𝕮𝖆𝖕𝖎𝖙𝖔𝖑𝖔 8 (Arya)
"𝔄𝔫𝔠𝔥𝔢 𝔰𝔢 𝔥𝔞𝔦 𝔩𝔢 𝔞𝔩𝔦,
𝔢̀ 𝔱𝔲𝔬 𝔡𝔦𝔯𝔦𝔱𝔱𝔬 𝔰𝔠𝔢𝔤𝔩𝔦𝔢𝔯𝔢
𝔡𝔦 𝔯𝔦𝔪𝔞𝔫𝔢𝔯𝔢 𝔞 𝔱𝔢𝔯𝔯𝔞"
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Quando Eleanor si fu allontanata, ripresi a osservare il tavolo dei De'Ath con irresistibile interesse. Non potevo farci nulla, non riuscivo nemmeno a spiegarlo, ma ero attratta da loro in un modo che mi era difficile da comprendere e che andava oltre al semplice aspetto fisico.
Perché sì, erano oggettivamente bellissimi e negarlo sarebbe stato un insulto all'estetica nonché la bugia più grossa dai tempi della Donazione di Costantino -stavo ripassando storia durante il pranzo, o almeno ci provavo.
Traduzione: i De'Ath erano tutti, senza eccezioni, fin troppo perfetti. Così perfetti che stentavo a credere che la genetica potesse essere stata tanto generosa con l'intera famiglia.
«Magari voleva compensare la loro gafe» obiettò Ethan, dopo che mi ero lasciata sfuggire un commento a riguardo.
Gafe significa "sfiga" in spagnolo. E, stando alla loro storia riportata nell'articolo di giornale e alle dicerie che avevano cominciato a dilagare per la scuola, quei ragazzi sembravano averne avuta parecchia. Se era la verità.
«Secondo me, non sono fratelli. Non di sangue almeno».
Mi voltai verso Mac, seduto di fronte a me. «Cosa te lo fa pensare?»
«Cinque gemelli in un colpo solo?» replicò lui, intingendo un'aletta di pollo nel ketchup. «Chiamala compassione per la madre».
Ridemmo all'unisono, tranne Deena che ci lanciò uno sguardo di rimprovero come per ricordarci che stavamo facendo battute su una donna morta in modo orribile e cruento. Probabilmente eravamo anche noi delle brutte persone.
«Forse sono stati adottati» suggerì Layla. Aveva gli occhi scuri puntati nella mia stessa direzione, solo che non capivo quale di loro stesse fissando con esattezza. All'improvviso aggrottò la fronte. «Oh, uno se ne sta andando».
Girai la testa con uno scatto così improvviso da farmi dolere il collo. L'unico biondo del gruppetto, Joel, si era appena alzato sussurrando qualcosa che fece corrucciare sua sorella, la quale gli afferrò un braccio. Il fratello le rispose con un ghigno da schiaffi stampato sulla faccia, per poi liberarsi dalla sua presa e uscire dalla mensa a passo sicuro.
Mac arricciò il naso. «Non mi piace. Ha l'aria di essere un montato».
«Già. E io dovrò anche farci il compito di letteratura insieme» sospirai rassegnata.
Mentre il professor Winkler aveva cominciato a elencare le coppie, avevo tenuto le dita incrociate nella speranza di finire con uno dei miei amici, o ancora meglio con Remiel. Invece la fortuna mi aveva dato un bel calcio nel didietro, gettandomi in pasto a un concentrato di fascino e impertinenza, una combinazione che era molto pericolosa per me. Lo avevo imparato a mie spese.
Deena mi minacciò con la forchetta. «Non fare stupidaggini, Arya. Ricorda che mi hai fatto una promessa».
«Lo so, lo so. Basta con i cattivi ragazzi, i cattivi ragazzi non sono cosa sana. Ormai è la mia preghiera del mattino». Feci una smorfia. «E comunque anche Mac è con un De'Ath. Perché non gli fai lo stesso discorsetto?»
«Perché sa che non mi serve». Mac si tolse il berretto, passandosi una mano nei capelli corvini. «Primo, non c'è rischio che mi prenda una cotta per Isaac...»
«Ah no?» lo incalzai, un sopracciglio inarcato.
Con i capelli ramati, un paio di svegli occhi di un verde lucido e una dolcezza spaurita sul volto, a cui si aggiungeva un fisico tonico sepolto da una felpa larga, mi era difficile credere che escludesse con tale fermezza l'eventualità che potesse piacergli almeno un pochino.
