𝕮𝖆𝖕𝖎𝖙𝖔𝖑𝖔 6 (Nicholas)

"ℭ'𝔢̀ 𝔲𝔫 𝔭𝔯𝔦𝔪𝔞 𝔡𝔦 𝔱𝔢 𝔫𝔢𝔩𝔩𝔞 𝔪𝔦𝔞 𝔳𝔦𝔱𝔞,
𝔪𝔞 𝔱𝔦 𝔭𝔯𝔢𝔤𝔬, 𝔣𝔞𝔦 𝔠𝔥𝔢 𝔫𝔬𝔫 𝔠𝔦 𝔰𝔦𝔞 𝔲𝔫 𝔡𝔬𝔭𝔬"

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Avevo imparato a leggere attorno ai sedici anni.

Era stato Seth a insegnarmelo e, tra le tante cose che aveva fatto per me, la consideravo una di quelle per cui non avrei mai trovato il modo di sdebitarmi.

Grazie a lui, avevo scoperto miriadi di mondi fatti d'inchiostro, di personaggi che palpitavano sulla carta di sentimenti a me impossibili da comprendere, di storie in cui potermi immergere per dimenticare tutto. Per liberarmi di ciò che ero e diventare qualcuno di diverso, di migliore, almeno per un po'.

Erano i pochi momenti in cui mi sentivo davvero in pace.

Così, dopo che i miei fratelli erano usciti per andare a scuola, ne approfittai per ritirarmi nella biblioteca. Era un luogo ampio, alto due piani, con una balconata che correva lungo il secondo e gli scaffali pieni di libri che arrivavano fino al soffitto. Le pareti di legno erano scolpite di bassorilievi tinteggiati che rappresentavano fiori avvizziti, viticci e liane così realistici da produrre un effetto naturale.

Nostra madre non ci permetteva di entrarci e comunque sarebbe stato inutile, non sapendo né leggere né scrivere. Dalla sua morte ci avevo messo piede solo un paio di volte, dato che da allora non avevo più vissuto al castello, ma nel farlo provavo sempre un senso di ribelle soddisfazione.

Quanto avrei voluto che mi vedesse, per il gusto di riderle in faccia mentre profanavo il tempio di quel sapere di cui, per lei, non eravamo degni.

Accompagnato da una sonata di Bach, mi ero immerso nella lettura delle vicende di Dorian Gray e stavo giusto iniziando a pensare che sarebbe stato molto bene nei panni di un De'Ath, quando dei rumori mi disturbarono.

Sulle prime cercai di ignorarli, poi però si fecero sempre più insistenti: voci che urlavano ordini, trapani, trivelle, macchine in piena attività e schiamazzi vari. Sembrava di essere stato catapultato nel mezzo di un cantiere.

Sbuffando, misi giù il libro. Mi alzai dalla scrivania, spensi il grammofono e uscii nel corridoio a passi pesanti. Dovetti lottare contro me stesso per non sbranare nessuno degli operai o degli elettricisti che incrociai sul mio cammino, ma su una cosa fui categorico: «Toccate la mia biblioteca e faccio una strage».

Loro mi avevano risposto con degli sguardi vacui e capii che erano tutti sotto l'effetto di qualche droga, o erba.

Trovai Kath nel salottino in cui i nostri genitori accoglievano gli ospiti, con addosso una canottiera di pizzo che le fasciava il corpo sottile e dei leggings aderenti. Aveva spostato i divanetti e i pouf per fare spazio a un tappetino su cui stava seduta a gambe incrociate, davanti alla televisione. Era accesa e c'era un idiota che blaterava consigli sulla respirazione, dicendo di immaginarsi prati e unicorni per rilassarsi.

Okay, non proprio, ma erano stupidaggini del genere.

«Sorella! Cos'è quel casino?» sbottai al mio arrivo. «Perché, quando dico che non mi piace il silenzio, non mi riferisco a grida da pescivendoli e omaccioni sudati a zonzo per casa».

«Nik, sto meditando». Lei mi sbirciò da sotto una palpebra, un sorriso sereno sulle labbra. «Anzi, farebbe bene anche a te e al tuo caratteraccio, sai?»

Feci una smorfia disgustata. «Piuttosto mi impicco».

Kath mi ignorò. «Callum li ha chiamati perché, e lo cito testualmente, "non sopporta di vivere in una catapecchia polverosa". E non ha torto: le tubature fanno schifo, abbiamo a stento la corrente elettrica, il tetto cade a pezzi...» Scrollò le spalle esili. «Ma tranquillo. Gli abbiamo somministrato uno dei rimedi speciali di nostra madre. Alla fine del restauro, non si ricorderanno neanche di essere stati qui».

