7. A threatening confrontation
25 novembre 2019.
Eileen.
Avevo sempre creduto alle promesse che mi venivano fatte, in un certo senso ci contavo.
Contavo soprattutto su quel "Ci vediamo domani." di Cole, perchè era una promessa, no?
Avevo riposto tutta la positività con cui avevo cominciato la giornata in quella frase, ma come si dice? Chi di speranza vive, disperato muore.
Non sapevo perchè avevo aspettato il suo arrivo per tutto il pomeriggio, mentre svolgevo il mio turno di lavoro. Ogni volta che sentivo il tintinnio dei campanelli posti sulla porta d'ingresso, mi giravo in cerca del suo sguardo, delle sue iridi azzurre, dei suoi capelli sbarazzini.
Ma lui non arrivò mai, non aveva mantenuto la promessa.
Mentire a me stessa sarebbe stato inutile, avevo dato fiducia a quell'incontro mancato; probabilmente non avremmo parlato di niente, come sempre, e mi sarei sentita esaminata sotto il suo sguardo, ma forse era proprio quello che volevo: essere al centro dell'attenzione di qualcuno.
Verso le undici e trenta di sera, decisi di rassegnarmi e porre via tutte le supposizioni sul motivo per cui non fosse venuto. Ormai eravamo in procinto di chiudere il locale e non credevo che Cole si sarebbe presentato a quell'ora.
Pensavo di aver imparato a non dar retta alle persone, per via delle mie esperienze precedenti, ma a quanto pareva non mi ero ancora castigata per bene. Ricadevo sempre nell'errore di fidarmi di qualcuno.
Non provavo un sentimento per lui, perchè spiegata in questo modo potrebbe sembrarlo, semplicemente avevo l'innocente curiosità di scoprire cosa nascondesse sotto quel suo cinismo. Mi lasciava costantemente in bilico tra il si e il no e questa cosa mi mandava su tutte le furie.
«A quanto pare la nostra barista preferita è sovrappensiero, stasera» le parole di Austin - e la successiva risata di Tanya - mi catapultarono nella realtà.
Abbozzai un piccolo sorriso e mi accorsi di star insaponando un contenitore per frutta da un bel po' di tempo. Sospirai e sciacquai quell'aggeggio, prima di metterlo nel cestello della lavastoviglie. Portai lo sguardo sui due ragazzi: ormai Austin era diventato una presenza costante da quando aveva conosciuto mia sorella ed era stato ospite a casa nostra. Avevano entrambi le guance rosse - dato l'impatto freddo-caldo che si aveva una volta entrati nel locale - e i capelli di Nya erano crespi e gonfi per l'umidità. Quel giorno, come i precedenti, la fine pioggerella tipica delle regioni anglosassoni non aveva smesso di tormentare la città, donando gola secca e raffreddore.
«Sono esausta» mugugnai, prima di sfregare le mani sul grembiule in modo da asciugarle. Mi piegai sul bancone per essere più vicina ai ragazzi: «Voi non fate nulla dalla mattina alla sera!» li presi in giro, ridendo.
Tanya s'imbronciò incrociando le braccia al petto, assomigliando quasi ad una bambina.
«Siamo appena tornati dalla palestra, culo moscio!» mi schernì il castano e, in tutta risposta, presi lo straccetto con cui pulivamo il bancone e lo lanciai sul suo viso.
Scoppiai in una fragorosa risata data l'espressione schifata che gli si dipinse sul volto, «Il mio culo è più tonico del-» stavo per terminare la frase se solo non fossi stata interrotta da Ian, che si schiarì la voce per attirare l'attenzione.
Il biondo si avvicinò minacciosamente e lo sentii esalare un grosso respiro, come se stesse cercando di calmarsi: «Hai finito di sghignazzare? C'è da pulire e tu perdi tempo, come se fosse ancora presto per chiudere» mi sgridò con un tono di voce piuttosto alto, che mi infastidì e fece scomparire il sorriso dalle mie labbra.
Austin e Tanya, gli unici presenti nel locale in quel momento, si zittirono e io strinsi la pezza in un pugno. Deglutii e cominciai a parlare utilizzando il suo stesso tono: «Non è certo colpa mia se tu hai trattenuto quei clienti, prima!» esclamai, rinfacciandogli il fatto che se eravamo ancora a metà delle pulizie era proprio per colpa sua e del fatto che si fermava a chiacchierare con qualsiasi persona mettesse piede nel Temple. Perchè io non potevo farlo?
Ian spostò lo sguardo sui due ragazzi: capirono di essere di troppo e si congedarono uscendo dal locale. Portai lo sguardo all'esterno e vidi Austin accendersi una sigaretta, mentre conversava con mia sorella.
