𝕱𝖑𝖆𝖘𝖍𝖇𝖆𝖈𝖐 (Seth)
"ℭ𝔯𝔢𝔡𝔢𝔳𝔬 𝔠𝔥𝔢 𝔦𝔩 𝔡𝔢𝔰𝔱𝔦𝔫𝔬 𝔣𝔬𝔰𝔰𝔢
𝔟𝔞𝔰𝔱𝔞𝔯𝔡𝔬, 𝔭𝔬𝔦 𝔥𝔬 𝔠𝔞𝔭𝔦𝔱𝔬 𝔠𝔥𝔢 𝔪𝔦
𝔰𝔱𝔞𝔳𝔞 𝔰𝔬𝔩𝔬 𝔭𝔬𝔯𝔱𝔞𝔫𝔡𝔬 𝔡𝔞 𝔱𝔢"
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Sei anni e mezzo prima
Era il giorno del mio quindicesimo compleanno. O meglio, il quindicesimo anniversario del giorno in cui ero stato trovato in fasce e urlante tra la spazzatura, dato che nessuno conosceva con esattezza quello in cui ero nato.
Come ogni sera, salii sul campanile della chiesa e rimasi con le gambe a penzoloni a godermi lo spettacolo di una Notturn Hall addormentata sotto il cielo stellato. In realtà l'accesso era vietato, ma il parroco era un vecchietto sbadato e io ero davvero bravo a intrufolarmi anche nei posti più impensabili senza farmi beccare.
Quel talento era sempre stato la mia fortuna, nonché probabilmente la ragione per cui non ero ancora finito ammazzato.
Con la schiena appoggiata alla colonna, inspirai dalla sigaretta. Aveva un saporaccio di muffa dovuto alla marca scadente, ma accolsi con sollievo il famigliare bruciore ai polmoni. Fumare era l'unica cosa che riuscisse a sgombrarmi la mente da tutti i pensieri e i problemi, facendomi sembrare –anche se solo per poco– la mia esistenza leggermente meno schifosa.
L'unica cosa... a parte il gioco d'azzardo, ovvio.
Dopo un attimo rilasciai una nuvoletta bianca dalla bocca e la osservai disperdersi nell'aria, poi abbassai lo sguardo. Non sapevo con esattezza quanti metri mi separassero dal suolo, ma di sicuro erano abbastanza. Ne ero certo. Mi sarebbe bastata una leggera spinta in avanti, nient'altro, e sarei stato libero. Era così dannatamente facile, cazzo!
Feci un ultimo tiro e buttai il mozzicone. Mi alzai in piedi sul cornicione, il cuore che mi tamburellava nel petto. Non soffrivo nemmeno di vertigini, anzi l'altezza mi provocava una sensazione euforica, come quella che provavo durante le partite a carte o alle slot machine. Emisi un respiro tremante e chiusi gli occhi.
«Un passo» sussurrai tra me con voce incrinata. Un brivido mi percorse il corpo e scossi la testa. «Forza, coglione. Puoi farcela stavolta. Un passo e sei a posto».
Sollevai il piede sinistro e feci per allungare la gamba.
Mi chiedevo spesso a cosa pensassero le persone, prima di suicidarsi. Forse provavano a trovare qualcosa a cui aggrapparsi, un motivo che permettesse loro di dare uno schiaffo alla morte e convincere sé stessi a concedersi altro tempo. Ancora un altro giorno. Un'altra chance alla vita, pur sapendo che avrebbe continuato a essere una merda.
Io però non ne avevo nessuno.
Non avevo una famiglia che avrebbe sofferto per la mia morte, né amici o cari che se ne sarebbero accorti. Sarei semplicemente scomparso. Avrebbe dovuto consolarmi, invece no. Perché faceva male pensare che in mezzo a miliardi di esseri umani non ce ne fosse uno che avrebbe sentito la mia mancanza. Uno che mi volesse bene.