«Non è quello il punto. A me andava benissimo la catapecchia polverosa» protestai risentito.

Kath aprì gli occhi grigi, rivolgendomi un'espressione fin troppo gentile. «Tornerà presto, tranquillo. Ne sono sicura».

«Callum? Bene, così lo ammazzo». Mi avvicinai al mobile dei liquori e, attraverso la vetrina, cominciai a valutare quale fosse più adatto per migliorare l'ennesima orribile giornata.

«Parlavo di Seth».

Quel nome mi strappò un sussulto al cuore. "Non c'è mai fine al peggio" sospirai tra me, optando per la vodka.

Presi la bottiglia e richiusi lo sportello, seguito dallo sguardo in paziente attesa di mia sorella. Tolsi il tappo e bevvi un lungo sorso, poi un altro. Il liquido mi bruciò la gola, il sapore pungente sulla lingua, ma sapevo che non avrebbe sortito alcun effetto. Avrei dovuto impegnarmi parecchio per raggiungere la sbronza.

«So che ti manca, Nik» aggiunse in tono dolce.

Mi voltai di scatto verso di lei, sentendo la rabbia montarmi nel petto senza un motivo esatto. «Non mi serve una delle tue perle di psicologia spicciola, okay? E comunque non sei molto brava, ti suggerisco di trovare un'altra vocazione».

«Quindi il tuo malumore degli ultimi cinque mesi non è perché ti manca?» C'era una nota sfrontata nella sua parole, come se mi stesse sfidando a negare l'evidenza.

Strinsi la mano in un impeto d'ira e la bottiglia esplose. La vodka inondò la soffice moquette e minuscoli frammenti di vetro si sparpagliarono ovunque. Avvertii un lieve bruciore che accolsi con piacere, l'odore del mio stesso sangue che mi inebriava, ma i taglietti sulla pelle si rimarginarono subito e il dolore scomparve. Rimasero solo delle macchioline purpuree che mi pulii sulla manica della felpa.

Mi accorsi che Kath mi stava fissando con un sopracciglio inarcato e borbottai, incamminandomi verso la porta: «Esco, altrimenti i prossimi lavori saranno delle tombe da scavare».

«Nik, aspetta!» mi chiamò lei, ma me n'ero già andato.

Poiché non avevo voglia di guidare, mi allontanai dal castello a piedi. Avevo preso la patente in netto ritardo rispetto alla media degli adolescenti americani e, a differenza della maggior parte di loro, le macchine non mi entusiasmavano.

Quando ero di cattivo umore, poi, non era il caso di mettermi al volante.

Nonostante gli uccelli che cinguettavano e il fruscio del vento, il silenzio della campagna non tardò ad assalirmi. Mi martellava nelle orecchie, incessante, un ronzio fastidioso conficcato nel cervello e che non taceva mai. Ma ora lo sentivo distintamente, era come un prurito che non potevo grattare.

«Basta, basta, basta» sussurrai, massaggiandomi le tempie. Odiavo quei maledetti bisbigli. «Lasciatemi stare».

Scariche di puro potere presero ad attraversarmi il corpo, scalpitanti di libertà. Invece di lasciarle andare, però, mi limitai a colpire con forza il palo su cui era appeso il cartello che annunciava "Crystal Lake". Lo osservai crollare al suolo con un tonfo, ma ero ancora furioso.

Una parte di me avrebbe voluto abbandonarsi a quell'ira; combatterlo era tanto estenuante quanto inutile, soprattutto dal momento in cui avevo perso l'unica persona che riusciva a vedermi oltre a esso.

Ho fatto qualcosa di sbagliato?

Mi succedeva spesso di ferire gli altri senza accorgermene. Era difficile, i sentimenti mi sembravano tutti uguali mentre i comportamenti delle persone erano tutti dannatamente diversi. E di solito non mi prendevo neanche il disturbo di fingere che mi interessassero.

Forse Seth ce l'aveva con me. O magari alla fine si era reso conto che, spogliato dall'odio e dal rancore, non c'era nient'altro. Solo il vuoto.

Una risata riecheggiò all'improvviso. «Guardati! Ti comporti come un ragazzino in calore!»

Per un attimo mi paralizzai, la paura che mi si annidava fin nelle viscere.

