𝕮𝖆𝖕𝖎𝖙𝖔𝖑𝖔 62 (Nicholas)

"... 𝔴𝔢 𝔴𝔢𝔯𝔢 𝔟𝔬𝔯𝔫 𝔱𝔬 𝔡𝔧𝔢"

Chiedo scusa per il terribile ritardo, ma questa storia ha deciso di farsi odiare fino all'ultimo. Abbiate pietà, so che il capitolo non è un granché. Ha messo a dura prova la mia sanità mentale.

Vi anticipo che l'epilogo chiarirà ogni vostro dubbio. Abbiate fede :)

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La vita in laboratorio mi era così familiare da risultare persino rassicurante.

Ogni giorno era uguale al precedente, in una routine di test e di esperimenti non troppo diversa da quella che mi aveva accompagnato per ben quattordici anni a partire dalla mia nascita. Prelievi, iniezioni, analisi delle mie capacità di guarigione tramite incisioni o bruciature, monitoraggio delle attività cerebrali durante l'elettroshock.

Adesso erano curiosi di capire come funzionava la rigenerazione dei miei organi interni. Ormai mi avevano estratto così tante volte la milza che avrebbero potuto metterci su un mercatino. Potevano rivenderle a un prezzo esorbitante. Dopotutto, erano pezzi di una stupenda opera d'arte.

Per la maggior parte del tempo mi tenevano con la museruola talmente stretta da impedirmi anche di parlare e si riferivano a me esclusivamente con il mio numero. Ero tornato a essere una proprietà dell'Olympus, un oggetto di cui disporre a proprio piacimento. E non potevo fare a meno di pensare che era giusto, in fondo.

Non ero una persona, non lo sarei mai stato. Avevo assaporato la libertà, il divertimento, addirittura l'amore. Era più di quanto mi spettasse. Più di quanto Zero, o qualunque cavia, avesse mai potuto sperare. Sarebbe stato egoistico pretendere altro.

L'unico momento in cui mi concedevo di tornare a essere Nicholas era di notte. Dormivo poco a causa degli incubi che mi attendevano a braccia spalancate. Allora restavo sveglio a fissare il soffitto e immaginavo di essere con Seth. Niente sesso. Solo coccole. Mi abbracciava e mi accarezzava i capelli, facendomi sentire il bastardo più fortunato al mondo.

Mi mancava il suo tocco dolce, il suo profumo, il battito del suo cuore di cui conoscevo le note come se fosse una melodia composta apposta per me.

E, insieme a lui, mi mancava la mia famiglia. Rivolevo i miei fratelli. Dannazione, avevo nostalgia anche delle penose barzellette di Gabe e delle rotture di coglioni di Joel.

Ero stato sei anni senza di loro, eppure quei due mesi furono peggiori. Forse perché all'epoca li avevo persi dopo averli salvati, con la consapevolezza che per merito mio avrebbero avuto un futuro migliore.

Ora, invece, mi odiavano. A ragione. Li avevo delusi, di nuovo, come sempre. Sky non mi avrebbe perdonato, e nemmeno Arya.

Avevo rovinato tutto.

Avevo fatto del male al mio sole. Al mio angioletto. Per mia figlia non sarei stato altro che il mostro che aveva strappato alla madre il suo migliore amico, lo zio che lei non avrebbe mai conosciuto.

Perché dovevo distruggere ogni cosa?

Perché tutto ciò che avevo di bello finiva sempre per sbriciolarsi, per ridursi in cenere tra le mie mani?

"Perché sei un abominio" rispondeva allora la vocina nella mia mente, riecheggiando nel silenzio opprimente della cella. "Sei il male, quindi puoi dare e ricevere soltanto il male. Quante prove ti servono ancora per accettarlo?"

Mi rannicchiai sulla branda, affondando il viso nel cuscino per soffocare un urlo. Le orecchie mi fischiavano, piene di sussurri maligni. Una paura viscerale mi avvolgeva nella sua morsa, pesante come una camicia di forza. Ma mi sforzavo di non emettere un suono.

Era un dolore che meritavo.

A prescindere da ciò che sosteneva Seth, era una verità alla quale non potevo più oppormi. Avevo meritato tutto quello che mi era successo, che mi era stato fatto. Le violenze che avevo subito erano state delle punizioni anticipate per un'anima già marcia e corrotta. Lucius era stato il mio castigo.

Si era nutrito della mia carne quando ero bambino, alla stessa maniera in cui da adulto avrei fatto io con innumerevoli innocenti. Centinaia di abusi per centinaia di crimini. C'era un equilibrio che apprezzavo.

La porta cigolò.

La pausa non poteva essere già finita. Era troppo presto. I miei sensi si misero in allerta e balzai a sedere con un ringhio. Sebbene non lo incontrassi da quando aveva minacciato mia figlia, mi aspettavo di vedere Lucius, venuto a giocare con me.

Tuttavia, fu Keegan a entrare. Il nero dei suoi vestiti e i capelli scuri come carbone contrastavano con le pareti bianche della cella. Il suo sguardo saettò verso da me alle videocamere, la cui spia si spense dopo qualche secondo. «Abbiamo dieci minuti per fare una bella chiacchierata».

Sfoderai un ghigno. «Vuoi sapere se l'angioletto ha gusti particolari a letto? A quel che ricordo, le piace stare sopra-»

«Sta' zitto». Un lampo infastidito gli balenò sul viso. La sua voce era roca, tagliente come un rasoio. «Vuoi sapere il motivo per cui, fra tutti i demoni che ho generato, sei quello che sopporto di meno?»

«Sei invidioso che sia più attraente di te? Lo so, ingiusto, ma a volte le copie superano gli originali».

«Sono lieto che la prigionia non abbia intaccato il tuo senso dell'umorismo». Cominciò a misurare la stanza a piccoli passi, le mani incrociate dietro la schiena. «Non ti sopporto perché siamo uguali». Fece una breve pausa, poi aggiunse: «Narcisismo a parte».

Aggrottai la fronte. «Non sono d'accordo. Io non indosso dolcevita. Pizzicano troppo».

Rilasciò uno sbuffo seccato. «Entrambi saremmo disposti a fare qualsiasi cosa e a rinunciare a tutto per proteggere le persone che amiamo» proseguì lui, e non potei evitare di irrigidirmi. Mi adocchiò. «Oh, guarda, finalmente ho la tua attenzione».

Un sibilo gutturale scaturì dalla mia gola. Mi alzai, barcollando appena per le droghe a base di olio d'iperico delle quali mi imbottivano. Malgrado avessi i polsi incatenati e mi sentissi stremato, sfoderai gli artigli. «Prova a sfiorare la mia famiglia e ti farò rimpiangere di non essere rimasto mummificato in quella cazzo di bara».

«Che ti avevo detto? Uguali». Si girò a fronteggiarmi. «Possiamo salvarle, Nicholas. Arya e la bambina».

Una morsa mi attanagliò alle sue parole. Lo fissai, titubante, sforzandomi di mascherare le mie emozioni. «Cosa ti fa pensare che mi importi ancora di lei? Ho ucciso suo fratello».

«Non per tua volontà. Non eri lucido, l'ho sentito. La mia teoria è che ci fosse qualcosa nei tuoi drink che, sommata alla tua precaria sanità mentale e ad altri fattori come l'alcol e la paranoia per la gravidanza, ha innescato una crisi più violenta del solito».

Arretrai, quasi fossi stato colpito allo stomaco con una mazza. Scossi il capo. Non volevo aggrapparmi a nessuna stupida scusa, o speranza. Ethan era morto per mano mia. Avevo ignorato le mie allucinazioni per mesi, nonostante continuassero ad aggravarsi, e alla fine mi si era ritorto contro. «Ti sbagli».

Keegan scrollò le spalle. «Può darsi. Ma non l'avresti mai ferita intenzionalmente, non ho dubbi a riguardo. E non vuoi che soffra neanche adesso». L'angolo della sua bocca si incurvò in una piega amara. «Sta per nascere, sai? Riconosco i segnali».

Un sussulto mi strinse il cuore, o meglio la pietra sgretolata che fungeva da surrogato. Avvertii una voragine spalancarsi nel petto.

Presto Arya avrebbe partorito e io non sarei stato lì al suo fianco. Non sarei stato presente, mentre la nostra piccolina apriva i suoi occhietti in un mondo destinato a odiarla, circondata da persone che l'avrebbero marchiata sulla schiena come loro proprietà. Innocente e indifesa, come lo era Zero.

No. Non come Zero.

Lui non aveva mai avuto dei genitori pronti a lottare per difenderlo. Né un padre che gli volesse bene.

Lei sì. Avrei combattuto fino al mio ultimo respiro per darle una storia diversa dalla mia. Dalla nostra. Lo avevo giurato alle ceneri di mia sorella. E lo avevo promesso anche a quel bambino la cui purezza era stata brutalmente strappata via insieme alla pelle.