Ed era egoistico da parte mia, ma odiavo l'idea di andarmene senza che ci fosse una sola anima viva a piangermi. Immaginavo la mia tomba spoglia, priva di fiori, dimenticata da tutti e mi faceva ribollire il sangue. Volevo che la mia morte avesse un valore, lo stesso valore che la mia vita non aveva mai avuto.
Così, anche quella volta, fui egoista.
Mi tirai indietro e mi accucciai accanto alla campana. Presi dalla tasca del giubbotto logoro un muffin schiacciato, ci conficcai sopra una candela storta e premetti il tasto dell'accendino. Socchiusi le palpebre e pronunciai nella mente quel desiderio, identico ogni anno da quando ero diventato abbastanza grande da capire che il vuoto che mi sentivo dentro si chiamava solitudine.
Voglio essere importante per qualcuno.
Voglio che qualcuno tenga a me.
Voglio smettere di essere invisibile.
Fissai per un secondo la danza rossastra della piccola fiamma, poi soffiai. «Tanti auguri a me» sussurrai con un sospiro.
Dopo aver divorato il muffin in un paio di morsi, mi arrampicai giù per la scala e uscii dalla chiesa. Lo stomaco ancora gorgogliava per la fame. Le strade erano deserte, le luci dei lampioni gettavano ombre sinuose sui muri. Timidamente stava facendo capolino una pioggerella leggera, che mi costringeva a scacciare i ricci neri appiccicati alla fronte.
I peli mi si rizzarono sulla nuca. L'esperienza mi aveva fatto sviluppare una sorta di sesto senso per i pericoli, quindi non esitai a guardarmi attorno. Dietro di me, individuai due figure che camminavano nella mia direzione.
Mentre i miei battiti acceleravano, affrettai il passo e svoltai l'angolo alla prima occasione. Non potevo tornare a casa, finché non fossi stato certo che non mi stessero seguendo. Mi girai per lanciare un'altra occhiata e mi scontrai contro qualcosa di duro.
Cercai di recuperare l'equilibrio, ma delle mani mi afferrarono con violenza e venni scaraventato sul marciapiede. All'impatto una stilettata di dolore mi trafisse il ginocchio, facendomi imprecare.
«Rivoglio i miei soldi, ladro del cazzo» ringhiò una voce famigliare.
Mi raddrizzai. Di fronte a me c'era un ragazzo sulla ventina, dall'aspetto attraente ma spocchioso, vestito con scarpe firmate e catene d'oro attorno al collo. Un orologio costoso brillava al suo polso.
Lo riconobbi; era uno dei clienti con cui quella sera avevo giocato a poker al Coin, il night club dove lavoravo. Gli avevo alleggerito la carta di credito di circa centomila dollari, che ovviamente erano stati incassati dal mio capo. A me toccavano solo le briciole delle fortune che gli facevo incassare.
Insieme a lui, c'erano anche tre suoi compagni, tutti parecchio sbronzi a giudicare dalla puzza di alcol che emanavano; non che facesse una grande differenza. Tanto non avrei avuto chance di batterlo nemmeno se fosse stato da solo.
La mia parlantina era l'unica arma di difesa efficace di cui disponessi.
«Ehi, Tyler. Come va? Fa proprio freschino stanotte, eh?» Mi tirai in piedi, arretrando fino a ritrovarmi spalmato contro la vetrina di un negozio chiuso. «Vorrei accontentarti, amico, ma non li ho. Mi dispiace».
«Forse mi hai frainteso, frocio di merda». Il ragazzo mi sferrò un pugno allo stomaco. Mi piegai in avanti e mi agguantò i capelli per tenermi fermo. «Ridammi i soldi che mi hai fregato, altrimenti ti faccio il culo e non nel modo in cui ti piace. Capito?»