Quando stavo per portare nuovamente l'attenzione su di lui, il mio corpo perse gravità e la mia schiena si scontrò con qualcosa di liscio e freddo. Sussultai per il dolore dovuto all'impatto e mi ritrovai incastrata tra il muro e il peso del biondo.
Il suo viso era a pochi centimetri dal mio e soffocai un respiro quando mi passarono davanti le immagini di qualche anno fa.
Il suo corpo incollato al mio, le mani sui miei fianchi, le labbra carnose premute contro le mie... ricordavo di esser stata bene quella notte di marzo, con lui.
I miei occhi si riempirono di lacrime, ma cercai di mandar giù il groppo in gola deglutendo: non avevo alcuna intenzione di crollare davanti a colui che mi aveva rovinato la vita.
Così, con tutta la forza che avevo in corpo e nelle braccia, lo spinsi via posando i palmi delle mani sul suo petto - coperto dalla camicia uguale alla mia. «Non azzardarti mai più a toccarmi, bastardo!» mormorai tra i denti e mi allontanai di qualche passo, riacquistando una certa distanza. Stavo cominciando a perdere quasi tutta la grinta che avevo acquisito nel corso del tempo, da quando lui aveva rovinato la mia reputazione sui social media e quindi il mio inizio di carriera. Quel ragazzo era capace di prosciugare tutta la mia forza e pazienza.
«Tranquilla,» mi guardò con un sorriso che tirava gli schiaffi dalle mani, «non ho bisogno di toccarti, per averti»
affermò e quelle parole mi colpirono, ancora e ancora, come duecento pugnalate nel petto. Mi soffermai a guardarlo per qualche istante, ma non ebbi il coraggio di controbattere finchè non continuò, dicendo: «Anzi, per la precisione ti ho già avuta in pugno».
«Quindi non ti sono bastati due anni di carcere per imparare la lezione. Vuoi continuare a tormentarmi?» domandai esasperata. Nella mia voce c'era una punta di malignità che non sapevo di possedere, soprattutto nella prima frase che avevo pronunciato. Il mio lato più cattivo, ma anche quello più fragile e segnato, venivano fuori solo in sua presenza. Era sempre riuscito ad abbattere i muri che mi costruivo intorno e ad entrare nella mia vita, senza il permesso.
«Certo che no, il prezzo non è stato ancora pagato e la gattabuia non mi spaventa più» ammise con una scrollata di spalle. Teneva su un sorrisino maligno che mi intimoriva e in quel momento aveva cominciato di nuovo ad avanzare verso di me, finchè la mia schiena non aderì nuovamente al muro dietro il bancone. Ovviamente non mi aveva toccata e dovevo ammettere che ne ero rimasta piuttosto sorpresa.
Alzai leggermente la testa per poter puntare lo sguardo sui suoi occhi color cielo, screziati dal nero. Mi resi conto solo in quel momento che avevo sempre avuto un debole per gli occhi azzurri. «Che cosa vuoi ancora?» Sospirai, ormai rassegnata, sotto il suo sguardo animalesco.
Inarcò un sopracciglio, quando assimilò la mia domanda, e «Per adesso nulla, Whiteley, ma appena ce ne sarà la possibilità ti porterò via tutto ciò che hai. Come tu hai fatto con me» minacciò ancora e lo vidi andarsene.
Quando uscì dal locale e sorpassò Austin e Nya, capii che non sarebbe più tornato per aiutarmi a ripulire.
Mi lasciai scivolare contro il muro finchè il mio sedere non aderì alle piastrelle e, con le mani davanti al viso, cominciai a piangere disperatamente. Erano mesi, o forse anni, che non lasciavo scendere lacrime dai miei occhi blu e mi sentii in colpa quando i miei amici mi tirarono su di peso. Non volevo che mi vedessero così.
Non mi chiesero nulla, semplicemente mi fecero sedere ad un tavolino del bar e mi porsero un bicchiere colmo d'acqua. Sentivo i loro sguardi preoccupati bruciarmi addosso, mentre con la manica della camicia cercavo di asciugare le lacrime e non mi fregava niente se si sarebbe macchiata di mascara. Ero stanca, avevo finalmente superato il passato e mi ero costruita una nuova vita, in cui il successo e il mio benessere potessero prevalere. Avevo cominciato a pensare a me stessa, in quel periodo, ma non potevo vivere in pace con me stessa, finchè non avrei pagato tutto il passato. Passato di cui io non ero responsabile.
Solo quando riuscii a calmarmi, Austin mi pose la domanda che mi aspettavo: «Che ti ha fatto?» sussurrò e alzai lo sguardo su Tanya che ricambiò, perchè noi sapevamo.
«Mi ha detto che non sono capace di far nulla, nel bar».
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