Un vago rossore comparve sulle guance di Mac. «Secondo» proseguì, fingendo che non avessi parlato. «Non sono te».
Deena concordò con un severo cenno d'assenso. Allora guardai Layla in cerca di sostegno, ma la mia ancora di salvezza si sciolse in un sorriso benevolo non proprio convincente.
«La smettete? Non sono così irresponsabile come volete farmi sembrare».
Ethan esplose in un colpo di tosse tanto violento quanto falso, tra cui distinsi un inequivocabile "bell'imbusto", e gli diedi un pizzicotto sul fianco. «Ahia, hermana!» gemette con un sussulto, ma era chiaro che si stesse divertendo un sacco.
Misi il broncio e presi a sfogliare le pagine del libro di storia, che dall'inizio del pranzo giaceva aperto accanto al mio vassoio da cui avevo già spazzolato via tutto, senza che lo avessi degnato di un'occhiata.
Ethan avvicinò la sedia alla mia, posando il mento coperto dal cerotto sul mio gomito ripiegato sul tavolo. L'odore del suo dopobarba mi giunse alle narici e venni solleticata dal ciuffo castano sparato in alto. «Arya?» sussurrò sottovoce, cosicché gli altri non ci sentissero.
«Mmh» mugolai distratta.
«È un problema se sto da te per il resto della settimana?»
Lo osservai accigliata. Era assurdo che, persino dopo anni e uno stanzino arredato apposta per lui, ancora mi chiedesse il permesso. «Ethan. Mia madre in pratica tiene i moduli per l'adozione nel comodino. Non aspetta altro che tu ti decida a fare le valigie per trasferirti».
Lui tentò di ridacchiare, ma ne uscì un suono incerto. «I miei si ammazzerebbero a vicenda in un epico duello medievale, se me ne andassi».
Mi morsi forte la lingua per non farmi scappare che me ne fregavo della salute dei suoi genitori. Nonostante ne fosse terrorizzato, nonostante a loro non dovesse nulla, sapevo che voleva troppo bene a entrambi per abbandonarli.
Una parte di me avrebbe voluto dispiacersi per la storia di Pablo Ramos, stimatissimo poliziotto la cui carriera era stata stroncata da un crollo nervoso, in seguito all'uccisione di un civile nel corso di una sparatoria. Un bambino. Era stato un incidente, e l'intero dipartimento si era schierato dalla parte del collega, ma la stampa era stata implacabile nel ritenerlo il responsabile della tragedia.
Alla fine, i sensi di colpa e l'opinione pubblica lo avevano fatto diventare talmente instabile che consentirgli di girare con un'arma e un distintivo sarebbe stato un azzardo. Così, lo sceriffo Charles Black non aveva avuto altra scelta che costringerlo alle dimissioni.
Perso il lavoro, diffamato, con un matrimonio in crisi e un figlio piccolo, Pablo Ramos era sprofondato nell'alcol. Da allora era stato arrestato per reati minori un numero incalcolabile di volte, ma ne era sempre uscito pulito grazie alle pressioni dei suoi ex colleghi, che gli erano sempre rimasti fedeli.
Quando lo aveva licenziato, sia pure con tutti gli onori, mio padre si era inimicato parecchi di loro, cosa non da poco in una ristretta cittadina come Notturn Hall. Probabilmente anche per questo aveva dovuto essere cauto nei suoi tentativi di allontanare Ethan da casa Ramos.
Sebbene non fosse a conoscenza dei maltrattamenti che il mio migliore amico subiva, aveva fatto di tutto per salvarlo da quell'ambiente tossico fatto di grida e litigi anche nel cuore della notte. Poi papà era morto, e mi piaceva pensare di aver portato a termine la sua missione.
Perciò capivo, capivo davvero la ragione per cui Ethan continuasse ad amare i suoi genitori, ad aggrapparsi all'idea di ciò che erano stati un tempo. Capivo tutto... ma li odiavo e mai avrei concesso loro nemmeno un briciolo di compassione. Mai.
Perché avevano fatto del male a lui, a mio fratello, alla mia metà mancante. E questo non lo potevo perdonare a nessuno.
Ethan si raddrizzò. «Sai che non prenderai la sufficienza in storia neanche se provi a corrompere il professor Turner con uno spogliarello, vero?»