Nonostante fossi abituato a ricevere insulti di ogni tipo, non sopportavo quando le persone si accanivano sul mio orientamento sessuale. Potevo fingere indifferenza, ma quelli riuscivano sempre a scalfirmi nel profondo.
E soprattutto mi facevano incazzare.
Avevo dovuto combattere una lunga guerra interiore per smettere di considerarlo un difetto del quale vergognarmi, e non avrei permesso a nessun riccone bastardo di strapparmi la vittoria che avevo ottenuto con tanta fatica.
Sollevai il mento e affrontai il suo sguardo, scoppiando a ridere. «Che c'è, hai paura che il papino ti metta in punizione?»
Tyler mi colpì in pieno volto e crollai a carponi. Un calcio al fianco mi mandò disteso, seguito da un altro dritto alla pancia. Uno di loro mi sputò addosso, intanto che cercavo di strisciare il più lontano possibile.
«Andiamo, il gioco d'azzardo è così. A volte si vince, a volte si perde» farfugliai, sorreggendomi a un palo.
«E perché tu vinci sempre?»
Forzai un sorriso, con un rivolo di liquido caldo che mi colava dal mento. «Fortuna?» azzardai.
Tyler fece un cenno. «Mason».
Il ragazzo pel di carota alla sua sinistra, dal viso coperto di lentiggini, sfoderò un coltello a serramanico. Il bagliore della lama mi fece congelare il sangue nelle vene.
Una scarica di adrenalina mi investì e, con una forza che non credevo di possedere, diedi uno spintone agli altri due che mi si paravano davanti per impedirmi di fuggire. Mi fiondai nello spazio che si era aperto tra loro e cominciai a correre.
In un attimo, il dolore al ginocchio era svanito. Le mie gambe si muovevano così velocemente che mi pareva di non toccare terra. L'acqua ormai cadeva a secchiate. Le gocce mi picchiettavano sul viso, offuscandomi la vista. Il terrore mi si annidava nel petto, gelido e pulsante.
Nemmeno mezz'ora fa ero stato sul punto di buttarmi dal campanile di una chiesa, ora invece volevo soltanto aggrapparmi alla vita e tenermela stretta. Volevo vivere. Volevo disperatamente vivere.
Mi tuffai in un vicolo laterale. Le suole delle scarpe scivolarono sull'asfalto bagnato e barcollai. Mi accorsi troppo tardi dell'ammasso di stracci abbandonato accanto al cassonetto. Inciampai e ruzzolai per qualche metro. Mi rovesciai sulla schiena, ignorando le fitte di protesta che mi percorrevano il corpo, e rimasi paralizzato.
L'ammasso di stracci si era alzato.
Nel buio del vicolo, non riuscivo a distinguere i suoi lineamenti con chiarezza. Era un ragazzo, però. Sembrava più piccolo di me, ma aveva un fisico così magro ed esile che era difficile indovinarne l'età. I capelli, appiattiti dalla pioggia, erano sporchi e arruffati. Gli occhi splendevano in maniera innaturale, come zaffiri luminosi che trafiggevano le tenebre, lampeggianti di una rabbia animalesca.
Si levò un ringhio ferino e gutturale, simile a quello di un orso, che mi si riverberò nelle ossa. Arrancai all'indietro fino a sbattere le spalle contro il muro sudicio, le braccia sollevate in un vano tentativo di difendermi. Una morsa invisibile mi sigillava la gola, impedendomi anche di gridare.
Poi Tyler e i suoi amici sbucarono lungo il vicolo, accompagnati da uno scalpiccio frenetico. Uno di loro stava per travolgere il ragazzo, ma quest'ultimo gli si gettò subito addosso con un guizzo felino. Mason si dibatté sotto di lui e gli conficcò il coltello nel fianco, ma non parve neanche accorgersene.
Affondò le dita nella sua pancia e cominciò a dilaniarlo, squartandolo con la facilità con cui si strapperebbe una bambola di pezza. Rovistava furiosamente nelle sue viscere come un cane affamato, mentre le grida disumane di Mason laceravano la quiete della notte. Ne estrasse l'intestino e prese a... beh, mangiarlo.
