𝕮𝖆𝖕𝖎𝖙𝖔𝖑𝖔 9 (Nicholas)

"𝔐𝔬𝔯𝔦𝔯𝔢𝔦 𝔭𝔢𝔯 𝔱𝔢, 𝔪𝔞 𝔭𝔯𝔢𝔣𝔢𝔯𝔦𝔰𝔠𝔬
𝔡𝔦𝔰𝔱𝔯𝔲𝔤𝔤𝔢𝔯𝔢 𝔠𝔥𝔦 𝔳𝔲𝔬𝔩𝔢 𝔣𝔞𝔯𝔱𝔦 𝔡𝔢𝔩 𝔪𝔞𝔩𝔢"

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Esisteva un unico locale a Notturn Hall veramente adatto a divertirsi: si chiamava Coin, un night club moderno ed elegante che godeva di una pessima reputazione, essendo diventato fin dalla sua apertura un ritrovo in cui i ragazzi bevevano, rimorchiavano... o si procuravano "roba buona".

Io però conoscevo l'altra faccia di quel posto, il rovescio della moneta riservato soltanto alla gente facoltosa.

Era infatti necessario pagare delle somme esorbitanti per accedere alla saletta privata adiacente a quella principale. Lì non c'erano quasi mai adolescenti, dato che era frequentata perlopiù da uomini e donne che gestivano traffici non esattamente legali e avevano bisogno di un luogo nel quale incontrarsi per svolgere i loro affari loschi e, al tempo stesso, intrattenersi.

Non entrai dall'ingresso principale. Ricordavo benissimo come raggiungere il passaggio che io e Seth avevamo usato come via di fuga, quando mi aveva liberato cinque anni prima. Quella rimaneva la decisione più stupida e insensata che avesse mai preso -e lui ne prendeva parecchie- e che gli era quasi costata la vita, eppure sosteneva di non essersene pentito.

Personalmente, sospettavo che soffrisse di manie suicide. Non riuscivo a trovare nessun'altra ragione plausibile per cui si fosse impuntato a voler essere mio amico, malgrado ciò gli facesse soltanto rischiare la pelle. Forse avrei dovuto fargli notare che c'erano metodi meno masochisti per morire.

Appena giunsi alla fine del tunnel, mi bastò una spinta per rompere la serratura e aprire la botola. Ce n'era una collegata a ogni privé; di giorno erano tenute sigillate per motivi di sicurezza, di notte invece venivano sbloccate. In questo modo, i ricchi clienti del lato oscuro del Coin avevano la garanzia di potersi dileguare in fretta e in qualsiasi momento, in caso di problemi con la polizia -eventualità piuttosto remota, in realtà- o guai di altro genere.

Di solito, tra aprirmi la strada sbranando chiunque avesse provato a fermarmi e sgattaiolare dentro di nascosto, avrei di sicuro scelto la prima opzione. Tuttavia, per quanto mi scocciasse, volevo il suo aiuto e dubitavo che sarebbe stata collaborativa se avessi banchettato con il suo personale. Ed ero altrettanto certo che non mi avrebbero permesso di vederla neanche chiedendolo con gentilezza.

O magari sì, ma la gentilezza non era proprio il mio forte.

Mi arrampicai fuori dall'apertura. L'ambiente era piuttosto lussuoso, coperto di pannelli di legno lucidato con divanetti di pelle rossa e un tavolino su cui spiccava un lungo palo metallico. Richiusi lo sportello, risistemai il tappeto di raso che lo copriva, ci rimisi sopra il mobiletto che avevo scaraventato via aprendo la botola e uscii dal privé.

La sala era vuota, quasi identica a quella della discoteca eccetto che, al posto della pista da ballo, al centro era stata eretta una gigantesca gabbia attorno a un ring quadrato. I ricordi tentarono di assalirmi, i sibili che fischiavano nel silenzio come frecce.

Nella mia mente vorticarono delle immagini scialbe e confuse che si mescolavano tra di loro in un'accozzaglia di sangue, urla, fame e rabbia, ma il pensiero di Seth in pericolo mi fu sufficiente a respingerle e rimanere lucido.