«La porteranno via nel momento in cui verrà alla luce e tenteranno di sbarazzarsi della madre alla prima occasione». Keegan contrasse la mascella. «Non lo permetterò».

«Che nonnino premuroso». Gli rivolsi una smorfia gelida. «Siamo onesti: a te interessa molto più dell'angioletto che di mia figlia. Sei un po' sottone, eh?»

Nonostante il tono sarcastico, non ero affatto divertito. La preoccupazione... no, il terrore puro mi stava strisciando dentro come una serpe velenosa. Era al sicuro nel ventre di sua madre, lontana da Lucius, dal mio incubo in carne e ossa che voleva ghermire anche lei. Chi l'avrebbe protetta dopo?

Keegan non gradì la battuta. Inclinò la testa e una ciocca corvina gli scivolò sugli occhi. «Seth è un altro ospite dell'Olympus, non lo sapevi?»

Come spesso mi accadeva, la paura si tramutò in un sentimento a me molto più congeniale: rabbia.

Mi tuffai verso di lui con le poche forze a mia disposizione. Sfruttai lo slancio e il peso del mio corpo per sbatterlo contro la parete e affondai gli artigli nel suo addome, squarciando il maglione. Rivoletti di sangue sgorgarono dalle ferite, prima che si rimarginassero. «Riferisci a quei bastardi che, se gli fanno del male, li ammazzerò in una maniera così lenta e atroce da far piangere persino il diavolo. I miei fottuti umani non si toccano, chiaro?»

A Keegan non sfuggì nemmeno un lamento. Abbozzò un sorrisetto e la cicatrice sulla guancia si distorse. «Sei un po'... che termine hai usato? Ah, già. Sottone». Mi agguantò per la gola e allontanò il mio volto dal suo, senza però stringere la presa. «Adesso ascoltami, bambino. Per farti i test ti portano nella Sacca, ovvero una zona della Torre priva di incantesimi. Laggiù hai i tuoi poteri. Al momento opportuno, e lo riconoscerai, ho bisogno che provochi parecchio scompiglio. È una cosa in cui sei bravo, giusto?»

«Oh, sono il maestro del caos» replicai in un sussurro, tentando di divincolarmi. «Ma mi legano con l'oricalco, ho una schifosa museruola addosso e sono più fatto di Joel in discoteca. Per non parlare del fetore d'incenso. Il tuo piano ha qualche falla, nonnino».

Keegan abbassò lo sguardo. Il telefono gli vibrava nella tasca. Lo risollevò per studiarmi e infine mi respinse con la stessa facilità con cui si scaccia un mollusco. Ruzzolai a terra e digrignai i denti. «Giurami che a loro non capiterà niente».

«Arya, tua figlia e Seth ne usciranno vivi e incolumi. Te lo prometto».

Mi tirai in ginocchio, seduto sulle caviglie. «Mi hai platealmente escluso».

«Io e te siamo gli ultimi Windigo puri, perciò in grado di procreare e perpetuare questa piaga che ho portato nel mondo. Dobbiamo morire, Nicholas. È la sola possibilità di porre fine a tutto».

«Passerò il resto della mia esistenza a scopare con Seth. Ma tranquillo, non ho intenzione di metterlo incinta».

«Dimentichi che la vita di Seth avrà una durata umana. La tua no».

Mi paralizzai. Era un aspetto sul quale non avevo mai riflettuto molto. Non riuscivo nemmeno a contemplare l'idea che potesse esserci un mondo dopo il mio Scrat. Di certo, non per me. «Invece sì. Morirò comunque con lui, anche se non di vecchiaia».

«Non sono disposto a correre il rischio. È la degna conclusione per la nostra storia. Consideralo un patto». Il suo sopracciglio si inarcò. «Lo accetti?»

Scrollai le spalle. «Mi basta che loro siano al sicuro. Non mi importa di ciò che succede a me».

Keegan smise di aggiustarsi i vestiti e mi scrutò con un'espressione amareggiata. «Uguali».

La procedura era sempre la stessa.

Dalle ventole veniva sparata nella cella della droga nebulizzata che mi stordiva e, quando riprendevo i sensi, mi ritrovavo steso a torso nudo sul tavolo dell'allegro chirurgo. Cinghie rinforzate mi fasciavano il busto, mentre i polsi e le caviglie erano strette nella morsa di anelli in oricalco. La museruola mi premeva sulla bocca.

Di conseguenza, non fui sorpreso di riaprire gli occhi in una stanza bianca conciato come un salame. A turbarmi davvero fu la sensazione che si agitava nel mio petto. Il legame mi pulsava dentro, impetuoso e feroce, più violento che mai. Occupava ogni anfratto del mio essere, travolgendomi con l'irruenza delle onde del mare. Non mi affogava, però. Non mi trascinava a fondo. Era un incendio che mi nutriva, che divampava nel nero abisso della mia anima.

Un pensiero fisso rimbalzava nel mio cervello: Arya. Sentivo il bisogno urgente di raggiungerla. Ero certo che mia figlia mi stesse chiamando. Voleva me. E io volevo lei.

«Spero che tu abbia riposato a sufficienza, Soggetto Zero. Sarà una giornata dura» esordì il dottor Grant, infilandosi i guanti in lattice. Attorno a lui si muovevano una decina di scienziati, impegnati ad accendere i macchinari e i monitor o a preparare l'attrezzatura. «Dobbiamo fare altre estrazioni. Mi rincresce che l'anestesia abbia ben poco effetto su di te».

Sì, lo vedevo proprio rammaricato. Sogghignai. «Finché non mi togliete il cazzo, nessun problema. Insomma, dovrebbe ricrescere, ma con questo io e il mio fidanzato ci abbiamo fatto parecchie cosette e ci sono affezionato».

La faccia del dottor Grant si contorse in una smorfia di disapprovazione. Mi fece sollevare la testa, sganciò la museruola e la riallacciò. Cercai di parlare, ma la pressione sotto il mento mi bloccava completamente la mandibola. Sospirai e puntai lo sguardo al soffitto luminoso fino a farmi lacrimare gli occhi.

Era in travaglio? O stava già partorendo?

Il vincolo mi connetteva ancora a entrambe, lo percepivo. Noncurante di quanto succedeva al mio corpo, mi rifugiai nella mia mente e cercai di aggrapparmi a esso, con scarso successo. Era come chiamare un numero telefonico e beccarsi la segreteria. I miei angioletti erano fuori dalla Sacca, in una zona della Torre protetta dagli incantesimi Antidemoni.

«Tu come sei entrato?»

Mi riscossi. Una sagoma aveva appena fatto il suo ingresso nel laboratorio, attirando su di sé l'attenzione generale. Sbattei le palpebre più volte per scacciare dal mio campo visivo le macchioline dovute al bagliore accecante. Quando finalmente i contorni della figura divennero nitidi, la saliva mi andò di traverso.

Il mio cuore mancò un battito. No. Perché era venuto? Se gli fosse capitato qualcosa a causa mia, non me lo sarei mai perdonato. Fanculo. Se avessi saputo che il piano di Keegan prevedeva di metterlo in pericolo, l'avrei fatto a brandelli. Ero stato un deficiente a fidarmi. A lui fregava solo di Arya. E mia figlia? L'avrebbe protetta?

Seth avanzò di qualche passo ed esibì un pass. Presi a dimenarmi, ma continuò a evitare di incrociare i miei occhi. «Ordini di mio padre. Vuole che supervisioni».

Padre. C'era stata un'incrinatura a malapena percettibile nella sua voce, quando aveva pronunciato quella parola. Nessuno l'avrebbe potuta cogliere, tranne me. In fondo avevo trascorso sette anni ad ascoltarlo, a studiare ogni suo gesto, a memorizzare anche la più banale delle sue abitudini.

E seppi che stava mentendo. La tessera magnetica l'aveva rubata, di sicuro. Ma era folle se pensava che sarebbe riuscito a liberarmi, a meno che non avesse preparato un diversivo molto efficace.

Il dottor Grant lo fissò poco convinto. «Mi sembra strano, ragazzino. Credo che andrò a verificare dal Benefattore in persona. Solo per avere chiarimenti. Non ti dispiace, vero?»

«Certo che no. Anche se dubitare del figlio del capo è una pessima strategia per fare carriera, amico».

L'uomo ebbe un attimo di esitazione, poi fece un cenno ai suoi colleghi e uscì. Seth si scansò per lasciarlo passare. Affondò le mani nei jeans e cominciò a passeggiare per la stanza, fischiettando e chiacchierando con gli scienziati. Sebbene la sua disinvoltura fosse ben costruita, non mi trasse in inganno. Era teso. Minuscole gocce di sudore gli punteggiavano la fronte, attorno alla radice dei capelli.