Nel senso letterale del termine.
A quella vista raccapricciante, i conati di vomito mi assalirono. Mi tappai la bocca con entrambe le mani per respingerli, le ginocchia portate al petto. Tyler e gli altri scapparono via urlanti, io invece ero inchiodato sul posto. Non riuscivo neanche a distogliere lo sguardo, malgrado fossi disgustato dal macabro spettacolo a cui stavo assistendo.
Alla fine calò il silenzio, intervallato dallo scroscio del temporale.
Il ragazzo si sollevò dal cadavere martoriato di Mason, i vestiti fradici e lacerati grondanti di sangue. Sembrava essersi dimenticato della mia presenza. Stringeva nelle mani un piccolo ammasso deforme e lo divorava con morsi voraci.
Impiegai un attimo a capire che cosa fosse e non potei più trattenermi: mi chinai di lato e rigettai.
L'attenzione della creatura, qualsiasi cosa fosse, venne attirata su di me. Lasciò cadere ciò che restava del cuore di Mason, con i canini gocciolanti che spuntavano dalla bocca contornata di rosso. Tremava, il volto di un bianco alabastro distorto in un ghigno famelico.
Recuperai il dono della parola di colpo.
«No, ehi, calmo. Erano loro gli stronzi. Io sono innocuo, okay?» balbettai con voce acuta, risalendo lungo il muro fino a rimettermi in piedi. Gli mostrai i palmi in segno di resa. «Possiamo trovare un accordo, eh? Ti... ti offro un cheeseburger? È più gustoso di me, te lo garantisco».
Per tutta risposta, lui emise un sibilo furioso e sguainò gli artigli lunghi e affilati. Nell'istante stesso in cui si avventò su di me, mi girai di scatto e mi slanciai nella direzione opposta del vicolo. Ebbi il tempo di fare pochi passi che, con una rapidità impressionante, mi aveva già raggiunto.
Mi acciuffò per il cappuccio e mi lanciò contro il cassonetto, facendomi scricchiolare le costole. Cercai di tirarmi su, ma un dolore accecante mi esplose dietro le palpebre quando un pugno sul naso mi ributtò a terra.
Un attimo dopo incombeva su di me, a cavalcioni sulla pancia. Il suo peso mi mozzava il fiato. La pioggia gli accarezzava la faccia, sciacquandogli le guance macchiate di sangue e colando dal mento. Avvertivo la pressione degli artigli che, trapassato il tessuto del giubbotto, mi graffiavano la pelle.
Non riuscivo a smettere di pensare che ero stato salvato da neonato, soltanto per morire vicino a un altro bidone della spazzatura quindici anni dopo.
Ne apprezzavo la fottuta ironia.
Poi però incrociai le sue iridi, di un blu magnetico. Era completamente folle, eppure dovevo ammettere che fossero degli occhi stupendi, i più belli che avessi mai visto. Li fissai incantato per quella che mi parve un'eternità... e all'improvviso capii di essermi sbagliato.
Non era rabbia, era paura.
Era solo spaventato, proprio come me. Forse persino di più.
«No, no, no. Aspetta» lo implorai, costringendomi a smettere di lottare. Boccheggiavo, e anche lui. Mi sforzai di assumere un tono rassicurante, sebbene le parole mi uscissero flebili e tremolanti. «Non ti faccio nulla. Non voglio farti nulla. Io non faccio del male a te e tu non ne fai a me. È equo, no?»
Il ragazzo esitò. Vidi l'incertezza nel suo sguardo e una scintilla di speranza mi si accese nel petto. Senza staccare lo sguardo dal suo nemmeno per un secondo, aggiunsi in un sussurro: «Ti prego».