Salii le scale di marmo che si aprivano ai lati del bancone e, tendendo le orecchie, presi a seguire un brusio di voci. Man mano che avanzavo, iniziai a distinguere qualche parola fino a che arrivai abbastanza vicino da poter ascoltare frammenti del loro discorso.

«... la fine di tuo padre».

«Non è quello che speri? È dalla sua morte che non mi ritieni all'altezza del comando, solo perché non ho un pendolo tra le gambe».

L'interlocutore rimase in silenzio per un secondo, prima di rispondere in tono cauto: «Fare accordi con loro non è una scelta saggia. Ti stai invischiando in qualcosa di più grande di te».

«Ehi, ragazzino! Non so come diavolo sei entrato, ma ti consiglio di andartene!»

Mi riscossi. Ero stato così impegnato a origliare che non mi ero reso conto di essere giunto a pochi metri dall'ufficio in cui si stava svolgendo la conversazione. Fuori era piazzata una guardia dalla stazza imponente, intenta a squadrarmi con un'espressione arcigna e una mano posata sulla pistola nella fondina.

«Devo vedere il tuo capo» replicai brusco, senza smettere di camminare nella sua direzione.

Un sorriso sghembo gli affiorò sul faccione. «Aspetterai».

Nel momento in cui fui alla sua portata, mi agguantò per la manica all'altezza della spalla e cercò di spingermi indietro. Non riuscì neanche a smuovermi.

Ebbe a malapena il tempo di emettere un verso stupito che gli avevo già afferrato la gola, quindi lo scaraventai contro la porta con tale violenza da scardinarla.

Entrai subito dopo. Le pareti dell'ufficio erano tappezzate di quadri raffiguranti paesaggi, albe e tramonti che dovevano avere un grande valore, sebbene fossi abbastanza ignorante in materia d'arte. Sui ripiani erano disposti dei modellini di macchine e all'interno di una grande teca di vetro erano esposti dei vasi in svariate forme e decorazioni pittoriche.

Il frastuono aveva fatto scattare in piedi l'anziano seduto davanti alla scrivania. Era basso e tarchiato, infilato in un completo elegante troppo stretto a giudicare dai bottoni della camicia che minacciavano di saltare sulla pancia. Era molto stempiato, il cranio coperto da ciuffi canuti che si diradavano in alcuni punti.

Lo avevo incontrato solo poche volte e non mi stupiva che non avessi riconosciuto la sua voce, ma rammentavo il suo nome: Gary Ackles, ex braccio destro del defunto Ronald Bailey.

Gary fissò lo scagnozzo svenuto a terra, poi spostò lo sguardo corrucciato su di me. «Io ti ho già visto...»

Lo ignorai. «Dobbiamo parlare, Rosalie».

La donna, che se ne stava a gambe accavallate su una poltrona intagliata, aveva un'aria seccata. «Buongiorno anche a te». Accennò alla porta che giaceva sul pavimento. «Per tua informazione, sarebbe stato sufficiente bussare».

«Ma certo!» Il volto di Gary si incupì, assumendo una smorfia disgustata. «Sei la bestiaccia dell'Arena. Uno dei De'Ath».

«Già. E se non vuoi che questa bestiaccia ti sbrani, ti consiglio di stare zitto».

Gli scoccai un'occhiataccia che lo indusse a ritrarsi con un balzo, sbattendo le gambe contro la sedia. Barcollò e si appoggiò alla scrivania per non cadere. Lo stomaco mi si contorse per l'eccitazione al pensiero delle mie zanne che gli laceravano le carne, della sua energia vitale che mi invadeva con quel calore intenso e piacevole...

Rosalie si alzò dalla scrivania. Una luce divertita le brillava negli occhi grandi e scuri, messi in risalto dal trucco. «Andiamo a parlare da un'altra parte, Nicholas? Così avremo più privacy».

Scrollai le spalle, salutai Gary con un sorrisetto dai canini sporgenti e uscii dall'ufficio. «Devo essere a Las Vegas entro stasera e non posso andare in un aeroporto. Procurami un volo privato» ordinai mentre ci incamminavano verso il loggione.