Si fermò al mio fianco, senza guardarmi. Mi accorsi che le sue dita stavano giocherellando con qualcosa nella tasca. Tesi le orecchie e, malgrado l'incenso che impregnava l'aria, captai un lieve tintinnio metallico. Mi corrucciai.

Seth mi scoccò un'occhiata fugace e mimò con le labbra: "Fidati".

Era una richiesta talmente scontata che mi venne da sorridere, da dietro la gabbietta della museruola. Mi fidavo ciecamente. Avrebbe potuto iniziare a squartarmi con un bisturi e non avrei comunque smesso di farlo.

«Seth!» esclamò Logan, giungendo di corsa. Un compiaciuto dottor Grant lo seguiva a breve distanza. «Che diamine stai-»

Il buio ci avvolse all'improvviso come una tetra cappa. Si levò un brusio spaventato, che venne sovrastato dal frastuono delle sirene. I fasci rossi delle luci di emergenza si accesero. Nella penombra mi resi conto che Seth si era accovacciato, intento a scassinare l'anello metallico al mio polso destro con delle forcine.

«È impossibile». Logan picchiettò il dito sul piccolo schermo del suo orologio digitale. «Chi cazzo ha attivato la modalità Tenaglia

Seth strisciò silenzioso dall'altra parte del tavolo e si mise a lavorare sull'altra manetta. Fu allora che uno degli scienziati se ne accorse. «Fermo!» urlò, balzando in avanti per afferrarlo.

Allungai il braccio libero, agguantai la manica del suo camice e lo tirai verso di me. Perse l'equilibrio e cadde sul mio corpo. Si dimenò nella mia presa, abbattendo i pugni sulle mie costole. Lo strinsi fino a che avvertii la spina dorsale spezzarsi, poi gli aprii la gola con gli artigli per spegnere le sue urla agonizzanti. Rivoli di sangue mi colarono addosso. Un concerto di strilli e imprecazioni si aggiunse al frastuono dell'allarme.

Seth si raddrizzò. «Fatto!»

Dato che non avevo il tempo di rompere le cinghie, colpii con i gomiti la superficie su cui ero sdraiato. Il tavolo cedette sotto la mia forza da demone, schiantandosi sul pavimento. Mi alzai incespicando in mezzo al trambusto. Le guardie non riuscivano a fare irruzione a causa della folla che, in preda al panico, si accalcava per sciamare fuori dal laboratorio. L'odore d'incenso si era disperso, forse a causa del sistema di aerazione che si era acceso.

Mi tolsi la museruola e la scagliai in testa a una donna, che si afflosciò col cranio sfondato. Un lago vermiglio dilagò a terra. Sorrisi. «Credo che sia il mio turno di sventrarvi».

Prima di tuffarmi nella mischia, spinsi Seth al riparo dietro una scrivania e gli schioccai un rapido bacio sulle labbra. «Rimani qui, tesoro. Non è il tuo genere di spettacolo».

«Voglio aiutarti» replicò lui in tono determinato, malgrado avesse il viso cereo.

«L'hai già fatto».

Gli scoccai un'ultima occhiata, poi uscii allo scoperto. Mi avventai sul dottor Grant. «Niente anestesia, mi rincresce» gli sussurrai all'orecchio. Conficcai i canini nella sua carotide e un liquido caldo mi zampillò nella bocca. Il sapore ferroso mi inebriò. Era ancora scosso dagli spasmi quando lo lasciai cadere.

Ne acciuffai un altro e gli strappai il cuore dal petto con un movimento secco. Lo divorai vorace, intanto che sollevavo un monitor e lo scaraventavo contro la schiena di quello che avevo ribattezzato come dottor Foruncolo. Aveva un brufolo gigante pieno di pus sul mento con cui giocherellava spesso e sembrava spassarsela parecchio durante gli esperimenti. Fu appagante udire il coro delle sue ossa che si frantumavano.

Degli spari rimbombarono nell'aria. Un proiettile mi sfiorò la spalla, ma il bruciore fu soffocato dall'adrenalina che mi scorreva nelle vene. «Non uccidetelo» ruggì Logan al di sopra dello scompiglio. «Vale miliardi di dollari».

Mi scagliai su un soldato con un salto e gli staccai entrambi gli arti dalle spalle. Al posto delle pallottole in oricalco, adesso piovevano da tutte le direzioni dardi imbevuti di olio d'iperico. Ma ero abile a schivarli, sfrecciando a una velocità sovrumana, oppure usavo ciò che restava delle carcasse delle mie vittime per farmi da scudo.

Ogni anima che assorbivo mi rinvigoriva. Le sentivo fluire in me, placare la fame logorante e trasformarsi in scariche di puro potere. L'eccitazione mi gorgogliava nello stomaco, riempiendomi di sadico piacere per la morte che seminavo. Mi abbandonai ai miei istinti cruenti, libero dalle redini con cui ero obbligato a imbrigliare la violenza intrinseca alla mia natura.

Quando anche l'ultima guardia si accasciò, con le braccia che sorreggevano le sue viscere esposte, dardeggiai lo sguardo su Logan. Non era fuggito. Osservava la macabra scena di morte e devastazione che lo circondava, incapace di muovere un solo muscolo. La sua faccia era distorta in una smorfia d'orrore sulla quale era impressa la consapevolezza della mostruosità che aveva contribuito a creare.

Sconfitta, ecco che cosa leggevo nella sua espressione. Sapeva già che cos'ero in grado di fare, eppure soltanto ora che lo constatava di persona ne comprendeva davvero la portata.

Aveva giocato a essere un dio, provando a plasmare il futuro della sua specie nella speranza di elevarla, invece aveva generato degli abomini che non poteva controllare. Alla fine, non era nessuno. Soltanto un illuso che aveva creduto di sottomettere la magia con la scienza, e la magia aveva prevalso, presentandogli il conto funesto delle sue azioni.

«Che c'è?» Allargai le braccia e sogghignai. Ero vestito di sangue, dense gocce vermiglie colavano sulle piastrelle bianche. «Non sei fiero della tua opera?»

«N-non era così che sareste dovuti essere» balbettò Logan, arretrando lentamente. «I Discendenti hanno ragione. Voi Non Umani siete errori».

Lo raggiunsi in un lampo, gli afferrai i capelli e lo obbligai a reclinare il capo all'indietro. Fece una smorfia di dolore. «Seth, ti prego, fermalo». La sua voce era venata di panico. «Sono la famiglia che hai sempre cercato».

Seth venne allo scoperto. Era talmente pallido che le sue labbra erano diventate trasparenti, contratte per lo sforzo di reprimere i conati. Degli schizzi cremisi gli punteggiavano il viso, rendendolo una visione che avrei definito celestiale. Anche in quelle condizioni, sconvolto e spaurito, restava la cosa più bella che avessi mai visto.

«I De'Ath sono la mia famiglia». Seth tirò fuori il ciondolo con il corvo sul teschio da sotto la maglietta, poi mi indicò. «E me l'ha data lui».

Pur essendo impaziente di uccidere quel bastardo, cercai con lo sguardo il suo permesso. Era suo padre, in fondo. Magari desiderava ammazzarlo con le proprie mani. Seth annuì.

Fu un solo istante di distrazione. Un momento in cui Logan sfilò qualcosa dalla tasca e un bruciore intenso mi si propagò nel fianco. Ringhiai, staccandogli la testa dal collo con un gesto secco. La gettai via, noncurante. Il resto del corpo emise un tonfo sordo quando stramazzò al suolo.

Seth mi corse incontro. «Cazzo. Nik, stai bene? Mi ero scordato di quel coltellino, mi dispiace, altrimenti ti avrei avvertito».

Estrassi la sottile lama in oricalco e arricciai il naso, mentre un rivoletto quasi nero sgorgava dal taglio. «Un graffietto». Lo fissai con un sopracciglio inarcato. «Stai migliorando. Non hai ancora-»

I suoi occhi scuri si posarono sulla testa di Logan, che rotolava lungo il corridoio. Si chinò e rigettò anche l'anima. Era un detto che non avevo mai capito, tra parentesi. Se gli umani avessero potuto sputare la loro linfa vitale, per me e i miei fratelli sarebbe stato molto più facile nutrirci. Personalmente, però, avrei comunque preferito il metodo classico.

Sorrisi. «Mi sei mancato, amore».

Si pulì la bocca sul dorso della mano, annullò la distanza tra di noi e mi travolse in un abbraccio. Sebbene fosse pericoloso per lui starmi vicino dopo un banchetto, ne avevo troppo bisogno per non ricambiarlo. Le sue dita si insinuarono nei miei capelli, e quelle carezze furono sufficienti a cancellare tutte le torture degli ultimi mesi. «Come ti senti?»

Incastrai il mento nell'incavo del suo collo e socchiusi le palpebre, inalando avido il suo profumo. I miei muscoli si rilassarono. Ero al sicuro. «Mai stato meglio».

