𝕻𝖗𝖔𝖑𝖔𝖌𝖔

“ℑ𝔏 𝔠𝔞𝔱𝔱𝔦𝔳𝔬 𝔡𝔦 𝔲𝔫𝔞 𝔰𝔱𝔬𝔯𝔦𝔞 𝔭𝔬𝔱𝔯𝔢𝔟𝔟𝔢
𝔢𝔰𝔰𝔢𝔯𝔢 𝔩'𝔢𝔯𝔬𝔢 𝔡𝔦 𝔲𝔫'𝔞𝔩𝔱𝔯𝔞 𝔠𝔥𝔢
𝔫𝔬𝔫 𝔢̀ 𝔪𝔞𝔦 𝔰𝔱𝔞𝔱𝔞 𝔰𝔠𝔯𝔦𝔱𝔱𝔞”

꧁꧂

Ero incatenato.

Massicci anelli di metallo mi imprigionavano i polsi e le caviglie mentre il busto era avvolto da robuste cinghie di cuoio che non mi consentivano il minimo movimento. La testa era incastrata tra delle ganasce d'acciaio, limitando così il mio campo visivo, e sentivo gli elettrodi che monitoravano la mia attività cerebrale premermi sulle tempie.

Dal mio corpo partivano miriadi di tubicini e fili collegati a dei monitor. Attaccata a un supporto che pendeva dal soffitto, c'era una sacca trasparente simile a quella della flebo, ma sapevo benissimo cosa fosse il liquido bluastro che mi veniva iniettato nelle vene con un dosaggio impeccabile. Quanto bastava per rendermi inerme, non abbastanza da farmi perdere i sensi.

Deglutii a fatica, la gola che mi pulsava in maniera terribile. Avevo passato una decina di minuti a urlare, nella speranza che il suono delle mie grida mi avrebbe salvato dall'abisso. Alla fine però la stanchezza aveva vinto, mi ero fermato per riprendere fiato e le tenebre mi avevano assalito.

Ci riuscivano sempre prima o poi. Se ne stavano acquattate negli anfratti più remoti della mia mente, sussurrando e ghignando, in attesa del momento giusto per strapparmi via ogni brandello di luce.

Odiavo il silenzio.

Me lo sentivo addosso come una coperta. Mi stringeva nella sua morsa soffocante e mi trascinava sempre più a fondo, nonostante lottassi con tutte le mie forze per riemergere. Invece ero impotente. Non importava quanto disperatamente implorassi di salvarmi, perché non c'erano mai orecchie disposte ad ascoltare.

Quindi andavo giù. Precipitavo nell'oscurità, nell'oblio, nel vuoto.

Pedone, un punto.

No, no, non volevo. Ma lo dicevano le regole e dovevo seguirle. Nessun gioco aveva senso, se non si rispettavano. A me non piacevano, non quelle, eppure non le infrangevo mai. Avevo troppa paura.

Cavallo, tre punti.

Era il mio pezzo preferito, mi rattristava perderne uno. Era la punizione che faceva meno male, ma preferivo comunque sacrificare un alfiere o una torre, persino la regina pur sapendo ciò che significava.

«Scusa per il ritardo, Nicholas».

Crack.

Il silenzio era infranto ed eccomi di nuovo nella stanza bianca, disteso sulla poltrona dura e fredda. La consapevolezza di essere paralizzato mi travolse con violenza, tanto che dovetti soffocare l'istinto di ribellarmi alle manette e alle fasce che mi bloccavano.

Avevo sempre detestato la sensazione di essere vulnerabile, fragile, alla totale mercè di qualcuno che poteva farmi qualsiasi cosa volesse. L'avevo provata spesso nel corso della mia vita e l'esperienza mi aveva insegnato una lezione importante: sei debole solo quando permetti agli altri di vedere la tua debolezza. E io ero diventato un maestro nell'arte del nasconderla.

Dunque fu quello che feci: rimasi fermo, sfoggiando una calma e una fermezza che -ne ero certo- lo avrebbero innervosito.

«La fila al bar era infinita» spiegò il dottor Tanner, chiudendo la porta. Era un uomo anziano, sulla sessantina, ormai calvo eccetto che per pochi ciuffi grigi attorno alle orecchie.

«Non si preoccupi». Tentai di scrollare le spalle. Invano. «Ne vale la pena. A parte la lettura, queste chiacchierate sono la mia unica distrazione dalla monotonia della cella, anche se preferirei una tv via cavo».

Ridacchiò, sedendosi dietro alla scrivania.

La sua maschera affabile mi divertiva. Lo avevo studiato durante i nostri incontri, proprio come lui osservava e analizzava ogni mio comportamento.

Avevo capito che era affascinato da me, ma anche terrorizzato; si portava di continuo una mano alla tasca, dove teneva il dispositivo per allertare le guardie appostate di fuori, quasi temesse che potesse svanire all'improvviso.

Era gradevole rendersi conto che, sebbene legato e sedato, un po' di potere lo avevo ancora.

«Allora, come stai?»