Lui continuò a fissarmi, sempre più titubante. La ferocia sul suo viso si stava dissolvendo, rimpiazzata da una sorta di smarrimento che avrei potuto definire addirittura tenero. Infine si ritrasse, recuperò la poltiglia di cuore rimasta e andò a rannicchiarsi accanto al cassonetto. Si era mosso così rapidamente che tutto era successo in un battito di ciglia.
Mi rialzai incespicando. Rimasi sorpreso che le mie gambe fossero in grado di sorreggermi, nonostante avessi l'impressione che si fossero tramutate in gelatina. Lanciai un'occhiata cauta al ragazzo, chiedendomi che cosa diamine fosse in realtà. Non ne avevo idea, però in quel momento aveva l'aspetto di un cucciolo terrorizzato.
Certo, un cucciolo che aveva appena sbranato un tizio e che si era cibato delle sue interiora, ma preferivo non pensarci.
Malgrado ciò, trovai il coraggio di avvicinarmi al cadavere di Mason. Non lo guardai. Mi limitai a sfilare il suo portafoglio dalla tasca dei pantaloni e mi precipitai a capofitto fuori dal vicolo. C'era di sicuro altro di valore da trafugare, ma sentivo già lo stomaco pronto a contrarsi di nuovo.
E temevo che la creatura potesse decidere che in fondo un secondo spuntino non le dispiaceva.
Sì, lo so. Derubare un morto è una cosa spregevole. Ma provate a vivere per strada da soli per un po' e rivedrete parecchio i vostri principi morali.
Pur essendo esausto, non mi fermai fino a che non giunsi davanti all'edificio fatiscente in cui si trovava il mio appartamento. Il ginocchio mi pulsava e il naso continuava a sanguinare. Zoppicai dentro, piegato in due dal fiatone e dai crampi alla milza.
Siccome le rotture di balle viaggiano sempre in gruppo, il proprietario del palazzo mi venne incontro con il solito cipiglio burbero. Mi puntò al petto un grosso indice, sbraitando: «Ragazzino, io non faccio domande, ma se non mi paghi l'affitto...»
Non lo lasciai terminare. Presi delle banconote dal portafoglio e gliele tesi. L'omone me le strappò con avidità, osservò le impronte insanguinate che si erano depositate sopra, poi me.
Gli feci un sorriso innocente. «Affitto pagato, niente domande».
Mentre salivo le scale, lo udii bofonchiare un "delinquente" insieme a una sequela di altri insulti, ma sapevo che si sarebbe tenuto i soldi. Infilai la chiave nella toppa ed entrai nell'appartamento. Era squallido, infestato dal disordine e puzzava di muffa, ma non mi importava. Qualsiasi luogo era meglio di quello da cui ero scappato.
Il vero problema era la solitudine.
Forse avrei dovuto trovarmi un coinquilino, magari uno che non avesse la fobia dei ragni e fosse disposto a sradicare le loro immonde ragnatele dagli angoli della mia stanza.
Tuttavia, sarebbe stato difficile persuadere qualcuno a convivere con un adolescente che non andava a scuola e di professione truffava la gente in un casinò. E, comunque, ero negato a fare amicizia. Ero invisibile, lo sarei sempre stato per tutti.
Presi una birra dal frigo e mi accasciai sul divano con un mugugno sofferente, premendo il metallo freddo della lattina sul naso. «Bel compleanno del cazzo».
Nei giorni successivi, i miei sogni furono costellati dall'immagine di un volto dai capelli biondi su cui erano incastonati due splendenti zaffiri. Dovevo aver scaricato nel cesso la mia sanità mentale senza accorgermene, perché una parte di me moriva dalla voglia di incrociare di nuovo quei maledetti occhi blu.
In un impeto suicida, una volta mi ero persino aggirato nei dintorni del vicolo per cercarlo, ma non ne trovai nessuna traccia.