Un singhiozzo lo scosse. La sua stretta si rafforzò, facendo pulsare la mia ferita. «Ti hanno fatto del male? Fanculo. So che lo hanno fatto. Scusa, avrei voluto liberarti prima, ma dovevo conquistare la fiducia di Logan... e da solo non... il piano... Keegan...»

«Ssh. Smettila, Scrat. Sei stato bravissimo». Mi staccai e gli sfiorai la guancia con l'indice, asciugandogli una lacrima. «Ho una gran voglia di baciarti, ma sono coperto di sangue».

«E io ho appena vomitato».

Restammo immobili per un secondo, poi ci fiondammo uno sull'altro in un bacio irruento. Le nostre lingue si intrecciarono in una danza frenetica, salutandosi come vecchie amiche. Il suo sapore si impossessò di ogni anfratto della mia mente e spazzò via qualsiasi pensiero.

Potevo anche trovarmi nel più basso e oscuro girone dell'inferno, non importava. Lui sarebbe sempre riuscito a riportarmi su dal baratro, a trascinarmi fino alle porte del paradiso. Era la mia luce, la fiammella che splendeva vivida in una notte senza stelle.

«A proposito» ansimò Seth, scostandosi per riprendere fiato. Mi porse il mio ciondolo e mi infilò l'anello che mi aveva regalato. «Buon compleanno».

«Sei uno splendido regalo». Sorrisi e gli intrappolai il mento tra le dita. «Non ingelosirti, tesoro, però me ne ha fatto uno anche l'angioletto. Devo andare da lei».

Seth annuì. Prima che potesse rispondere, un boato esplose in lontananza e le pareti vibrarono insieme al terreno. Aggrottai la fronte, cingendogli il bacino con un braccio per aiutarlo a non perdere l'equilibrio. «Cos'era?»

«Il segnale. Hai presente il fuoco greco di tua madre? Quello con cui lo zuccone ha fatto saltare in aria la chiesa? Ecco. Callum ha ordinato al dottor Stone di prepararne un po' per farci una bomba. Dovrebbe attirare gli scagnozzi dell'Olympus lontano da noi. Occupiamoci alla svelta di quel "graffietto"», mimò le virgolette, «e muoviamoci».

Sbuffai. Malgrado non fosse necessario a mio parere, non mi opposi e lasciai che mi applicasse una garza attorno al busto. Si tinse all'istante di sangue, ma perlomeno l'emorragia rallentò. «I miei fratelli sono qui?»

Seth rovistò in un armadietto e mi passò la maglietta della mia noiosa uniforme bianca da prigioniero. «Ah ah».

«Mi ha stufato questo colore di merda» bofonchiai, infilandomela con un sospiro. «Tutti quanti?»

«Credo di sì».

Non mi piaceva. Affatto. Avevo l'orrendo presentimento che Keegan stesse giocando una partita separata dalla nostra.

Ci avviammo verso l'ascensore. Seth strisciò la tessera magnetica sul lettore, per poi ricordarsi che non funzionava. Salimmo le scale, percorremmo un altro corridoio e ci fermammo dietro a un portone automatico con pannelli di vetro satinato. Anche acuendo l'udito, non ero in grado di sentire nulla fuori dall'area della Sacca.

Mi scambiai un'occhiata con Seth, che impugnò nervoso la pistola che aveva raccolto di sotto. Capii che cosa lo turbava. Non si sarebbe mai perdonato, se avesse fatto del male a qualcuno. O peggio. «Dammela. Con la mira schifosa che hai, rischi di colpire me per sbaglio».

«Tu neanche sei capace!» protestò.

«E allora? La lancerò».

Afferrai l'arma e sfondai il portone con un calcio. Via libera. Appena varcammo la soglia, i miei sensi si ovattarono e la mia forza si attenuò, eppure c'era qualcosa che non andava. La magia della Torre Antidemoni avrebbe dovuto rendermi debole e indifeso, strappandomi via tutto il potere accumulato come un cerotto, invece lo avvertivo ancora. Fragile e incerto, ma c'era.

Svoltammo a sinistra. Una schiera di soldati era appostata a una decina di metri di distanza, in mezzo al corridoio. Seth sollevò le mani in un gesto conciliante. «Ehi, amici, restiamo calmi. Non vi sto tradendo come sembra, anzi la situazione è pienamente sotto controllo-»

Uno di loro urlò: «Il mostro! Fuoco!»

Era tardi per tornare indietro, perciò spinsi Seth a terra e lo sovrastai con il mio corpo in modo da fargli da scudo, intanto che sparavo alla cieca. Raffiche di pallottole sferzarono l'aria, seguite da imprecazioni e grida sorprese, poi da rantoli sofferenti e suoni di cadaveri che stramazzavano sul pavimento.

Mi azzardai a sbirciare e abbassai la pistola. Le guardie dell'Olympus erano tutte morte, tranne una che strisciava all'indietro sui gomiti. Aveva una ferita al ginocchio. Callum e Rosalie procedevano verso di noi dalla parte opposta del corridoio, entrambi armati. Nonostante fossero in minoranza, avevano avuto il vantaggio di coglierli alle spalle.

Mi abbandonai a una risata di sollievo. «Te la sei presa comoda, rompipalle».

Callum mirò al sopravvissuto, premette il grilletto e lo scavalcò con noncuranza. «È bello rivederti anche per me, fratellino». Mi tese la mano e mi aiutò a rialzarmi. Mi attirò a sé, premendo la fronte contro la mia. «Dimmi che non ti hanno toccato».

Non avevo bisogno di ulteriori dettagli per intuire a cosa si riferisse. «Nah, i soliti test. Roba vecchia. È stato un gradevole tuffo nel passato, in realtà». Chiusi gli occhi per un attimo e sospirai. Tra le sue braccia mi sentivo a casa. Forse nemmeno si rendeva conto di essere la cosa più vicina a un padre, un vero padre, che avessi mai avuto. Ciò mi rammentò del pezzo degli scacchi che tenevo in tasca. «Lucius. È qui».

Callum fece un cenno d'assenso, serio. «Prima pensiamo a tua figlia e alla madre, poi a lui. Non ne uscirà vivo, te lo garantisco».

«Gli altri?»

«Al generatore. Hanno fatto saltare loro la corrente».

«Sono vivo, eh. Grazie per l'interessamento. Molto premuroso» borbottò Seth, tirandosi in piedi. «Zucca vuota».

Rosalie ci osservò con un sorrisino divertito. «Ho perso il conto delle volte in cui ho salvato i vostri culi, piccioncini».

Mi accigliai. «Magnifici culi, semmai».

«Seth!» Una donna dai lunghi capelli castani ci superò spedita e si gettò su Seth per stringerlo. La riconobbi soltanto per la vaga somiglianza. Sua madre. «Stai bene?»

Lui non si mosse, la bocca spalancata dall'incredulità. «Che caspita... cioè, perché sei venuta?»

«Per te». Ava gli accarezzò il viso e lo mollò, senza smettere di controllare con lo sguardo che fosse incolume. «So che mi odi, e ne hai il diritto, ma sei mio figlio. Non potevo permettere a tuo padre di distruggere la tua vita, come ha rovinato la mia».

«Avaline ci ha fornito la planimetria della Torre». Callum adocchiò la mia ferita al fianco, accigliato. «Il Benefattore?»

Gli rivolsi un ghigno. «Ha perso un tantino la testa. In senso letterale. La prendiamo come souvenir?»

«No. Stona con l'arredo». Callum scansò la manica della camicia e guardò l'orologio al suo polso. «Andiamo. Il punto d'incontro è la sala parto».

Inarcai un sopracciglio. «Ci hai messo due mesi per elaborare un piano per salvarmi? Potrei offendermi».

«Ci ho messo due giorni. Ma ho scoperto dove si trovasse la Torre e dei portali per accedervi solo ieri, grazie a Keegan».

A giudicare dall'ostilità con cui aveva pronunciato il suo nome, neppure lui si fidava del nostro antenato immortale.

Seth si girò verso sua madre. «Non potevi dirglielo tu?»

Ava scosse il capo. «Quando l'ho tradito, sebbene spesso mi abbia obbligata a venire alla sede per contribuire alle ricerche, ha fatto sì che non potessi recarmici da sola, né memorizzarne l'ubicazione. Appena esco, me ne scordo e torna a essere invisibile». Cogliendo le nostre espressioni scettiche, aggiunse: «L'Olympus in passato tra le sue cavie aveva un ragazzino, un telepate dai poteri incredibili. Voi leggete la mente, ma lui era in grado di manipolarla e ingannarla in tantissimi modi-»

Le sirene tacquero e un silenzio pesante come piombo ci avvolse, poi il suono stridulo del diapason cominciò a suonare. Urlai e scivolai in ginocchio, imitato da mio fratello. Incassai la testa tra le braccia, con delle fitte lancinanti che mi perforavano il cranio. Sembrava che mi stessero trapanando dei chiodi direttamente nel cervello.