«Capisco che la galanteria in famiglia l'abbia presa tutta il tuo fratellone, ma ricorda che non sono al tuo servizio» replicò lei sprezzante.

Mi bloccai, assottigliando le palpebre. «Che ne sai di Callum?»

«So che è incredibilmente bello». Rosalie si abbandonò sul divano di velluto. «Non me l'avevi detto».

«Sarebbe stato inquietante se io l'avessi fatto». Mi appoggiai alla balaustra che sovrastava la sala principale, puntellato sui gomiti. «Che cosa voleva mio fratello da te?»

«Quello che vogliono tutti: un favore. Non ti dirò quale. Anche se è stato un pezzetto di ghiaccio, l'ho trovato comunque più educato di te».

Osservai il ring racchiuso da pesanti sbarre d'acciaio massiccio, ascoltandola a malapena. Non sarebbe più stata in grado di trattenermi adesso che ero cresciuto, tantomeno quando ero in preda alla furia omicida che amplificava i miei poteri.

All'epoca però ero un ragazzino, disgustosamente fragile e facile da sottomettere con la paura; se avessi potuto tornare indietro, mi sarei volentieri preso a pugni da solo.

Sfiorai con il pollice una delle cicatrici che mi segnavano la gola. A quel contatto il dolore si risvegliò come un'eco e percepii di nuovo il freddo metallo che quasi mi bloccava il respiro.

«Glielo hai raccontato?» mormorai, disprezzando il tremito tradito dalla mia voce.

«No. Per quanto ne sa, io e te non ci conosciamo. È protettivo nei tuoi confronti, se scoprisse del tuo passato qui... beh, potrebbe rovinare i miei affari con lui».

Scoppiai a ridere. «Rovinerebbe gli affari, o le tue probabilità di portartelo a letto?»

«Sto soltanto onorando il nostro patto... Nicholas». La sentii schioccare le labbra. «Questo nome ti sta davvero bene, sai? Il tuo ladruncolo ha ottimo gusto».

Storsi il naso. «È un truffatore, non un ladro». Ruotai il capo e incrociai il suo sguardo, dello stesso marrone del cioccolato fondente. «Hai intenzione di passeggiare ancora per molto sul viale dei ricordi? Avrei un po' di fretta» sbottai spazientito.

Rosalie mi mostrò il telefono che teneva in mano. «Già fatto. Il tuo volo decollerà tra mezz'ora. Se vuoi, posso farti scortare al jet da uno dei miei uomini». Il suo viso si indurì e aggiunse con una nota rancorosa: «Stavolta il mio debito con te si è estinto in maniera definitiva, chiaro?»

Feci spallucce. Tornai a guardare il ring per un istante, poi mi raddrizzai e cominciai ad allontanarmi. Dopo qualche passo, mi fermai. «Ah, Rosalie» esclamai, girandomi verso di lei. «Posso anche averti risparmiato la vita, ma prova a fare del male a mio fratello e rimedierò presto al mio errore».

«Non è stato un errore. Semplicemente, uccidere non era ancora diventato il tuo hobby preferito». Un velo di amarezza le calò sul volto. «Ti avevo avvertito, Nicholas. La vendetta consuma».

Nonostante non mi importasse della sua opinione, quelle parole mi caddero addosso con il peso di un macigno, perché sapevo che aveva ragione.

Ed ero certo che, presto o tardi, anche i miei fratelli e Seth si sarebbero accorti che avevo smesso da tempo di essere la persona che ricordavano. Non ne rimasto più nulla.

Solo il mostro.

«Faccio ciò per cui sono nato».

Era ormai notte quando arrivai nel luogo fissato per l'incontro, anche se Las Vegas risplendeva di luci e di vita come se la giornata fosse appena cominciata. E, in effetti, il divertimento doveva ancora iniziare e nessuno, a parte me, immaginava che la Città del Peccato prima dell'alba si sarebbe macchiata di un vizio ben peggiore dell'alcol o del gioco d'azzardo.