A pochi metri da me era apparso lui, la luce del sole mattutino che lo trapassava senza gettare nemmeno un riflesso. Aveva il solito aspetto: la carnagione dorata, i capelli scuri e cortissimi, gli occhi neri puntati su di me e i lineamenti duri, tranne che per la costante piega divertita della bocca che disprezzavo più di tutto.

Dimostrava pressappoco una quarantina d'anni, l'età che aveva quando era morto.

Mi imposi di recuperare il controllo e lo superai, il cuore che mi batteva all'impazzata.

Era soltanto un ricordo, uno stupido fantasma che ogni tanto sgusciava fuori dalla mia mente. Ma non poteva farmi nulla, non l'avrei permesso. Mai più.

«Sono confuso» commentò Lucius, affiancandomi. «Non vuoi parlarmi, eppure continui a evocarmi. Hai nostalgia del passato?»

«Non sei qui. Parlare con te sarebbe come parlare con me stesso ed è una cosa patetica» sibilai a denti stretti, accelerando l'andatura. «Perciò vattene».

«Se non ci sono, come posso andarmene? Ti contraddici, Zero».

Un fremito mi percorse la schiena. «Mi chiamo Nicholas».

Lui svanì e mi ricomparve di fronte. Anche se non era fatto di carne e ossa, non riuscii a evitare di immobilizzarmi sul posto. «Avere un nome non cambia ciò che sei». Accostò il suo viso al mio e un terrore gelido si impadronì di me. «Sarai sempre un mostro, Zero. Un mostro con le mani grondanti di sangue. E se fosse questo il motivo per cui il tuo adorato amico se n'è andato via da te? Non ci hai pensato?»

«No, non è vero. Seth tornerà».

Feci per indietreggiare, ma le sue dita si chiusero attorno al mio polso in una morsa d'acciaio. Non era possibile, lo sapevo. Nel profondo ero consapevole che non c'era niente di concreto che mi trattenesse per davvero, ma più ero spaventato, meno ero razionale e più le mie visioni apparivano realistiche.

«Ammesso che tu abbia ragione, come credi che finirà, Zero?» Lucius mi attirò a sé, circondandomi la nuca con l'altra mano. Premette la fronte contro la mia. «O tu lo ucciderai, o lui ti tradirà. Non esistono alternative».

Scossi il capo. Avevo la gola così arida che ogni parola mi raschiava le corde vocali. «Non farei mai del male a Seth».

«Ma non sei sicuro che non ne farà a te, giusto?» Le sue labbra mi strusciarono la guancia, facendomi ribaltare la stomaco. «Povero, piccolo, Zero. Non hai ancora imparato a non fidarti? Non te l'ho insegnato abbastanza bene?»

Il mio respiro divenne pesante, ogni boccata che mi costava uno sforzo immane.

Chiusi gli occhi e percepii di nuovo il calore del suo corpo, così grande che quasi scomparivo sotto di lui, premuto sulla mia schiena e il suo alito ansimante vicino all'orecchio. Sussurrava frasi tenere, promettendomi che prima o poi sarebbe stato bello anche per me, che era solo questione di abitudine. Quel momento però non era mai arrivato.

«Ehi, ragazzino. Stai bene?»

Fu come svegliarsi di soprassalto da un incubo.

Mi girai di scatto e vidi un uomo che si sporgeva dal finestrino di un furgone grigio, accostato nella viuzza sterrata che si diramava dalla strada principale. Mi guardai attorno, pallido e tremante, ma Lucius era scomparso e io ero da solo. Nel silenzio.

Accettai il passaggio offertomi da Sean, il conducente del furgone, senza troppi problemi.

Mi sentivo stremato e non volevo tornare indietro, perciò gli chiesi di accompagnarmi fino a Notturn Hall. A essere sincero, mi era ronzata in testa l'idea di nutrirmi di lui per rilassarmi, ma nonostante tutto non volevo infrangere la promessa fatta a Callum di comportarmi bene.

Inoltre, avevo trovato un altro modo in cui poteva essermi utile, senza dover sopportare una seccante paternale da mio fratello.

Infatti, mi ero accorto delle occhiate furtive che l'uomo mi lanciava dall'istante in cui ero salito e fiutavo l'eccitazione che riusciva a nascondere così abilmente dietro a un sorriso cortese. Era più grande di me di una decina d'anni; robusto, con una barba castana un po' ispida e dei muscoli delle braccia talmente gonfi che le maniche della camicia a quadri parevano stare per scoppiare.

Sebbene non fosse il mio tipo, avevo urgente bisogno di scaricare la tensione e decisi che mi sarei accontentato.