Un tocco lieve mi fece trasalire. Attraverso la vista appannata scorsi Seth, accucciato accanto a me. Stava parlando, ma la sua voce si miscelava alla melodia infernale in un frastuono assordante. Mi tastai un orecchio e i polpastrelli si macchiarono di sangue.

Callum appoggiò la schiena al muro e strizzò le palpebre per il dolore, gridando qualcosa. Rosalie si voltò verso gli interfoni da cui era trasmessa la musica e tirò fuori il telefono.

Affondai le dita nei miei capelli e gli artigli mi graffiarono la cute. Seth si affrettò ad abbassarmi le mani, noncurante del ringhio che mi scaturì dalla gola. Seppellii il viso contro il petto di Seth e affondai i denti nel labbro, per non rischiare di morderlo.

Cessò all'improvviso. Smisi a poco a poco di contorcermi, ansimante, mentre il ronzio nei timpani martoriati si affievoliva fino a sparire. Callum boccheggiava. Rosalie depose il telefono e gli strinse una spalla con delicatezza. «Will ha disattivato gli altoparlanti e i trasmettitori nell'intera struttura».

«Che cos'era?» obiettò Ava perplessa.

«Il diapason». Seth deglutì. «Pensate che fosse...»

Io e Callum ci guardammo, rispondendo all'unisono: «Lucius».

Avrei fatto qualsiasi cosa per i miei umani, e la conferma di ciò fu che accettai – con solo qualche minuscola lamentela – di indossare l'uniforme presa a uno dei soldati morti. Lo fecero anche Callum e Rosalie. Seth e sua madre, invece, avevano qualche chance di passare inosservati.

Era soltanto una misura precauzionale. Con la guida di Ava, imboccammo percorsi poco frequentati e scorciatoie che ci permisero di non incrociare quasi nessuno. Quando capitava, i nostri travestimenti ingannavano i malcapitati quanto bastava perché Callum e Rosalie avessero il tempo di sbarazzarsi di loro, se necessario.

In verità però nello scompiglio generale causato dalla bomba, dal black out e dal sistema di sicurezza compromesso furono in pochi a badare a noi.

Giunti nell'area medica, restammo di stucco. Piacevolmente, nel mio caso. Un po' meno per Seth, che minacciò di vomitare di nuovo alla vista di decine di cadaveri con un buco in fronte sparpagliati nel salone. C'era anche Maya, con il collo spezzato.

Joel aspettava a braccia incrociate, arrampicato sulla scalinata. Un ampio sorriso gli si formò sul viso e balzò giù dalla ringhiera. Mi sferrò una pacca vigorosa. «Bentornato, Nik. Com'è stata la vacanza?»

Gli ammiccai. «Monotona. Ma almeno ho avuto una pausa dalle vostre rotture di palle».

Callum si guardò attorno. «Chi ha fatto questo massacro?»

«Matusa. Che caratteraccio, eh? Venite». L'ombra che guizzò nei suoi occhi non prometteva nulla di buono. «Hai una brutta cera comunque, Pocahontas».

«Chissà perché» mugolò Seth.

Le scie rapprese di goccioline rosse sul pavimento del corridoio mi misero in allerta. Joel ci scortò dentro una delle stanze e richiuse la porta dietro Ava, che era l'ultima della fila.

Mi inchiodai sul posto. I miei fratelli erano disposti in cerchio attorno a un letto, sul quale era distesa Arya. Era priva di sensi, livida in maniera spaventosa. La pelle era tesa sulle guance e aveva dei pestoni violacei attorno agli occhi. Da sotto l'orlo del camice da paziente si intravedevano le cosce viscide di sangue.

Il mio cuore si arrestò, poi si lanciò al galoppo. Inghiottii a vuoto. La saliva mi si era prosciugata. "Sta morendo?" avrei voluto chiedere. "E mia figlia dov'è?"

Invece, fu Callum a intervenire. «Che cosa le è successo?»

«Lucius». Keegan era rintanato nell'angolo, intento a sorvegliare ogni mossa di un uomo con gli occhiali che stava mescolando una provetta. Doveva essere Thomas. «Ha preso la bambina. Arya ha provato a fermarlo e si è quasi dissanguata».

Contrassi la mascella. Mi sarei scagliato addosso a lui, se Seth non mi avesse trattenuto. «E tu perché non lo hai impedito, pezzo di merda? Non dovresti essere la creatura più potente di questo dannato pianeta?»

«Non sono la creatura più potente di questo dannato pianeta. Probabilmente non sono neanche la più antica». Keegan si strinse nelle spalle con aria abbattuta. «Il diapason ha effetto su di me, quanto su di voi. Non ho potuto fare nulla».

«Immortale o meno, giuro che ti am-»

«La piantate?» sbottò Alexander, senza distogliere lo sguardo dal viso di Arya. «È viva. E resterà viva, a costo di dover scendere io stesso a recuperarla all'inferno. Quindi tappatevi quelle fogne e lasciate lavorare il dottor Stone».

Gabriel tirò su col naso, seduto in fondo al materasso. «Mi sono commosso. È la cosa più tenera che ti abbia mai sentito dire».

«Non sono d'accordo». Joel sollevò l'indice. «Ci stiamo scordando dell'adorabile "Non mi muovo finché lo stronzo non sta meglio". Hai l'animo di un poeta, Jack Frost, poco da fare».

«Dovete fare i coglioni persino in queste circostanze?» borbottò Remiel infastidito.

Sky sospirò. «Ammettilo, Nik. Hai già nostalgia della cella».

Tacqui. Incastrai le dita in quelle di Seth e le strinsi. Non avevo il coraggio di avvicinarmi. Avevo la nausea. Il mio angioletto era nelle grinfie del mostro che mi aveva amato nel più terribile del modi. Sua madre, l'altro mio angioletto, rischiava di morire.

Il sogno di una famiglia felice stava cadendo a pezzi, si stava sgretolando, al pari della promessa che avevo fatto all'urna di Kath. Mi sentivo uno stupido soltanto per averci sperato.

Avrà una storia diversa dalla nostra.
Una storia migliore.

Callum si girò verso Thomas, diffidente. «Esattamente come hai intenzione di salvarla?»

«È stata un'idea di Isaac».

Quest'ultimo arrossì. «Non esageriamo. Ho solo pensato che... insomma, Lucius deve aver usato qualcosa per cavarsela la notte in cui Nik gli ha...»

«Tagliato il cazzo» lo soccorse Joel.

Rosalie ridacchiò. «Gli è ricresciuto o è ancora senza?»

«È il più grande mistero irrisolto di questa faccenda».

Seth strusciò il pollice sulle mie nocche. «Vuoi riprodurre quella pozione anti-dissanguamento o roba del genere?»

Thomas fece un distratto cenno d'assenso e riempì una siringa. Il liquido all'interno avrebbe potuto essere acqua per quanto era cristallino.

Callum si accigliò. «Sei certo che funzionerà?»

«Affatto. Ho seguito la ricetta di Vivianne, ma sono penoso come stregone». Thomas fissò Arya con apprensione. «Charles è morto per colpa mia. Non perderò pure sua figlia. Il minimo che posso fare è tentare». Si chinò su di lei e accostò la punta dell'ago al suo torace. Esitò.

Alexander gli strappò la siringa di mano e le iniettò la sostanza.

Seth mi diede uno strattone delicato e ritrovai le mie facoltà motorie. Ci unimmo ai miei fratelli, assiepati uno accanto all'altro, con le teste protese in direzione di Arya.

I secondi scorrevano veloci.

Ava si fece il segno della croce. Joel la fissò. «Sul serio? Siamo una fottuta famiglia di demoni».

Gli occhi di Arya cominciarono a muoversi sotto le palpebre, poi si dischiusero e si sgranarono nel momento in cui si rese conto di avere nove facce appiccicate alla sua, illuminate dai fasci rossi delle luci d'emergenza. Doveva essere una visione alquanto spettrale, in effetti.

«C-cosa...» biascicò stordita.

Un'ondata di sollievo mi scaldò il petto. Non mi importava che mi avesse consegnato all'Olympus, non le serbavo neppure rancore. Era una dei miei umani, della mia famiglia. Le volevo bene. A prescindere da quanto male mi avrebbe fatto, non avrebbe mai avuto bisogno del mio perdono.

«Tranquilla, combinaguai». Il tono di Alexander si era addolcito. L'angolo della sua bocca si incurvò all'insù e le accarezzò i capelli. «È tutto okay. Sei con noi».

In disparte, Keegan sbuffò e batté il piede a terra. L'espressione sul suo volto era... strana. Un miscuglio di tristezza e malinconia.