Ad essere onesto, non c'era l'ombra neanche di Mason. Mi ero aspettato di trovare l'articolo nella prima pagina del giornale sul ritrovamento del suo corpo sventrato, invece non era apparso nulla. Proveniva da una famiglia ricca, quindi giunsi alla conclusione che i suoi parenti avessero voluto evitare scandali.
Poi però, al Coin, si cominciò a vociferare che Ronald Bailey stesse addestrando un nuovo campione per i combattimenti che organizzava nell'Arena. Origliando stralci di conversazioni dei suoi tirapiedi più stretti, sentii che era riuscito a catturare una sorta di mostro.
Più animale che umano, così dicevano.
A quanto pareva, aveva fatto a pezzi alcuni dei suoi uomini prima che lo prendessero, ma ne era valsa la pena: era certo che sarebbe stato invincibile sul ring. Doveva solo riuscire a "addomesticarlo".
Alla fine, la curiosità prevalse sul mio istinto di conservazione e sulla mia personale regola di sopravvivenza di farmi sempre i cazzi miei. O meglio, farmi i cazzi degli altri senza che loro lo sappiano.
Una sera andai a lavoro con largo anticipo. Il night club era ancora chiuso ai clienti, ma il bancone dell'ala riservata era già occupato da quello che chiamavo il "gruppo degli scimmioni".
Come la maggior parte degli scagnozzi del signor Bailey, insieme non raggiungevano il quoziente intellettivo di un merluzzo e quando parlavano li immaginavo a battersi i pugni sul petto, sventolando una banana in stile King Kong.
Appena mi avvicinai al bar, presero a ridacchiare. «Prendi del latte, marmocchio?» sghignazzò uno degli scimpanzè, Bobby. Era largo come un armadio, con più menti sul collo che neuroni nel cervello.
Gli rivolsi una smorfia. «Sì, quello di tua madre. Ha delle tette belle quasi quanto le tue».
Ci fu un coro divertito di "uuuh", tranne il diretto interessato che divenne paonazzo dalla rabbia. Poi un altro gorilla di nome Walter si picchiettò la mano sulla patta dei pantaloni e commentò: «Se me lo succhi, potrei offrirti io qualcosa da bere, finocchio».
Tutti ridacchiarono. Un fremito mi percorse la spina dorsale, irradiandosi come una scarica elettrica fino ai muscoli delle spalle. Mi maledissi per l'ennesima volta per essere stato così idiota da flirtare con un ragazzo nel locale.
Ordinai al barman una soda, mi voltai verso Walter e lo squadrai con uno sguardo attento. Scossi il capo. «Spiacente, non vedo niente da succhiare lì».
Prima che potessero venire a picchiarmi, mi affrettai a prendere la mia soda e corsi su per le scale. Non osarono seguirmi, quando si resero conto che mi stavo dirigendo verso il tavolo solitario attorno a cui era seduta Rosalie.
Era una ragazza di diciotto anni, figlia ed erede di Ronald Bailey. Sebbene fossero stupidi, nessuno di loro si sarebbe azzardato a mancarle di rispetto. Personalmente non mi stava molto simpatica, ma era l'unica che non mi aveva mai preso in giro, né per la mia età né per essere gay. Bastava a rendermi la sua compagnia piacevole.
«Posso unirmi a te?» le chiesi allegro.
Rosalie sospirò, gli occhi fissi sul suo specchietto. «Lo farai comunque».
«Lo prendo per un sì». Mi buttai sulla sedia. «Che stai facendo?»
«Gli affari miei. Dovresti provarci ogni tanto».
Ignorai il suo sarcasmo. Bevvi un sorso di soda e la scrutai di sottecchi, mentre si aggiustava il mascara. In alcuni punti del viso, il trucco era vistosamente più pesante, anche se non abbastanza da nascondere i lividi. Provai un moto di solidarietà nei suoi confronti.