Mi ritrovai davanti a un locale abbandonato in una zona piuttosto isolata. Al mio posto, Callum avrebbe fatto una lunga e scrupolosa ricognizione per accertarsi di non cadere in una trappola. A me però non piaceva tutta quella pianificazione, era noiosa e mi privava del brivido della caccia.

Così mi limitai a una rapida occhiata ed entrai, le mani infilate nelle tasche. Dentro era piuttosto freddo, anche se la mia natura mi rendeva difficile percepire la temperatura dell'ambiente circostante. L'unica fonte di illuminazione erano delle vecchie plafoniere sul soffitto che emanavano una spettrale luce soffusa.

Una dozzina di uomini mi accolse ad armi spianate. Alcuni stavano giocando a dadi o a carte attorno ai tavolini, altri bevevano spaparanzati sugli sgabelli, ma al mio ingresso erano scattati subito sull'attenti.

Continuai ad avanzare sotto il tiro di fucili e pistole, finché la voce rauca che avevo sentito al telefono infranse il silenzio: «Fermati lì, mostro».

Obbedii, osando sbirciare in direzione di Seth solo per un istante. Era legato a una sedia addossata a una colonna, con una striscia di scotch sulla bocca che doveva essere una vera agonia per uno tanto logorroico. Appena i nostri occhi si incontrarono, smise di ribellarsi alle manette che lo trattenevano e la sua espressione si fece un po' meno tesa.

Il volto era coperto di graffi, i riccioli scuri appiccicati alla fronte imperlata di sudore, e aveva un taglio sanguinante sul naso e un altro sul sopracciglio.

Nel vedere le sue ferite una vampata di odio puro mi assalì e mi costrinsi a distogliere lo sguardo per non perdere il controllo, anche se una minuscola parte di me pensava che quello stato lo rendesse in qualche modo più... più...

Gli donava, ecco.

«Soggetto Zero. Ti chiami così, giusto?» commentò il capo, tenendo la pistola puntata contro Seth. Dal lampo ironico che gli balenò sulla faccia, intuii che non si aspettava che fossi un ragazzino; meglio, gli avrebbe fatto abbassare la guardia. «Cosa sei? Un topo scappato dal laboratorio?»

Lo fissai con attenzione. Aveva un aspetto anonimo, il tipico criminale borioso con una bombetta sulla testa e un paio di folti baffi, talmente assetato di denaro che non si era reso conto di essere stato fregato.

Chiunque lo aveva pagato per catturarmi, non nutriva nessun interesse ad assicurarsi che avesse successo o che quantomeno ne uscisse vivo, altrimenti lo avrebbe informato meglio sulla mia natura e sulle mie capacità. No, doveva esserci qualcosa di più dietro quella storia.

«Non ha importanza. La vera domanda è chi ti ha assunto per compiere questa missione suicida».

Mr. Bombetta fece un cenno con il mento.

Abbozzai un sorriso sardonico, intanto che i suoi uomini si affrettavano ad accerchiarmi; la loro tensione sarebbe stata palpabile anche se non avessi potuto udire i cuori che battevano all'impazzata, o l'odore acre della paura che permeava l'aria mescolato alla puzza di tabacco.

Lanciai un'occhiata a uno dei tirapiedi, che si stava avvicinando con una robusta catena alla cui estremità pendevano due anelli metallici. «Non ti conviene» lo avvisai in un sussurro, facendolo trasalire.

«In ginocchio» mi ordinò il capo. «E metti le mani dietro la schiena, altrimenti...»

«Dato che mi sento generoso, ti propongo un accordo» lo interruppi con leggerezza. «Se mi dai il nome della persona per cui lavori e lasci andare il mio amico, prometto che ucciderò soltanto...» Feci finta di rifletterci. «La metà di voi, come risarcimento per il disturbo. Tu e gli altri potrete tornarvene nel buco da cui venite e vivremo tutti felici e contenti. Che te ne pare?»

Mr. Bombetta digrignò i denti. Abbassò la sicura e premette più forte la pistola sulla tempia di Seth, che si irrigidì. «Non sei nelle condizioni di fare minacce».