Joel sogghignò. «Stai diventando più teatrale di Nik, principessina. Vuoi rubargli lo scettro di drama queen?»

Gli mollai un calcio. Arya si voltò a scrutarmi e mi bloccai con lo stomaco attorcigliato. Crollai in ginocchio in modo da essere alla sua altezza. «Mi dispiace». Adagiai la fronte sulla sua spalla e la strinsi. «Non volevo. Ho avuto un'allucinazione. Ho visto Lucius, non Ethan. Mi dispiace tanto».

«Ha la nostra bambina, Nicholas. Ha preso la nostra bambina». Arya affondò il viso nell'incavo del mio collo, singhiozzando. «Salvala. Ti prego. È tutto ciò che conta ora».

«Ti riporterò il nostro angioletto».

«Dobbiamo capire da quale portale intende scappare». Callum scoccò un'occhiata a Keegan. «Allora? È anche tua nipote».

«Beh no, tecnicamente è la sua pro-pro-pro-pro... quanti pro devo mettere prima di nipote?» obiettò Joel.

Keegan non lo ascoltò. «I portali un tempo collegavano le Torri tra di loro. Servivano ai Discendenti per spostarsi rapidamente in tutto il mondo. Ormai la maggior parte sono state distrutte, o abbandonate, ma i portali esistono ancora. Alcuni, perlomeno. Il più vicino conduce a Boston, ma sarebbe più logico per lui fuggire da quello di Berlino. In Germania i Non Umani sono sistematicamente perseguitati. Non c'è posto migliore per nascondersi da una famiglia di demoni incazzati».

«D'accordo». Mi alzai. «Mostraci come arrivarci».

Rosalie sventolò il telefono. «Will è riuscito ad accedere ai file dell'Olympus. Ha inviato a ciascuno di noi la pianta della Torre».

«Aspettate, ragazzi» soggiunse Ava. «Qui ci saranno almeno un centinaio di cavie di ogni specie. Non possiamo andarcene e basta. Dobbiamo liberarle».

Feci una smorfia. «Non siamo supereroi, spiacente».

«Nik, in molti casi si tratta di bambini». Lo sguardo di Seth era implorante. Mi sentii sprofondare in quelle iridi nere, scintillanti come stelle. «Non possiamo lasciarli».

«Va bene» cedetti.

Joel sghignazzò. «Sottone».

«Dobbiamo dividerci». Callum accennò ad Isaac e Sky. «Voi due portate fuori i nostri umani».

«Scusami?» protestò Rosalie indignata.

Lui finse di non udirla e guardò Gabriel, Remiel, Joel e Alexander. «Voi vi occupate delle cavie. Stone vi accompagnerà, dato che serve un Discendente per uscire».

Increspai le sopracciglia. Detestavo il solo pensiero che dovesse rivedere Lucius. «Posso benissimo affrontare il bastardo castrato da solo».

«Risparmia il fiato. Lo facciamo insieme, fine della discussione». Agitò la mano per zittirmi. «Ci ritroviamo tutti quanti a Notturn Hall».

Thomas gli porse una fialetta. «Il mio sangue. Dubito che vorrete usare quello della piccola per aprire il portale. Se potete evitarlo, prendetene un altro o potreste rimanere incastrati in Germania. C'è di peggio dell'Olympus laggiù, fidatevi».

«Sembriamo un circolo di drogati» commentò Joel.

Seth si raddrizzò, impettito. «Non esiste. Non me ne vado senza Nik».

«Sì, invece». Abbozzai un sorrisetto. «Altrimenti ti do una botta in testa e dovranno trascinarti via come un sacco di patate».

«Voglio venire anch'io». Arya tentò di mettersi a sedere, ma ricadde sul letto con un gemito.

Alexander scosse il capo. «Scordatelo».

«Ehm, famiglia». Gabriel sollevò un dito. «Il nostro bis-bis-bis-bis-bis-bisnonno se n'è andato. Ho messo abbastanza bis, secondo voi?»

Mi girai di scatto. Keegan era già scomparso, lasciandosi dietro soltanto la porta socchiusa.

«Oh, no». L'orrore si dipinse sul volto di Arya. «Aveva detto di voler buttare giù la Torre. Non aspetterà che siate al sicuro. Il suo piano non prevede di eliminare solo l'Olympus, ma anche voi».

Thomas si spinse gli occhiali sul naso. «Questo posto è intriso di magia angelica. Sarebbe come essere schiacciati sotto tonnellate di oricalco. Vi ucciderebbe».

«Un motivo in più per sbrigarci» tagliò corto Callum.

Per fortuna, Keegan non era l'unico a conoscere la posizione dei passaggi. Il dottor Stone ci indicò la via più breve, nella speranza che raggiungessimo il portale prima che Lucius lo varcasse. Lui doveva essere cauto. Gironzolare con una neonata senza attirare l'attenzione era difficile, e mi auguravo che ciò lo avesse rallentato.

«Nik» mi richiamò Seth, afferrandomi per i fianchi. «Voglio un per sempre. Intesi?»

Gli impressi un bacio sulle labbra. «Per sempre. E anche oltre». Lo osservai, chiedendomi come diavolo fosse possibile che quel ragazzo così meraviglioso fosse reale. E, cosa ancora più assurda, che quel ragazzo amasse me. «Ci vediamo presto, Scrat».

Sky mi sfiorò il gomito. «Non fate gli idioti, mi raccomando».

Le feci l'occhiolino e seguii Callum fuori dalla stanza. Non mi era sfuggito lo sguardo complice tra lui e Rosalie. In una circostanza meno estrema, avrei indagato per capire se avessero scopato. Speravo di sì. Qualora non fosse finita bene, morire vergine sarebbe stato deprimente.

Malgrado le notevoli dimensioni nella Torre, durante il tragitto fummo inghiottiti dalla fiumana di scienziati terrorizzati che sciamavano in tutte le direzioni. Gli ingressi erano sigillati. Dei disperati scagliavano sedie contro le finestre o le tempestavano di pugni, ma non si infrangevano.

Che ironia. La tecnologia di cui si erano serviti per annientare centinaia, migliaia di vite sarebbe stata la causa della loro stessa rovina.

Ci infilammo in un corridoio laterale. Superammo delle vetrate affacciate su laboratori con macchinari dormienti, tra cui distinsi uno stimolatore neurale molto simile a quello che mia madre aveva impiegato su di me qualche volta. Uno scossone violento fece tremare il pavimento. Vacillai, ma riuscii a recuperare subito l'equilibrio.

«Keegan» sussurrò Callum.

Socchiusi le palpebre ed evocai a fatica il legame. Sebbene fosse remoto e labile, la magia della Torre si era indebolita abbastanza da permettermi di aggrapparmi a esso. Lo avvertivo pulsarmi dentro, incatenandomi a mia figlia. Un'ondata di terrore mi invase, e capii che non era una mia emozione. Era lei. Mi chiamava. Era spaventata. E vicina. «Stiamo andando bene. Da questa parte. Muoviamoci».

"Papà sta arrivando" cercai di risponderle, spingendo quel pensiero lungo il filo che ci univa.

Imboccato un altro corridoio, incrociammo due guardie di passaggio e la più anziana ci fece cenno di fermarci, urlando: «Identificatevi!»

Per una volta avrei preferito non avere un fascino soprannaturale.

Callum estrasse la pistola e sparò al petto del soldato. Mi avventai sull'altro, lo schiacciai contro il muro e gli lacerai la giugulare. Proseguimmo a passo spedito e arrivammo in fondo a un vicolo cieco.

Mio fratello si piazzò davanti a un quadro, lo esaminò per un istante e ricalcò con il polpastrello la firma dell'artista. La tela, che ritraeva un vecchio con una lunga barba e un cappello a cilindro appoggiato a un bastone, si oscurò fino a che l'immagine si dissolse. La cortina nera si addensò.

Callum scavalcò il riquadro della cornice. Ci fu uno scorcio di luce, poi le tenebre gli si chiusero dietro come tende. Perplesso, lo seguii con un balzo. Ebbi la sensazione di entrare in un tubo di scarico e rimasi disorientato quando i miei piedi toccarono il pavimento.

Corrugai la fronte. Eravamo in un tunnel in cui aleggiava l'odore acre e antico di una biblioteca abbandonata. L'illuminazione proveniva dalle pareti, sottili righe argentee che brillavano negli spazi tra i blocchi squadrati di pietra. Anche dai gradini era sprigionato un lieve bagliore. Il silenzio era rotto dall'eco di un pianto disperato, che rimbombava contro i muri.

Il vincolo mi travolse con prepotenza e il cranio sembrò esplodermi in mille pezzi. L'istinto di protezione mi bruciava sottopelle, scorrendo nelle vene come fuoco. La mia stessa anima era spaccata, e il frammento perduto mi stava attirando verso di sé con il magnetismo di una calamita.