«Come ti chiami, ragazzo?»

Con un movimento pigro, sfilai la collana con il ciondolo e la misi in tasca. Anche se non potevo essere certo che conoscesse la mia famiglia, preferivo non rischiare a presentarmi come un De'Ath. «Nicholas».

«Bel nome».

Sorrisi, pensando che fosse un approccio piuttosto banale.

Sean mi studiò per un attimo. Un lampo dubbioso gli balenò sul viso e proseguì: «Quanti anni hai?»

«Abbastanza da sapere che dovresti concentrarti sulla strada».

«Perché eri tutto solo? Litigato con la fidanzata?» insistette lui con una mezza risatina.

Mi rilassai sul sedile, le gambe divaricate e le palpebre socchiuse. «Nah. Le fidanzate non fanno per me».

La sua mano destra mollò il cambio manuale e si posò leggera sul mio ginocchio, quasi per caso. Poiché non gliela tolsi, la presa si fece man mano più salda e cominciò a strusciarmi il pollice sul tessuto dei pantaloni. «Ti offendi se ti faccio un complimento?»

«No, ma attento a non esagerare. È opinione comune che io sia un gran narcisista».

«Non mi sorprende» sghignazzò. «Sei abbastanza carino da potertelo permettere».

Lo guardai. «Carino? Così sì che mi offendi».

Era evidente che Sean non sapesse come interpretare la mia risposta, ma dovette concludere che valevo un azzardo. «In effetti, sei il ragazzo più bello che io abbia mai visto. Hai degli occhi splendidi».

Sbirciai il mio riflesso dallo specchietto retrovisore. Avevo i capelli arruffati ed ero ancora un po' cereo in viso, ma le mie iridi blu scintillavano, increspati da baluginii simili a onde. Erano l'unica parte di me che tradisse all'esterno la mia natura soprannaturale.

«Molto meglio» replicai compiaciuto.

«Eccoci» sentenziò infine l'uomo, fermandosi davanti a una stazione di servizio ai margini della città. «Hai già fatto colazione? Se non vai di fretta, potremmo mangiare un boccone insieme. Pago io».

Abbozzai un sorrisetto, cogliendo la punta speranzosa nella sua voce. «Saltiamo la parte in cui mi seduci, eh?» Sganciai la cintura di sicurezza. «Ci sto. Facciamolo».

«Fare cosa?»

«Quello a cui hai pensato per l'intero tragitto». Ruotai la testa verso di lui, ammiccando. «Mi sono stancato di rimorchiare solo ragazze. Le adoro, non fraintendere, ma mi piace cambiare».

Sean rimase interdetto. «Che ne sai che sono interessato?»

Accennai alla sua mano, che nel frattempo si era spostata sulla mia coscia. «Non ci vuole un genio». Quando la ritirò di scatto, ridacchiai e poi mi strinsi nelle spalle. «Ma se sbaglio, dimmelo pure».

Il suo sguardo mi esaminò con malcelata bramosia. «Non saprei. Sei un po' giovane e sembri ancora sconvolto...»

«Non sono minorenne, e non ti stai approfittando di me» sussurrai irritato, reprimendo l'impulso di sfoderare i canini retrattili.

Non sopportavo che la gente mi considerasse debole o indifeso, cosa che succedeva non di rado per colpa del mio fisico snello che non incuteva poi tanta paura. Se avessero saputo che, a discapito delle apparenze, avevo una forza di gran lunga superiore a qualsiasi essere umano non avrebbero osato sottovalutarmi.

Sean esitò, poi sfilò le chiavi dal cruscotto e annuì. «D'accordo, vieni con me. In macchina è scomodo».

Soddisfatto, uscii dal furgone e mi lasciai condurre in un vicoletto sul retro della stazione di servizio, vicino alle scale antincendio.

Malgrado la precedente ritrosia, ebbi l'impressione che la mia età lo infervorasse parecchio, probabilmente sperava che gli rendesse più facile prendere il comando della situazione. Ed era ovvio che era quello che desiderava, perciò stetti al gioco.

Con assoluta docilità gli permisi di spingermi contro il muro, schiacciandomi con il bacino. Premette la bocca sulla mia in un bacio carico di frenesia e lo ricambiai, anche se la barba mi pizzicava in maniera odiosa. La sua mano sinistra si infilò tra i miei capelli mentre l'altra scivolò ad accarezzarmi sotto la felpa.

Rabbrividii quando il suo tocco rude mi sfiorò la schiena, riportandomi per un istante nel passato. A quella presenza bruciante che mi sovrastava, o agli schiocchi che risuonavano prima di ogni colpo.