Decisi che mi ero stancato.

Scattai in avanti e, con un balzo, ricoprii la distanza che ci separava. Prima che la sua banda potesse reagire in qualunque modo, gli torsi il polso così forte da rompergli l'osso e, mentre la pistola cadeva a terra, lo scaraventai contro la vetrina degli alcolici del bar.

Il fracasso delle bottiglie che si frantumavano sovrastò quello dei suoi lamenti.

Osservai al rallentatore gli uomini che sollevavano le armi e udii i grilletti che venivano abbassati quasi in contemporanea. Afferrai Seth per la camicia e lo trascinai dietro la colonna, ma avevo usato troppa forza; la sedia si ribaltò e sbatté violentemente sul pavimento, spaccandosi all'impatto.

«Porca miseria, Nik» gemette Seth, appena rimossi il pezzo di scotch. «Hai la delicatezza di un bulldozer!»

«Zitto e rimani qui» sbuffai, liberandolo dalle manette con un gesto secco.

Di cosa si lamentava? Era vivo e sembrava avere tutte le vertebre ancora intatte, il mio salvataggio era stato impeccabile.

Uscii allo scoperto senza neanche aspettare che i proiettili smettessero di volare. Ero veloce, troppo, quasi invisibile per i lenti riflessi degli umani.

Mi avventai su uno di loro e gli squarciai la gola con un morso. Il sangue mi imbrattò il volto, il suo sapore ferroso mi fece esplodere l'adrenalina nel corpo. Usai il cadavere come scudo, per poi scagliarmi addosso a quello dopo. I miei artigli lo aprirono in due dal petto all'ombelico, facendolo strillare. Un altro ancora cercò di spararmi, ma era vicino e fui svelto a deviare il revolver verso uno dei suoi compagni, che stramazzò al suolo con un grido. Quindi gli spezzai l'osso del collo come se fosse un bastoncino e passai al successivo.

A ogni anima che assorbivo, l'eccitazione mi offuscava sempre di più la mente. La sentivo bruciarmi nelle vene, così come sentivo il mio potere che accresceva man mano che la fame si placava. Ma non era abbastanza, non lo era mai.

Perché oltre a essere un bisogno, uccidere era un istinto: ferino, atavico, viscerale. Era naturale quanto respirare, e soprattutto mi piaceva.

Adoravo la sensazione di assoluta libertà che mi faceva provare. Poter essere me stesso senza freni né inibizioni, libero dai bisbigli che mi perseguitavano fin da bambino o da quei sentimenti che ero incapace di comprendere. La violenza era il mio vero habitat, l'unico a cui appartenevo.

Agguantai l'ennesima preda e, dopo averle sfracellato la testa contro il muro, mi voltai per continuare. All'improvviso un dolore atroce mi attraversò il petto e arretrai di un passo, rischiando di cadere. Mentre sputavo un grumo scarlatto dalla bocca, la ferita già aveva iniziato a rimarginarsi.

Scoccai uno sguardo furioso all'uomo che mi aveva sparato. Era paralizzato, gli occhi sbarrati da un misto di terrore e stupore. Alla fine si riscosse, mollò la rivoltella e scappò a gambe levate.

Avrei potuto raggiungerlo in un baleno, ma sarebbe stata fatica sprecata. Mi chinai a raccogliere uno dei fucili caduti, presi la mira e lo lanciai con tutta la mia forza. La canna gli si conficcò dritta nella nuca.

Fremente, mi guardai attorno a caccia di un nuovo bersaglio. Ma invano. Erano tutti morti, ridotti a brandelli e immersi in pozze di sangue che stavano dilagando ovunque. A quel punto mi esaminai e mi resi conto di esserne rivestito anch'io dalla testa ai piedi, cosa che mi fece affiorare un ghigno.

Quando percepii un movimento dietro di me, non riuscii a controllarmi. Mi girai d'impeto e saltai addosso al superstite con i canini sfoderati, pronto ad azzannarlo.

Una voce famigliare mi bloccò: «Sono io, Nik! Sono io!»