«Allora». Mi chinai in avanti, i gomiti puntellati sul bordo del tavolo. Abbassai la voce. «È vero che tuo padre ha trovato un... beh, non so cosa nello specifico. Ma so che vuole farlo combattere nel vostro inquietante fight club di gladiatori moderni».
Rosalie ripose lo specchietto e assunse un'espressione impenetrabile. «Tu che ne sai?»
Feci spallucce. «Solo quello che ho sentito dire».
Era il vantaggio di essere invisibile: la mia presenza passava sempre inosservata.
«La curiosità uccise il gatto, Seth».
«Sono più tipo da cani». Feci una breve pausa di riflessione. «Ma i gatti sono ottimi cacciatori, in effetti. Forse dovrei prenderne uno. Li uccidono i ragni, secondo te?»
Rosalie si appoggiò allo schienale e accavallò le gambe. Passò un dito sopra l'orlo del suo bicchiere pieno di liquido rosa spumoso. «Che cosa vuoi?»
«Solo vederlo. Perché, come hai detto tu, adoro farmi i cavoli altrui». Ingollai la soda con una lunga sorsata, gustandomi il sapore dolce e frizzante che mi pungeva la lingua. «Dove lo tiene tuo padre?»
Inarcò entrambe le sopracciglia. «Perché dovrei saperlo?»
«Sei la figlia del boss».
«Che gran privilegio». Rigettò un respiro pesante e assaggiò il proprio drink. I suoi occhi scuri mi studiavano enigmatici, quello di destra circondato da un vago alone bluastro semicoperto dal correttore. «Nel deposito, di sotto. Ma se ti beccano lì, ladruncolo, la tua bravura nel barare a carte non farà molta differenza. Ti ammazzeranno e troveranno un altro ragazzino orfano da sfruttare».
Deglutii. «Grazie. Avevo bisogno di un po' di sano ottimismo».
Con lo sguardo di Rosalie che mi premeva sulla nuca, mi allontanai.
Non avevo bisogno di controllare per sapere che il deposito era sorvegliato, ma mi affacciai comunque al corridoio con la scusa di voler fumare. C'erano tre uomini armati appostati fuori dalla porta, nessuno dei quali prestò la minima attenzione a me. Due di loro giocavano a dadi.
Optai per intrufolarmi dai condotti dall'aria. Anche se essere mingherlino mi rendeva pericoloso quanto uno scoiattolo, perlomeno mi permetteva di infilarmi ovunque. C'era un intrico di tunnel e passaggi tra i muri del Coin, forse dell'epoca del proibizionismo, e io avevo cercato di esplorarne il più possibile.
Ad esempio, sapevo che lo sgabuzzino delle scope nascondeva un'apertura. Era sufficiente spostare il mobiletto dei detersivi, rimuovere la griglia e il gioco era fatto.
Sgattaiolai dentro e presi a strisciare sui gomiti, dato che era troppo stretto anche solo per gattonare. Il buio mi faceva accapponare la pelle e il cuore mi batteva all'impazzata. Non amavo troppo gli spazi chiusi e angusti, ma avevo imparato a convincerci. Come con i ragni.
Fu però un sollievo rotolare fuori nel deposito, dopo essermi accertato dalla grata che fosse sgombro. Mi strusciai le mani sudate sui jeans strappati e scansai un ricciolo dalla fronte bagnata, guardandomi attorno.
La stanza era immersa nella penombra. Sul pavimento erano ammassati tavoli, sedie, sgabelli e casse con alcolici o merci di contrabbando di vario genere. Ma a catturare il mio interesse fu la gabbia al centro.
Mi avvicinai con lentezza, sobbalzando a ogni rumore proveniente dall'esterno. A giudicare dalle dimensioni, la gabbia avrebbe potuto contenere al massimo un cane di media taglia striminzito. Invece, all'interno se ne stava rannicchiato lui.