«Sei il peggior amico di questo mondo» bofonchiai, facendogli la linguaccia.
«So come ricattare Mac per obbligarlo a farci copiare».
Gli cinsi le spalle con affetto. «Mi correggo: sei il miglior amico di questo mondo».
Mac increspò le sopracciglia, che sparirono sotto la visiera del berretto. «Nella prossima vita, voglio trovarmi delle compagnie con un quoziente intellettivo più alto del vostro».
«Zitto o spiffero a tutti del poster sconcio nel tuo armadio» replicò Ethan compiaciuto, beccandosi per tutta risposta un dito medio.
D'un tratto la mia attenzione venne richiamata dal tavolo dei De'Ath. Vidi Remiel che sgattaiolava fuori dalla mensa con lo zaino su una spalla, da solo; era la prima volta nell'arco della mattina che avevo l'occasione di prenderlo in disparte, per parlargli senza i suoi fratelli nei dintorni. La colsi al volo.
Richiusi il libro, lo ficcai alla rinfusa nella borsa e me la caricai a tracolla mentre mi sollevavo dalla sedia.
«Dove vai così di fretta?» obiettò Deena perplessa.
«Bagno» buttai lì.
Mi precipitai in corridoio e non mi fu difficile individuare la testa mora di Remiel che girava l'angolo. Lo raggiunsi di corsa, ignorando gli sguardi degli studenti che si apprestavano ad andare in biblioteca, in palestra o a partecipare ad altre attività extra-scolastiche.
«Ehi» lo chiamai.
Remiel si voltò a fissarmi, fermandosi. «Ci conosciamo?»
Aveva un'espressione così confusa che pensai che si fosse sul serio dimenticato di me. Ma poi notai lo scintillio affabile nei suoi stupendi occhi verde mare e rammentai che ero stata io a pregarlo di non raccontare a nessuno del mio incidente a Crystal Lake.
«Ottima interpretazione, bravo» commentai, rivolgendogli un sorriso. Gli feci un cenno e mi infilai nell'aula vuota più vicina. Remiel esitò, poi mi seguì titubante. «Anche se, dopo aver rovinato il tappeto della tua costosissima Audi, avresti il diritto di appendere striscioni con su scritto quello che ho combinato».
«Accidenti, hai svelato il mio piano malefico».
Scoppiai a ridere. Dopo essermi ricomposta, proseguii in tono sincero: «Però mi dispiace. Ti posso dare i soldi per cambiarlo...» Un guizzo divertito gli balenò sul viso e mi resi conto che era una proposta ridicola da fare a uno che viveva in un castello gigantesco. «Okay, sì, so che non ti servono. Era più una questione di principio».
Remiel mi rassicurò con un gesto della mano. «Arya, grazie, ma non ti devi preoccupare. Stavi male e mi ha fatto piacere aiutarti. Tutto qui».
Provai un pizzico di delusione. Una parte di me aveva sperato che la usasse come scusa per invitarmi a uscire, magari pagandogli il biglietto del cinema per farmi perdonare o anche un semplice cornetto al bar della scuola prima delle lezioni.
Stavo già meditando di farlo al posto suo, quando mi tornarono in mente le sue parole: "A differenza tua, è abituato a fare queste cose". E mi sorse un dubbio. Quante altre ragazze con cui suo fratello era stato a letto aveva riaccompagnato a casa? Ero soltanto una delle tante?
Remiel si sistemò meglio la bretella dello zaino, le labbra incurvate verso l'alto che addolcivano ancora di più i suoi lineamenti. «Allora, ehm, ci vediamo».
«Perché non mi hai detto di essere un De'Ath?»
La domanda lo fece impietrire. Rimase immobile per un lungo istante, poi gettò la cartella sul pavimento e si appoggiò sul bordo di uno dei banchi in prima fila.
«Non è mai una buona pubblicità» sospirò, giocherellando con il ciondolo che gli oscillava sul petto.
Avevo notato che ne portavano uno identico anche tutti i suoi fratelli. Forse, oltre a essere lo stemma della loro famiglia, era ancora di più il simbolo del loro legame. Sembravano molto uniti.
Tentai di immaginare me ed Eryn ad avere un rapporto simile, invece affiorò una scena con mia sorella che usava la catenina d'argento per strangolarmi nel sonno e la trovai decisamente più azzeccata.