Dato che non sopportavo le domande stupide, lo ignorai. Mi limitai a tamburellare le dita sui braccioli e mi lasciai trasportare da quel rumore ritmico, lento, che non concedeva spazio al silenzio.

«Giusto, hai ragione». Tanner tossicchiò, a disagio, intrecciando le mani sulla pancia sporgente. «Per ovvie ragioni, questa è la nostra ultima seduta...»

Sfoderai un sorrisetto. «Significa che non verrà a trovarmi all'inferno?»

«La morte non ti spaventa?»

«Sono già morto tante volte. Almeno questa sarà indolore».

Il dottore sfilò la penna dal taschino del camice e cominciò a scarabocchiare sul suo taccuino. «Oggi vorrei discutere con te di una questione che finora hai evitato, una delle tue vittime di cui ti rifiuti di parlare: Arya Black. Ne hai voglia?»

«Non direi che ho molta scelta».

«Cominciamo dal principio. Come l'hai conosciuta?»

Scoppiai a ridere, facendolo trasalire leggermente. «Non me lo ricordo con precisione. Giusto due o tre dettagli piccanti, se le interessano».

Tanner si raddrizzò gli occhiali sul grosso naso. «Avevate una relazione?»

«Siamo stati intimi» replicai con noncuranza. Feci un ghigno. «In qualche modo deve esserci finito il semino, le pare?»

«La amavi?»

Sbuffai, lo sguardo sollevato sulla luce accecante del lampadario. Sfarfallava appena. «Io sono incapace di amare».

Il fruscio della penna sulla carta era rilassante.

Con la coda dell'occhio notai l'uomo che, intento a controllare gli schermi, si asciugava sulla manica la fronte lucida di sudore. Sentii un moto di compiacimento alla bocca dello stomaco, che si contrasse brontolando. Non mi ero accorto di avere fame.

Se solo fossi stato libero...

«E la bambina?» proseguì Tanner, tornando a guardarmi. «Ti importava di lei?»

«Le sembro il tipo che aspira a diventare papà?»

«È per questo che lo hai fatto? Non volevi la bambina?» Non ottenendo risposta, si protese in avanti sulla scrivania e insistette, accigliato: «Aiutami a capire, Nicholas. Voglio capire il perché. Perché lo hai fatto?»

«Forse le serve un ripasso della mia cartella clinica» suggerii, inarcando un sopracciglio. «Mi hanno condannato per un totale di sessantasei omicidi, tutti senza nessun movente. Non è una dimostrazione sufficiente che sono solo... beh, pazzo

«Anche nella follia c'è una logica. Assurda, contorta e immorale, ma c'è». Con un movimento all'apparenza distratto, si sfiorò la solita tasca. «Gli altri erano estranei, persone con le quali non avevi nessun legame emotivo, invece quella ragazza è stata a stretto contatto con te e la tua famiglia per mesi. Quindi perché all'improvviso hai deciso di ucciderla, Nicholas?»

«Perché no?» sussurrai seccato.

«Era incinta. Portava in grembo tua figlia. Davvero non ti fa provare nulla?»

Osservai la penna che teneva in bilico tra indice e medio, picchiettando l'estremità contro il mento. «Una gran noia, come questa conversazione. Non mi faccia perdere tempo, per favore. Mi rimangono poche ore e ho un libro da finire, se non le dispiace». Ridacchiai. «Chissà, magari ne dedicheranno uno anche a me. In fondo, sono entrato nella top ten dei più prolifici serial killer della storia».

«Sì, sei molto famoso» annuì Tanner. «E anche i tuoi fratelli. Ma ci sono così tante leggende attorno al nome dei De'Ath che non si distingue il vero dal falso. Perché non mi racconti tu la vostra storia? Così ne uscirebbe una biografia davvero fedele».

Conficcai il mio sguardo nel suo e lo vidi rabbrividire in maniera percettibile; anche da lontano fiutavo l'odore della paura che gli incutevo. «Il problema è che poi dovrei uccidere anche lei, dottore».

Per il resto della seduta non pronunciai nemmeno una parola.

Alla fine Tanner rinunciò, si avvicinò e prese a trafficare per aumentare il dosaggio del sedativo. Le guardie, infatti, non avevano il coraggio di scortarmi fino alla mia cella d'isolamento da cosciente.

Quando ebbe terminato, si voltò verso di me. Aveva un'espressione triste dipinta sul viso. «Domani pregherò per la tua anima, Nicholas».

«Oh, le assicuro che non serve» sospirai. Le palpebre cominciavano a farsi pesanti. «Ovunque andrò, sarò comunque più in pace di quanto lo sono stato qui».

Tutto divenne sfocato e un attimo dopo gli occhi mi si chiusero, facendomi piombare nel buio.

La voce del dottore mi giunse distorta e lontana, simile a un'eco che si affievoliva man mano. Il silenzio era tornato ad avvolgermi, già percepivo i suoi artigli che mi ghermivano e si conficcavano nella carne, strappavano tendini, rompevano ossa.

E intanto cadevo giù, giù, sempre più giù.

Scacco matto, Zero.

꧁꧂

Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top