Aveva le caviglie e i polsi legati dalle catene più grosse che avessi mai visto, congiunte a un anello altrettanto robusto. Essendo piuttosto corte, era costretto a stare ricurvo sulle ginocchia piegate verso l'alto. Un orribile aggeggio di ferro gli era stato applicato sulla bocca, le cinghie che gli passavano sotto il mento e si allacciavano dietro alla nuca.
Mi immobilizzai, inorridito. A prescindere da ciò che era o che aveva fatto, non meritava di essere trattato in quel modo. Nessun essere vivente lo meritava.
Il ragazzo si accorse all'istante del mio arrivo. Sollevò di scatto la testa e annaspò nella gabbia, facendo del suo meglio per ritrarsi. Notai che un massiccio collare di metallo, ornato di spuntoni acuminati, gli cingeva la gola incrostata di sangue.
«Ehi, ciao» mormorai. Forzai un sorriso, muovendo un piccolo passo. «Ti ricordi di me? Sono quello a cui hai quasi spaccato il naso». Ne feci un altro.
Lui si schiacciò ancora di più nell'angolino ed emise un sibilo, che somigliava più a un guaito soffocato che a un ringhio. Mi fissava con i suoi occhi blu, spenti e vuoti, in cui era impressa una tristezza così profonda che non credevo nemmeno potesse esistere.
Non aveva nulla di minaccioso ora. Anzi, sembrava solo indifeso.
«Non ci siamo presentati». Mi accovacciai a debita distanza per non intimorirlo. E perché, in fondo, mi faceva ancora paura. «Mi chiamo Seth. Beh, il mio nome completo sarebbe Septimus, ma fa schifo. Sul serio, quanto bisogna essere sfigati per beccarsi un nome del genere?»
Il ragazzo si limitò a sbattere le palpebre, accoccolandosi contro le robuste sbarre più lontane a me. Era ancora sulla difensiva, ma le mie parole lo avevano lasciato confuso.
Mi chiesi se la museruola gli impedisse anche di parlare, o se semplicemente si rifiutava di farlo. Ne era capace almeno? A rigor di logica, considerato quanto bene pareva capirmi, avrei supposto di sì.
«Mi hai salvato la vita, sai? Quella notte. Certo, hai anche cercato di mangiarmi, ma voglio comunque ringraziarti». Lanciai un'occhiata alla serie di lucchetti che sigillava la gabbia e arricciai il naso. Con un po' di tempo sarei riuscito a scassinarli tutti, ne ero certo. «Mi dispiace che tu sia finito così. Ti farei uscire, ma il signor Bailey mi scioglierebbe vivo nell'acido».
"E ho troppa paura di diventare il tuo Happy Meal".
Il suono remoto della musica riecheggiò nel silenzio, facendoci trasalire entrambi. Le voci delle guardie nel corridoio si fecero più forti. Mi alzai, spazzolandomi la polvere dai vestiti. Teso come una corda di violino, il ragazzo osservava guardingo i miei movimenti.
«Devo andare». Mi avviai di corsa verso la grata da cui ero entrato. Mi bloccai e mi girai per fargli un sorriso sbilenco. Ammiccai. «Magari vengo a trovarti ogni tanto, chissà».
Anche quella volta, non ottenni nessuna risposta.
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Angolo Jedi
Se ricordate (fate finta di sì), nella premessa avevo accennato a dei capitoli speciali. Dato che non sono indispensabili alla trama, e la storia sta venendo più lunga del previsto, avevo pensato di toglierli per non annoiarvi.
Ma onestamente mi piaceva troppo l'idea di mostrarvi com'è nato il rapporto tra Nicholas e Seth, anziché limitarmi a raccontarlo, quindi ho voluto fare questo tentativo🕺
Vorrei la vostra opinione a riguardo. Dubito comunque che ne inserirò altri, al massimo giusto un paio se doveste gradire questo. Fatemi sapere.
P.s. Spero che il linguaggio e le scene non siano stati troppo "forti". Purtroppo Seth viene da un brutto ambiente.
Grazie per leggermi.
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