Mi precipitai a capofitto giù per gli scalini. Incespicavo così spesso che, se fossi stato un essere umano, mi sarei di sicuro slogato una caviglia o peggio. «LUCIUS» ruggii, irrompendo nella grotta. Il fianco lanciava stilettate lancinanti. «DAMMI MIA FIGLIA!»

Lucius fu incredibilmente rapido. Afferrò un pugnale in oricalco e lo puntò alla gola della neonata che gli si dimenava con furia tra le braccia. Una morsa gelida mi attanagliò le viscere. Il mio sguardo era incollato su di lei. Bellissima, minuscola e fragile, preda del mio stesso mostro.

Callum mi affiancò. «Ci sono degli esplosivi, Nicholas. Vuole andarsene e far saltare il portale».

«Congratulazioni, Uno. Sei sempre stato intelligente». Lucius sorrise compiaciuto. Alle sue spalle spiccava un grosso pilastro di marmo bianco alto due metri, attraversato da striature brunite che ricordavano delle ferite sanguinanti. Alla base erano stati collocati degli ordigni. «State buoni e buttate le armi. Nessuno qui vuole che la bimba si faccia male, giusto?»

Ringhiai, schiumante di rabbia. «Non azzardarti a sfiorarla. O giuro che ti stacco tutte e venti le dita e te le faccio ingoiare, prima di sgozzarti come il porco che sei».

«Pensi che non ti daremo la caccia?» lo incalzò Callum, gettando la pistola. «Dovrai trascorrere il resto della tua insulsa vita in fuga».

«Sono più bravo di voi a nascondermi». Lucius strinse la piccola, che aveva liberato una manina dal lenzuolo in cui era avviluppata e tentava di graffiarlo con le sue unghiette acuminate. A giudicare dai vari tagli che aveva sul collo e sul mento, non era la prima volta. «E avrò chi mi tiene compagnia».

Digrignai i denti. «Ti odia già. Non te ne sei accorto?»

«No, semplicemente percepisce il tuo, di odio». Lucius ci rivolse uno sguardo amareggiato. «Non volevo che finisse in questo modo. Vi ho amati, più di quanto abbia fatto chiunque altro. A voi, ai vostri fratelli. Soprattutto a te, Zero. Chi pensate che avesse avuto l'idea di approfittare delle pause estive dagli esperimenti per farvi scappare, eh? Certo, poi tu hai cercato di uccidermi e sono stato obbligato a improvvisare. Ma chi credete che abbia avvisato quello smidollato di Thomas di venire a salvarvi, nonostante fossi sopravvissuto per un soffio?»

Concentrarmi sulle sue parole mi fu impossibile. Mi ero interrogato spesso sul tempismo del dottor Stone, che si era presentato al castello per prelevare i miei fratelli la stessa notte in cui avevo ucciso – senza premeditazione – mia madre, ma adesso non mi interessava. Niente aveva importanza, tranne il mio angioletto.

«Sono stanco di sorbirmi le tue stronzate su quanto ci hai amati». La voce di Callum era irriconoscibile. Rauca e raschiante. Fremeva, intrisa di ribrezzo. «Dovremmo tessere le tue lodi e prostrarci a te... per cosa? Perché, anziché torturarci a suon di frustate, godevi di più a metterci in ginocchio tra le tue gambe? O a piegarci su un tavolo, o a metterci a quattro zampe sul letto? Beh, grazie. Ti sono davvero grato per tutti gli incubi che non mi fanno dormire da quando avevo quattro anni. È merito tuo se non sopporto il contatto fisico. Grazie, sì. Sei contento? È questa la reazione che ti aspettavi?»

L'espressione di Lucius mutò. Era frastornato. Mi resi conto che la sua non era una farsa, né ipocrisia. Non avrebbe mai capito che cosa avesse sbagliato. Per lui il nostro disprezzo era ingiusto. Era convinto di averci amato, di amarci, per questo aveva salvato Remiel a scuola... quindi, cambiai strategia.

«Puoi ancora rimediare». Gli mostrai i palmi, iniziando ad avvicinarmi con cautela. «Restituiscimi mia figlia e ti perdonerò. Tutto tornerà come prima tra di noi. Ma devi ridarmela».

Lucius rise. «Non sono idiota. Ho accettato di averti perso, Zero. Hai scelto Seth».

«Mi sono nutrito di Ethan. Sappiamo entrambi che Seth non si fiderà mai più di me, dopo una cosa del genere». Inclinai il capo di lato. «Tu sì, però. Tu mi amerai sempre».

Un lampo speranzoso guizzò sul viso di Lucius. «Mi perdoneresti?» replicò con riluttanza.

«Per ciò che mi hai fatto, sì. Ma non se fai del male a mia figlia. Questo non è amore».

Lucius esitò, poi la sua mano si abbassò di pochi centimetri. Ci fu un altro scossone. Ondeggiai. La Torre stessa cominciò a traballare, come se fosse in corso un terremoto dalla potenza devastante. Il pugnale gli scivolò.

E anche la bambina.

Callum si tuffò in avanti. La afferrò e si chiuse a riccio per proteggerla dall'impatto col terreno. Mi scagliai su Lucius e gli sferrai un pugno abbastanza forte da frantumargli lo zigomo. Gli incantesimi Antidemoni si stavano sciogliendo, ma non ancora ancora i miei pieni poteri. Sputò un grumo denso con un rantolo.

Lo agguantai per i capelli. «È il tuo turno di inginocchiarti» sibilai, dandogli un calcio al ginocchio. La rotula si spezzò in uno schiocco secco.

Lucius guaì e mi rifilò una gomitata in pieno viso. Non mollai la presa. Un boato riempì l'aria e il tunnel tremò di nuovo. La pietra stridette, mentre delle crepe si arrampicavano su per i muri. Cademmo entrambi. Dal tonfo che udii, anche Callum aveva subito la stessa sorte.

Io e Lucius lottammo, avvinghiati in un groviglio confuso. Lui riuscì a montarmi a cavalcioni, schiacciandomi l'addome con la gamba sana. Lo stomaco mi si ribaltò e per un attimo rimasi paralizzato dall'orrore. Poi Callum, ancora disteso, spinse un oggetto verso di me. Ci fu un bagliore metallico.

Allungai il braccio, tastai con frenesia il pavimento e raccolsi il coltellino. Lo ficcai nell'occhio di Lucius. Il suo strillo mi schizzò di saliva. Ribaltai le posizioni. Impugnai il manico e rigirai la lama nel suo bulbo oculare. Lui si aggrappò alla mia maglia. Gli torsi il polso e gli spaccai la mascella con un gancio destro.

Le urla si trasformarono in grugniti impastati. «Zero» farfugliò in tono di supplica.

«IL MIO NOME È NICHOLAS». Con il respiro affannato, mi accanii sulla sua faccia. Il naso, rimasto storto da quando glielo avevo fratturato due mesi prima, divenne una poltiglia. «Volevo solo che fossi mio padre». Singhiozzai. Il pugno, pur fiacco, gli disintegrò gli incisivi dell'arcata superiore. «Volevo solo un padre». Il colpo fu patetico, ma l'anello gli strappò la carne della guancia. Tremavo, tremavo tutto. «P-perché?»

Perché non potevi amarmi come un padre?

Mi piegai su di lui e feci aderire le nostre fronti. Un'immagine guizzò nella mia mente.

Un giovane Lucius, poco più che ventenne, ricurvo su un'incubatrice. Osservava un neonato dai ciuffetti biondi, pieno di tubicini che si diramavano dal suo corpicino e monitoravano le sue funzioni vitali. Inserì la mano in una delle apposite finestrelle. Il piccolino si animò e gli catturò il pollice tra i suoi artiglietti.

Sorrise con tenerezza, bisbigliando: "Ti proteggerò, Zero. Te lo prometto".

Tornai al presente. Mi raddrizzai, ansimante. Gocce di sudore mi rigavano il viso. Ne sentii il sapore salato sulle labbra, ma mi rifiutai comunque di pensare che fossero lacrime. Non le meritava. Non potevo piangere per lui. Anche se, forse, piangevo per me.

Tirai fuori dalla tasca il pezzo degli scacchi, il re. Gli aprii la bocca e glielo infilai dentro, fin giù nell'esofago. «Scacco matto».

Sollevai lo sguardo e incrociai quello di Zero. Era lì, immobile, magrissimo sotto la sua vestaglia bianca del laboratorio. Il suo sguardo era sereno finalmente. Fece un cenno a stento percettibile col capo.

Un ringraziamento. E un congedo.

Era morto, senza aver mai vissuto. I suoi assassini erano stati puniti. Aveva avuto giustizia e poteva andare. Poteva riposare. Era in pace. Era libero.

«Nicholas».

Mi alzai arrancando e mi girai verso mio fratello. Era coperto di polvere. Sorreggeva un fagotto, che si lasciava cullare con dei versetti gioiosi. Lo tese per consegnarmelo.