Dovetti strizzare le palpebre per mettere a fuoco l'immagine di Seth che mi fissava, imprigionato sotto il mio peso. Per un secondo rimasi incantato dalle sue profonde iridi color pece, poi mi ricordai che ero stato in procinto di nutrirmi di lui e mi ritrassi di colpo.

«Dannazione, idiota!» sbraitai arrabbiato. «Quante volte devo ripeterti di non...»

«... disturbarti durante i pasti, lo so». Seth tese la mano per farsi aiutare a rialzarsi, ma lo ignorai e mi incamminai in direzione del bar. «Okay, tranquillo. Faccio da solo. Non preoccuparti» borbottò allora, tirandosi a sedere.

Aggirai il bancone, dove ancora si trovava accasciato il capo del gruppetto. La bombetta era scivolata via, rivelando una chioma brizzolata. Sebbene fosse tramortito, si svegliò per bene nel momento in cui lo afferrai per il retro della giacca e presi a trascinarlo.

«No, ti prego! No! Ti dirò tutto quello che vuoi, lo giuro!» ansimò supplichevole, tentando di divincolarsi alla mia presa.

Lo trasportai fino a uno sgabello vicino a un tavolino, ce lo gettai sopra e mi accovacciai davanti a lui. Gli perquisii le tasche interne della giacca e ne tirai fuori un telefono e un documento su cui lessi il suo nome. «D'accordo, Frank. Ti ascolto».

«P-poi mi lascerai andare?»

Sorrisi. Non doveva essere un bello spettacolo, considerato che avevo la bocca sporca di sangue. «È possibile».

«Ehm, Nik? Se non ti dispiace, io dovrei andare a...» Seth per poco non inciampò su un cadavere dalle budella sporgenti e si portò una mano allo stomaco. «A vomitare» concluse orripilato, prima di precipitarsi fuori dalla porta.

Avevo dimenticato quanto fosse facilmente impressionabile.

«Allora, torniamo a noi, Frank. La prima è facile: per chi lavori?»

L'uomo ebbe un attimo di titubanza, ma mi bastò produrre un ringhio dal fondo della gola per farlo sbiancare. Cominciò a parlare a raffica. «Si fa chiamare... Uranus. Ha messo delle taglie su di te, su tutta la tua famiglia, ma vuole che i soggetti siano consegnati vivi. Sono cifre con parecchi zeri, soprattutto la tua. È la più alta, hai la massima priorità. Non so altro, lo giuro, non sto mentendo».

Aggrottai la fronte, riflettendo sulle sue parole. Sapevo che loro usavano nomi in codice tratti dalla mitologia, ma non mi risultava che qualcuno usasse quello. Uranus, la divinità primordiale che ha generato i titani con sua moglie e madre Gea.

E comunque dubitavo che si sarebbero esposti così tanto da ricorrere a dei mercenari prezzolati. Possedevano una quantità di mezzi e denaro pressoché illimitata, potevano permettersi di meglio.

Sospirai. «Che avresti fatto dopo avermi preso? Hai il suo numero o...»

Frank abbassò gli occhi sulle mie dita insanguinate che gli picchiettavano sulla gamba e deglutì. Ormai era quasi violaceo. «Un indirizzo e-mail, non il suo però. È una rete di contatti. Se pure tu riuscissi a risalire a lui, scoprirebbe di certo che lo stai cercando e avrebbe tutto il tempo per sparire».

«C'è una taglia anche su Seth?»

«Il ludopatico? No, veniva solo menzionato tra le informazioni per arrivare a te» balbettò in tono tremante. «Non vale niente».

Gli strinsi il ginocchio e i miei artigli penetrarono in profondità nella carne, strappandogli uno strillo sofferente. Portai il volto a pochi centimetri dal suo e dissi in un sibilo gelido: «Vale per me» e gli sferrai un pugno in faccia.

Forse poteva dirmi di più, ma non avevo dosato bene la potenza del colpo. La testa schizzò dal collo come una palla da baseball, il resto del corpo oscillò sullo sgabello e, quando estrassi gli artigli, scivolò sul pavimento.