Mi sedetti al suo fianco. «Voglio che tu sappia che non bado granché a quelle cose che dicono su di voi. Mi piace conoscere, prima di giudicare» spiegai, dandogli una spintarella giocosa.
Remiel mi fissò, di nuovo con la stessa espressione che aveva assunto in auto quando mi aveva augurato di non incontrarci mai più. Aprì la bocca, ma poi una smorfia corrucciata gli calò sul viso. Inspirò in maniera rumorosa e con insistenza, quasi stesse fiutando l'aria, e per un attimo mi parve disorientato.
«Devo andare» sussurrò in tono brusco. Recuperò lo zaino e si fiondò fuori dall'aula.
Io rimasi come uno stoccafisso, frastornata dall'accaduto. Non capivo che cosa potesse averlo turbato così tanto da farlo dileguare in quel modo... e perché mi aveva odorata?
Non riuscii a resistere all'impulso di portarmi il naso alle ascelle, provando un certo sollievo nel constatare che non puzzavo, e mi chiesi se Remiel nutrisse una qualche avversione per il deodorante al melograno.
Continuavo a non credere che i De'Ath fossero pazzi, ma strani lo erano di certo.
Mi alzai e tornai nel corridoio ormai deserto. Non mi ero ancora mossa per partire alla ricerca dei miei amici che una mano mi agguantò il polso con fermezza, facendomi trasalire per lo spavento.
«Josh!»
Il ragazzo mi rivolse un cipiglio stizzito, la mascella spigolosa contratta e gli occhi scuri ridotti a due fessure. «Dobbiamo parlare».
«Neanche per sogno!» Cercai di divincolarmi, ma la sua presa era peggio di una tenaglia. «Mollami!»
Per tutta risposta, Josh rafforzò la stretta e mi trascinò a forza verso l'uscita.
Anche se in passato avevo ricevuto delle lezioni di autodifesa da John, il migliore amico di mio padre, non facevo pratica da parecchio e lui aveva dalla sua un decennio di allenamenti di basket che gli avevano regalato un fisico scolpito contro cui potevo ben poco.
Mi spinse oltre la porta, nel cortile sul retro della scuola, e la sbatté alle proprie spalle. Una folata di vento mi agitò la chioma corvina e scompigliò i suoi capelli castano chiaro, che doveva aver accorciato durante le vacanze di Natale.
«Ma che problemi hai?» sbottai infuriata, massaggiandomi il polso arrossato. «Anche se non dovrei sorprendermi. Hai un pallone bucato al posto del cervello».
«Sabato. Eri alla festa di Andrew?»
Non potei non rabbrividire al fremito furioso nella sua voce. «Non sono affari tuoi. E poi che fai, mi pedini adesso?»
«Quindi c'eri» dedusse Josh con fare accusatorio. «Andrew ha detto di averti vista. E che te ne sei andata con qualcuno. Chi era? Che ci hai fatto?»
Di colpo divenni paonazza, assalita da un misto di imbarazzo e rabbia. «Mi spieghi che diavolo te ne frega? Ci siamo lasciati! Ficcatelo in quella zucca vuota che ti ritrovi!»
«No, tu mi hai lasciato».
Lottai con tutta me stessa per mantenere la calma, nonostante la voglia matta di prenderlo a schiaffi. Trassi un respiro profondo. «Josh, sto provando a essere comprensiva, ma questa cosa inizia a stancarmi. Devi fartela passare, altrimenti giuro che andrò a denunciarti direttamente dallo sceriffo Keyne. Lo sai che mi fa da zio ed è stato anche in guerra?»
Per precisare: non era una balla.
John Keyne aveva davvero prestato servizio militare nei Marines, era così che aveva conosciuto mio padre; avevano combattuto nella stessa unità per sette anni, prima che entrambi decidessero di entrare in polizia.
Okay, dubitavo che avrebbe seriamente fatto del male a un bulletto adolescente che mi perseguitava -o forse sì, mi appuntai di consultarlo a riguardo-, ma di solito come minaccia funzionava.
Quella volta no.
Quasi non mi avesse sentito, Josh fece un passo in avanti e io arretrai d'istinto. «Voglio solo il suo nome, Arya. Voglio sapere con chi mi hai rimpiazzato».