Arretrai d'istinto. «Non... non so se posso».

«Sì che puoi». Annuì con fare rassicurante. «Non le farai nulla».

La presi, rigido come una statua. Il cuore mi tuonava in gola, ma nel momento in cui la bambina fu tra le mie braccia i suoi battiti si fecero addirittura dolorosi. Si schiantava contro le costole, come se volesse uscire e tornare dalla sua legittima proprietaria.

Perché era suo. Apparteneva a lei ormai. Eravamo legati, lo saremmo stati in eterno.

«Ciao». La mia voce era un tremulo sussurro. «Ciao, angioletto».

Stando attento a non sporcarla di sangue, le sfiorai una guanciotta paffuta e ridacchiai quando batté le manine in un gesto allegro. Prese il mio dito e lo mordicchiò senza denti. La sua pelle, morbida e setosa, profumava d'innocenza. Aveva già un po' di capelli, dello stesso nero lucido della sua mamma.

Ma gli occhioni scintillanti con cui mi fissava erano blu zaffiro. Proprio come i miei.

Scoppiai in una risata incontenibile. «Alla fine ho trovato qualcuno più stupendo di me».

Callum sorrise divertito, poi si voltò e raggiunse la colonna. Stappò la boccetta con il sangue di Thomas e versò metà del suo contenuto. L'aria si illuminò di un bagliore intenso, mentre il liquido si fondeva nel marmo, formando l'ennesima venatura brunita sull'obelisco.

«Vieni, Nicholas. È meglio sbri-»

Un sussulto fece vibrare la galleria. Una tremenda onda sismica che parve sbattere il mondo a destra e a sinistra. Indietreggiai di qualche passo e caddi all'indietro, stringendo la bambina al petto. Una spaccatura si aprì nel soffitto con un crepitio e cominciarono a piovere macerie. Il grido di Callum venne soffocato dagli schianti della pietra sul pavimento.

Incastrando la piccola nell'incavo del gomito, mi misi a carponi e mi allontanai verso le scale. Cercai di tirarmi in piedi, ma un macigno si abbatté sulla mia spalla e mi accasciai. Quando provai a muovere il braccio sinistro, il dolore fu lancinante.

Mi raggomitolai e racchiusi la bimba tra la pancia e le ginocchia sollevate, facendole da barriera con il mio corpo. Piagnucolava, fasciata nel suo lenzuolino.

"Non avere paura, angioletto. C'è papà con te".

Che il pensiero le fosse arrivato o meno tramite il legame, non fece nessuna differenza.

Il fracasso si interruppe. Una cascata di ciottoli si riversò sul suolo, poi piombò una calma inquietante. Gli occhi mi bruciavano per il pulviscolo. Esalai un sospiro, tossii e mi rialzai. Il braccio sinistro penzolava insensibile. Nell'altro, mia figlia emise un vagito lamentoso.

«Nicholas!» mi chiamò Callum con una nota di panico. «State bene?»

Un cumulo di detriti si ergeva adesso tra di noi, ostruendo il passaggio. Era rimasta soltanto una fessura, all'incirca al centro. Non era abbastanza spaziosa per un adulto. Un neonato, d'altronde...

«Sì». Abbassai lo sguardo e vidi una scheggia che mi spuntava dalla coscia. Non la tolsi. La mia infanzia mi aveva fatto maturare una discreta conoscenza di anatomia ed ero piuttosto certo che nei paraggi ci fosse l'arteria femorale. «Alla grande».

«Dobbiamo aprire un varco».

Zoppicai fino alla barriera di macerie. «Sarebbe uno spreco di tempo. Al prossimo terremoto rischiamo che ci crolli tutto addosso».

Non badai alla risposta di Callum. Fissai la mia piccolina. La immaginai già grande, che guardava i cartoni animati e giocava sull'altalena. Era così che sarebbe cresciuta. Felice... e amata. Nel modo giusto.

«Sono abituato a essere un mostro. Ogni favola che si rispetti ha bisogno di un cattivo. È il mio ruolo. Ma non per te. Nella tua storia voglio essere l'eroe». Le depositai un bacio sulla fronte, socchiudendo le palpebre. «Papà ti vuole bene. Tanto. Ricordatelo, ti prego».

Callum si affacciò dall'altra parte del buco. «Nicholas, che succede?»

«Te la passo. Aiutami».

Avendo una sola mano a disposizione, non fu un'operazione semplice. Dopo un paio di minuti, però, riuscii a infilare mia figlia nell'apertura e Callum la prese. Poiché si agitava, non potemmo impedire che si procurasse un taglietto sul gomito. Strepitò come una dannata, nonostante la ferita si fosse rimarginata in un attimo.

«Trova un altro portale». Callum mi porse la fiala. «Tieni. Ti servirà per aprirlo».

Mi staccai la collana e la posai sul suo palmo, al posto della boccetta. Le sue dita si chiusero attorno al ciondolo, prima che ritirasse il braccio. «Che stai facendo?»

«Se dovesse andare male...» esordii.

«No. Non dirlo neanche».

Lo ignorai. Un lieve fremito fece vibrare il terreno e delle pietruzze rotolarono dalle pareti. «Voglio che tu sappia che non c'è nessun altro a cui la affiderei. Sei stato tutto per me. Il mio migliore amico, il mio confidente, la mia guardia del corpo, il padre che non ho mai avuto...»

«Sta' zitto». Mi stava implorando. «Smettila, per favore».

«Grazie per tutto ciò che hai fatto. E grazie anche al resto degli idioti. Sono stati dei rompicoglioni, ma i migliori fratelli che potessi desiderare. Mi avete dato più di quanto meritassi».

Ci fu un tonfo. Callum doveva aver dato un pugno al mucchio di macerie che ci separava. «Non fare questi discorsi del cazzo. Ci vediamo presto, capito, fratellino?»

Un senso di vertigini mi assalì. Malgrado non avessi rimosso la scheggia, sentivo dei rivoli scivolarmi copiosi lungo la gamba. «Prenditi cura dei miei umani».

Mi diressi verso la galleria e mi trascinai su per la scala, sbuffando per lo sforzo a ogni gradino. Callum urlava, chiamando il mio nome. Mia figlia piangeva. Il legame sembrava strattonarmi all'indietro.

Giunto in cima, scavalcai la cornice d'oscurità e mi ritrovai nel corridoio. Il vecchio nel quadro riapparve, scrutandomi torvo. Mi incamminai, incespicando nei miei passi. Non capivo se a vorticare fosse il mondo o la mia testa.

Avevo l'impressione che la Torre si stesse accartocciando su sé stessa. Le pareti esterne erano intatte, incluse le finestre. Al contrario, i muri interni erano ridotti a brandelli. Ovunque giacevano i cadaveri martoriati di coloro che erano stati travolti dalle macerie. Ogni tanto cascavano enormi pezzi di pietra dall'alto e investivano i pochi superstiti ancora in vita. A giudicare dalla puzza, da qualche parte erano persino scoppiati degli incendi.

Dappertutto il bianco opprimente dell'Olympus era stato rimpiazzato dal rosso, dal fumo, dalla cenere. Era un design decisamente migliore. Mi venne da sorridere. "Ottimo lavoro, matusa".

Thomas aveva accennato a due portali alternativi da cui avremmo potuto tagliare la corda. Quello di New York era più sicuro, ma più distante. Così dovetti optare per il secondo. Era situato dietro il ritratto di una signora avvizzita in un raccapricciante abito da sera floreale. Sfiorai la firma nell'angolo e gettai la gamba ferita oltre il bordo. Imprecai, serrando i denti.

L'intera struttura oscillò con un fragore assordante. Ruzzolai nel tunnel e rotolai giù per gli scalini. La fialetta si infranse, spargendo una pozza vermiglia sul pavimento. Era finita, nel profondo ne ero consapevole. Non sarebbe mai bastato. Ma tanto valeva fare un tentativo.

Ci intinsi la mano e strisciai con il gomito verso il pilastro, troppo debole per alzarmi. Il fianco mi doleva. La scheggia conficcata era volata via, con il risultato che adesso dalla coscia sgorgavano flutti di sangue. Distesi il braccio, strusciai le dita sul marmo della colonna e...

Nulla.

Il passaggio rimase sigillato.

Mi sdraiai sulla schiena e chiusi gli occhi, esausto. Ripensai ai miei fratelli, ai miei umani. A entrambi i miei angioletti. Al mio Scrat.

In qualche modo, sapevo che Keegan aveva mantenuto la sua promessa. Non ne aveva avuto l'intenzione all'inizio, eppure l'aveva fatto. Li aveva risparmiati.

Erano tutti vivi, ne ero sicuro.

La mia famiglia stava bene.

E sorrisi. Perché stavo bene anch'io.

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