come descriverla.

Non so che cosa sia.

Non so...

– Come credi di risolvere la situazione con questa persona? –

– Non ci ho ancora pensato. –

– Neanche io, per ora speravo di potermela godere senza niente di definitivo, solo che mi rendo conto che non mi basta ogni volta che ci ho a che fare. –

– Non ti basta? –

– No, Tadashi. Non mi basta. Così non mi basta. –

Pare una scarica elettrica.

Mi fa... tremare ogni centimetro del corpo e mi fa bruciare la pelle e mi scalda, mi emoziona, mi...

Ho bisogno di...

– Yūji, ha appena suonato al citofono il ragazzo che mi porta la pizza. Devo andare. Se vuoi posso richiamarti dopo cena. – mento, quasi spaventato da quello che mi succede, nel completo bisogno di smettere un attimo, di riprendere fiato, di... ritrovarmi un secondo.

– Credo che andrò a farmi una doccia e a dormire, ci vediamo direttamente domani, se per te non è un problema. –

– No, non lo è. Va bene. –

– Perfetto. –

Devo chiudere gli occhi.

Devo tranquillizzarmi, devo rimettermi in ordine, devo pensare, devo...

– Sono felice che tu abbia chiamato, stasera. Ti prego, rifallo quando ti pare. –

– Va bene, lo... –

– Anche solo sentire la tua voce mi ha fatto sentire subito in pace. –

Devo calmarmi.

Devo calmarmi prima che il cuore mi salti fuori dal petto.

Devo calmarmi prima di non riuscire più a respirare.

Devo...

– Buonanotte, Tadashi. –

– Buonanotte. –

Chiude la chiamata.

Il telefono mi scivola via dalla mano sul materasso.

Devo capire che cos'è che sento.

Perché al diavolo, è la cosa più piacevole che io abbia mai sentito in tutta la mia vita.

─── ・ 。゚☆: *.☽ .* :☆゚.───

ok amici ECCOMI IM BAC CON TERUSHIMA E TADASHI io li amo vi prego theyre so cute perché ho smesso di scrivere di loro non lo so li amo

porto alla vostra attenzione delle cose

1) virginia woolf la conoscete ma non la conosceste she's a badass feminist bravissima ha scritto alcuni romanzi che amo (mrs dalloway credo tipo nella mia top 20 romanzi prefe) vi prego amate virgina woolf

2) simone de beauvoir altra badass feminist FRANCESE RAGA LA LETTERATURA FRANCESE MI MANDA NELLO SPAZIO andate a leggere i mandarini ve ne prego

3) steinbeck super premio nobel super scrittore (anche se è americano gli vogliamo bene lo stesso) consiglio furore super bellissimo

4) sartre altro premio nobel vedi sopra le considerazioni sulla letteratura francese super comunista leggete sartre raga

5) NON SO SE VI SIETE RES* CONTO MA HO SCRITTO TRE SCENE BREVI AKA HO USATO LA SINTESI QUINDI VOGLIAMO DIRE A TUTTI MEL SEI TROPPO BRAVA LA TUA SINTESI è SPAZIALE è LA TUA DOTE PIU PRONUNCIATA

niente fine smetto di impazzire

ci vediamo presto

un bacio

DITEMI COSA NE PENSATE ANCHE LEGGO I COMMENTI ho visto che qualcuno non ci crede ma credeteci faccio fatica a rispondere MA LEGGO TUTTO QUINDI SE MI SCRIVETE UN COMMENTINO IO SONO CONTENTA

mel :D

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top