11. Why Fearless

1 dicembre 2019.

Cole.

L'aria festiva che cominciava a respirarsi a Dublino mi dava un senso di solitudine. Agli inizi di dicembre, molte persone staccavano la spina dal lavoro per ricongiungersi con le famiglie e passare il Natale tra cene abbondanti in buona compagnia, regali costosi e divertimento.

I miei genitori però, l'ultima volta che li avevo sentiti, non avevano accennato a nessuna riunione con i parenti, né mi avevano chiesto di raggiungerli in Canada. Edwin, mio padre, sarebbe stato troppo occupato con le sue documentazioni, per pensare ai festeggiamenti; mentre mia madre, Kendall, avrebbe avuto il suo bel da fare con la piccola Melanie. L'unico familiare di cui sentivo la mancanza era proprio la mia sorellina, chissà come era diventata in quei sei mesi. L'ultima volta che tornai a Edmonton fu per il suo compleanno. Non potevo mancare al compimento dei suoi quattro anni: quella bambina vivace e impertinente aveva portato un'altra aria nella famiglia Hooper o almeno sua madre sembrava molto contenta di avere un'altra presenza femminile in casa. Melanie richiedeva molta attenzione, dato che non era ancora autonoma e le sue allergie alimentari andavano tenute sotto controllo: ricordo che per il suo svezzamento, Kendall si armò di computer e fece ricerche su ricerche per trovare il miglior modo di agire. Forse mi mancava un po' anche la mamma e la sua squisita cucina, o il modo in cui mi svegliava dolcemente al mattino. Era una donna affettuosa e sempre disponibile al dialogo con i propri figli: riusciva a capire i miei problemi, quando ero un adolescente, e la consideravo un'amica.

Purtroppo le cose belle sono sempre destinate a finire e infatti, quando conclusi i miei studi al college, cominciarono le prime incomprensioni, per via del futuro che mi ero scelto. Io e Dave avevamo appena considerato di mettere in atto i nostri progetti, ma quando ne parlai a casa, loro mi si rivoltarono contro. Ebbi una grossa discussione con Edwin, che riteneva la nostra idea solo un capriccio e sosteneva che avrei dovuto seguire le sue orme, diventando un ingegnere. Da quel lungo litigio, ne susseguirono tanti altri e il pensiero di mio padre influenzò anche quello di mia madre, facendo sì che il nostro rapporto confidenziale scemasse giorno dopo giorno.

La determinazione che avevo nelle vene e l'adrenalina che mi dava il pensiero di trasgredire le regole e gli ideali che i miei genitori avevano creato per me, mi invogliarono a rimboccarmi le maniche. Io e il mio amico cominciammo a svolgere qualche lavoretto in nero, ognuno per conto suo, in modo da poter raccogliere la quantità di denaro necessaria per comprare un pianoforte e iscriverci a vari corsi e eventi. Ricordo che partecipammo al primo concorso cittadino con solo chitarra e voce, ma la musicalità e la profondità del nostro inedito entrò nel cuore dei giudici e delle persone presenti, tanto che quel nostro primo concerto scaturì in vittoria. A quel punto la gente cominciò a conoscerci e i proprietari di vari locali chiedevano la nostra presenza per le serate evento

Quando suonammo al Rose & Crown - uno dei pub che frequentavamo spesso quando ancora andavamo a scuola - il titolare ci chiese di compilare una scheda di partecipazione e alla voce "Nome del gruppo" non sapevamo proprio cosa scrivere. Ci guardammo per circa dieci secondi, prima che un «The Fearless» uscisse spontaneo dalle mie labbra. Quel nome era scaturito dalla determinazione che entrambi avevamo messo nel raggiungimento del nostro sogno e dalla capacità di sottrarsi al volere dei propri familiari, nonostante la paura di fallire. Mi aveva sempre spaventato il pensiero allontanarmi dalla mia città e dai miei cari, ma quando arrivò una richiesta di esibizione da un locale di Calgary, non potemmo assolutamente rifiutare.

Da quel concerto ne seguirono altri, che ci portarono ad abbandonare la provincia dell'Alberta, atterrando prima a Toronto, poi a Vancouver. Fino alle richieste provenienti dall'Europa, dove ancora non eravamo tanto conosciuti, ma la nostra voce si stava già espandendo per il Regno Unito e l'Irlanda.

Era proprio dovuta alle varie richieste che stavano arrivando per il duemilaventi, la nostra sosta a Dublino. Avevamo deciso, di comune accordo con Jaquelyn, che per il periodo natalizio saremmo rimasti lì, in modo da poter godere di un po' di riposo. 

«Sembra ieri che abbiamo cominciato a suonare» diedi voce ai miei pensieri, esalando il fumo della sigaretta, che si disperse nell'aria in un'ampia nuvola grigia. La nebbia innalzata dal Liffey - fiume che spezzava in due la metropoli - non aveva nulla da invidiare al grigiore del mio respiro. Eravamo appoggiati all'alta ringhiera dell'Ha Penny Bridge, con lo sguardo assorto e gli occhi puntati su qualcosa di indefinito in lontananza. 