Mi venne da ridere. Era ironico che, anche volendo, non avrei potuto soddisfare la sua richiesta. Infatti, mi ero accorta solo in quel momento che non avevo la più pallida idea di come si chiamasse il De'Ath con cui avevo passato la notte. Il pensiero di chiederlo a Remiel non mi aveva neanche sfiorata.
Allargai le braccia. «Non lo so. Contento?»
Spoiler: non era contento.
«Bugiarda. Dimmelo» ordinò Josh, serrando i pugni.
«Basta, io me ne vado».
Non feci in tempo a finire di pronunciare quelle parole che mi aveva già spintonata contro un albero. Con il cuore che mi galoppava in gola, mi guardai attorno. A parte noi, scorsi soltanto un ragazzo rannicchiato sull'erba con la schiena premuta al muro della scuola. Stava disegnando su un quaderno che teneva tra le ginocchia, isolato dal mondo grazie a un paio di cuffie.
Ancora prima che per i suoi capelli platinati, lo riconobbi dallo sguardo gelido che scoccò nella nostra direzione. I suoi occhi così assurdamente glaciali ci scrutarono per un secondo, io schiacciata al tronco e Josh che mi incombeva di fronte, poi tornò a concentrarsi sul suo foglio con uno sbuffo.
Per carità, non volevo essere trattata da damigella in pericolo, ma lo mandai comunque a quel paese.
«Dimmi il nome di quello stronzo!»
«Stammi alla larga, Josh!»
Non provai a respingerlo. Invece ripensai a un vecchio consiglio che mi aveva dato John, quando mi raccontava di uno dei trucchetti che usava da piccolo per stendere gli altri ragazzi dell'orfanotrofio che lo infastidivano, sebbene fossero molto più grossi: sfruttare la loro stazza.
Così gli agganciai la caviglia con il piede e diedi uno strattone. Josh si sbilanciò, la sorpresa riflessa sul suo volto, e gli sferrai una gomitata dritta sul naso con tutta la forza che avevo, sgusciando via dalla parte opposta.
«Maledetta putt...»
Non lo vidi arrivare.
Un attimo prima, Josh si stava per avventare su di me. Quello dopo veniva letteralmente scagliato in aria come una bambola di pezza e atterrò in mezzo a un groviglio di cespugli a qualche metro di distanza. Lo schiocco che risuonò all'impatto mi fece accapponare la pelle.
Alexander mi passò davanti senza filarmi di striscio, quasi non esistessi. Marciava verso di lui con un'espressione fredda, addirittura terrificante, che mi inchiodò all'istante.
Ed ebbi la brutta sensazione che, se lo avesse raggiunto, gli avrebbe fatto seriamente male.
Per fortuna, in quel momento Remiel sbucò dalla porta. Gli bastò un rapido sguardo a me, poi a Josh rantolante a terra e infine a suo fratello per capire la situazione. «No, Alexander! Fermo! Non farlo! Alexander!» esclamò allarmato, parandoglisi di fronte.
«E dai!» intervenne una voce dall'alto. «Mollalo, figlio dei fiori! Voglio godermi lo spettacolo!»
Sobbalzai, sollevando lo sguardo. Joel se ne stava appollaiato su un ramo con una gamba a penzoloni e i capelli biondi sparati in tutte le direzioni. Sul viso affilato campeggiava un ghigno tronfio, la sigaretta accesa che sporgeva dall'angolo della bocca.
Non appena si accorse che lo stavo fissando, posò gli occhi su di me e ne rimasi rapita. Persino da lontano si notava che erano di due colori diversi, uno azzurro e l'altro marrone.
«Ehilà, principessina» mi salutò beffardo.
Alexander scansò Remiel con un gesto brusco, ma quest'ultimo lo acciuffò per il giubbotto e lo tirò indietro. «Ti ho detto di smetterla, Alex!»
Inaspettatamente, il ragazzo cessò di ribellarsi alla presa del fratello. Si girò, lo fissò con la mascella contratta e gli mollò un pugno in faccia così forte da farlo cadere in ginocchio sull'erba. Rimasi a bocca aperta, esterrefatta da quella reazione.
«Che diavolo sta succedendo qui?!»
Mi voltai verso la porta. Il paffuto professor Turner ci stava squadrando a braccia conserte, impettito sulla soglia, con i suoi piccoli occhietti porcini lampeggianti di furia, e mi rassegnai al fatto che Ethan aveva ragione: non avrei preso la sufficienza al test di storia.
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