Feci uno sbuffo contrariato, mi intascai il suo cellulare e uscii da quello che si era trasformato in un mattatoio. Trovai Seth sul retro dell'edificio, intento a fumare con la schiena appoggiata a un camion; probabilmente era il veicolo che Frank e il suo gruppetto di scimpanzè spelacchiati avevano intenzione di usare per portarmi via.

«Ti ho appena salvato il culo per la diciassettesima volta. Potresti evitare di ammazzarti da solo» bofonchiai, indicando la sigaretta.

«Il solito brontolone». Seth ridacchiò, ma poi si toccò il costato con un sussulto. «Stai davvero tenendo il conto dei salvataggi o hai sparato un numero a caso?»

«Certo che li sto contando. Sei l'unico al mondo che riesce a essere più bravo di me nel far incazzare la gente». Senza volerlo, la mia voce si ammorbidì. «Stai bene?»

«Mi conosci. Sono abituato a essere pestato». Seth fece un ultimo tiro, gettò il mozzicone a terra e lo schiacciò con la scarpa. Quando risollevò il capo, aveva un sorriso tenero sulle labbra che mi mozzò il respiro. «Grazie per essere venuto, a proposito. Non me lo sarei meritato, visto come ti ho trattato negli ultimi mesi...»

Feci vagare lo sguardo per il vicolo deserto in modo da sfuggire al suo, altrimenti ero sicuro che vi avrebbe scovato tutta la mia delusione. Era più bravo persino di me a cogliere le mie stesse emozioni... non che ci volesse molto, dato che non avevo quasi mai la minima idea di ciò che provavo.

«In effetti, sono stato tentato di lasciare che ti uccidessero. Sarebbe stato bello farmi un selfie insieme al tuo cadavere e postarlo con la scritta: "Così impari a scaricarmi con i miei irritanti fratelli"».

«Che piccolo bugiardo».

Se chiunque altro si fosse rivolto a me con quel nomignolo, l'avrei strangolato senza esitazione. Ma a Seth lo concedevo e non mi dava nemmeno fastidio; non ne capivo appieno il motivo, ma ogni cosa sembrava migliore se era fatta o detta da lui. Era sempre stato così.

Quando mi accorsi che mi stava venendo incontro, mossi istintivamente un passo indietro. Ero ancora sovreccitato per l'abbuffata, era meglio che mi stesse lontano fino a che non mi fossi calmato. «Sono coperto di sangue. Quella cosa viscida che ti dà la nausea, ricordi? Sarebbe incoerente da parte tua...»

«Oh, stai zitto!» Seth si avvicinò zoppicante e mi avvolse tra le braccia, posando il mento nell'incavo della mia spalla. «Mi sei mancato da morire, Nik».

Malgrado il mio primo impulso fosse di respingerlo, rimasi immobile. Non ebbi il coraggio di ricambiarlo, sia perché doveva avere dei lividi sotto la camicia e non volevo rischiare di fargli male, sia perché non ero abituato alle manifestazioni d'affetto.

In particolare, non sopportavo granché gli abbracci, la mia mente li collegava a Lucius e quelli non mi erano mai piaciuti. Dopo la sua morte, mi ero ripromesso di non consentire più a nessuno di darmeli... per ora avevo fatto soltanto tre eccezioni, tra cui Seth.

Nonostante ciò, quando si staccò da me, sentii un bizzarro senso di vuoto. Avrei preferito essere torturato piuttosto che ammetterlo, ma avrei voluto che quel contatto durasse di più.

«Andiamo. Stanotte dormi sul mio divano». Seth mi scompigliò i capelli con fare affettuoso. «Voglio mostrarti l'attico che ho affittato! È una figata!»

«Non sono un esperto di convenzioni sociali, ma di solito non è proprio geniale andare a spasso conciati come dei serial killer».

«Scherzi, Nik? Siamo a Las Vegas, al massimo penseranno che siamo stati a una festa in maschera. È la ragione per cui amo questa città, oltre al gioco d'azzardo». Una luce infantile scintillò nei suoi occhi scuri, accesi da un sorrisetto che gli scavava una fossetta all'angolo della bocca. «È folle».

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