Non ricordavo dove l'avessi letto, ma sapevo che l'Ha Penny era uno dei ponti più antichi di Dublino e che il suo vero nome era Liffey Bridge, ma nessuno lo chiamava così perché gli irlandesi erano molto legati alla storia. Gli abitanti della città, infatti, sostenevano che si chiamasse così perché in un'epoca diversa il pedaggio costava un penny. Eppure quel fiume divideva la città come il muro di Berlino aveva diviso per anni la capitale tedesca, perché far pagare un penny?

Scossi la testa cercando di eliminare tutti quei pensieri che attanagliavano la mente e portai lo sguardo sulle mie mani, posate sul ferro dipinto di bianco. Eravamo proprio sulla parte più alta del ponte, vista la sua forma curva, e portando lo sguardo verso destra, riuscivo a intravedere la strada di sampietrini che portava al Temple Bar. 

Dave, accorgendosi che il mio sguardo fosse concentrato in un punto dietro di lui, mi fece riportare l'attenzione sul suo viso sventolando una mano davanti al mio: «Ci sei?» inarcò un sopracciglio e probabilmente mi aveva chiesto qualcosa che non avevo capito.

Annuii, prima di staccarmi dalla ringhiera e indietreggiare di qualche passo: quel posto poteva essere molto rilassante se non vi fosse stata un'ampia affluenza di turisti e il rumore proveniente dalle automobili che scivolavano veloci ai lati del fiume.

«Che ne dici di andare a prendere una birra al Temple? Offro io» lo invitai, anche se il mio interesse non era bere, ma bensì incontrare una persona che forse avevo ignorato per troppo tempo. Ero consapevole di non aver mantenuto la promessa che le avevo implicitamente fatto e in più mi aveva visto con Jaquelyn... avevo il mio bel da fare per provare a conquistarla, dopo le ultime vicende.

«Il Temple, eh?» chiese il mio amico, inarcando le labbra in un ghigno malizioso. Mi conosceva troppo bene e non potevo sfuggire al suo sguardo indagatorio. Mi aveva visto parlarle la sera del concerto e gli avevo detto di averla accompagnata alla fermata dell'autobus.

«Dai andiamo» tagliai corto e dopo aver saltellato quella decina di scalini che ci lasciavano abbandonare l'Ha Penny, gettai la sigaretta nel cestino appeso alla ringhiera. Attraversammo la strada a senso unico, aspettando che scattasse il verde al semaforo, e successivamente ci addentrammo nell'area pedonale che portava al locale.

Quella strada aveva un aspetto rustico e antico, infatti appena entrati nel vicolo, per una ventina di metri, le mura avevano una forma arcata: lì sotto vi era una birreria, che offriva principalmente Guinness, e un fish&chips stile take away. La puzza di frittura, appunto, era pungente, per questo oltrepassammo subito quel vicolo. Svoltammo l'angolo, ma prima di arrivare al locale, le cui mura rosse si intravedevano già, mi stupii di vedere la ragazza dai capelli biondi venire in nostra direzione.

Colpii con una gomitata il mio amico che capì al volo e si allontanò di qualche passo da me. La osservai mentre frugava nel suo tipico zainetto nero, in finta pelle, in cerca di qualcosa: aveva le sopracciglia aggrottate, indignata perché non riusciva a trovare ciò che le serviva e il suo viso era leggermente più truccato del solito, infatti aveva anche un rossetto marroncino ad evidenziarle ancor di più lo spessore delle labbra.

«Eileen!» la richiamai, con voce roca e in men che non si dica le sue gambe formose, fasciate da un jeans blu, si bloccarono sul posto. Un'espressione confusa le dipinse il volto, mentre scrutava tutti i passanti in cerca di colui che l'aveva chiamata. Mi avvicinai, in modo da farmi notare e subito incontrai le sue iridi azzurre: vidi balenare in esse un accenno di sorpresa, ma subito dopo mi guardò scocciata. 

«Ciao Cole» mi salutò, stizzita.

«Come stai?» chiesi, come formalità, più che per vero interesse. La osservai mentre si portava un ciocca di capelli dietro l'orecchio e la sua espressione cambiò nuovamente, adesso sembrava a disagio. Avevo imparato che quello di toccarsi i corti capelli biondi era un gesto nervoso.

«Bene.» rispose soltanto senza guardarmi e, ricordandosene, chiuse la zip dello zaino. «Ho dimenticato il mio cellulare a casa e avrei dovuto chiamare Austin per farmi venire a prendere, dato che c'è lo sciopero dei mezzi pubblici.» esalò un sospiro «Potresti concedermi una chiamata?» chiese, quasi come se quella domanda andasse contro il suo orgoglio.

«Potresti venire con me e Dave a prendere qualcosa, prima» inarcai un sopracciglio indicando il mio amico a pochi passi da noi e sulle mie labbra si formò un piccolo ghigno di compiacimento, quando la ragazza alzò le spalle in segno di approvazione.

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