Sean si staccò per riprendere fiato, giocherellò con una ciocca bionda attorcigliata attorno al suo indice, poi tornò a unire le nostre labbra con foga. Mi mordicchiò quello inferiore, passò a baciarmi il mento, proseguì lungo la mascella e cercò dunque di scendere sulla gola.

Lo bloccai. «Quelle no. Il resto è tuo, ma quelle no».

«Perché? Sono solo cicatrici».

«Ho detto di no» sibilai, e la mia voce risuonò come una frusta.

Sean tentennò, uno scintillio quasi spaventato negli occhi, ma si tranquillizzò non appena lo presi per i fianchi, tirandomelo addosso. Non opposi resistenza a nessuna delle sue richieste, nemmeno quando mi fece sdraiare sui gradini metallici della scala antincendio, mettendosi a cavalcioni sopra di me.

E menomale che voleva stare comodo.

Mentre esplorava la mia bocca con la lingua, sentivo le sue dita che -tremanti per il desiderio- armeggiavano con i miei jeans. Riuscì a strapparmi via la cintura nello stesso momento in cui il mio telefono prese a vibrare nella tasca.

«Aspetta» sospirai.

In preda alla lussuria, Sean mi ignorò e mi calò la zip. Lo scansai con un gesto brusco che lo lasciò di stucco; a giudicare dalla sua espressione, era scioccato dal fatto che fossi riuscito a smuovere la sua montagna di muscoli senza difficoltà.

Estrassi il cellulare e illuminai lo schermo. Il cuore mi balzò in gola. Scattai in piedi e, intanto che riallacciavo la cerniera dei pantaloni, presi ad allontanarmi dal vicolo. Badai a stento alle lamentele di Sean alle mie spalle e gli borbottai di aspettare, incurante se mi avesse udito o meno. Non mi importava granché.

«Che c'è, ti fischiavano le orecchie?» esordii sarcastico. Pregai tra me di essere riuscito a camuffare l'emozione che mi aveva travolto subito dopo aver letto il suo nome nella notifica della chiamata.

«Soggetto Zero, presumo».

Mi irrigidii. Non conoscevo la voce rauca che mi aveva risposto, ma di certo non aveva nulla a che fare con il timbro scherzoso e famigliare che mi aspettavo. «Chiunque tu sia, se hai sfiorato Seth anche solo con un dito, ti consiglio di preparare il testamento».

«Il tuo amichetto sta bene. Per ora».

Emisi un ringhio sommesso. Strinsi il pugno e avvertii il pizzicore degli artigli che mi si conficcavano nella carne, così in profondità che rivoli di sangue caldo sgorgarono dal palmo. «Mi perdonerai se non ti credo sulla parola».

Dall'altra parte della linea riecheggiò il suono di uno strappo e, con una stretta allo stomaco, sentii Seth -l'avrei riconosciuto ovunque- che esclamava furioso: «Ahia! Piano con quello scotch del cazzo, bestioni scimuniti!»

Seguì il rumore di uno schiaffo, un gemito, quindi l'uomo dalla voce rauca tornò a rivolgersi a me. «Contento, mostro? È vivo e vegeto».

Sospirai, sforzandomi di rimanere lucido. Un caos di pensieri mi turbinava nel cervello mentre la mia mente elaborava frenetica tutti i modi in cui avrei potuto ucciderlo. Immaginai di scorticarlo vivo, un centimetro di pelle alla volta, o di squarciargli il ventre e godermi la scena di lui che si contorceva nel tentare di rimettersi dentro le viscere.

Eppure non ero soddisfatto, non mi sembravano morti abbastanza dolorose.

«Ti propongo uno scambio» continuò l'uomo in un tono beffardo che mi suscitò tenerezza. Era sicuro di impugnare il coltello dalla parte del manico, di avermi in suo potere, ma avrebbe imparato presto che non era tanto facile manipolare un De'Ath. «Consegnati, e lascerò andare il tuo ladruncolo. Se proverai a fregarmi, o se ti porterai dietro un altro abominio simile a te, gli pianto un proiettile in testa». Fece una breve pausa per enfatizzare il concetto e concluse: «Tutto chiaro?»

«Certo» risposi con fare conciliante. Non avevo comunque intenzione di coinvolgere i miei fratelli, mi avrebbero rovinato il divertimento. «Ma mi servirà del tempo per arrivare fino a Las Vegas. Perché è lì che siete, giusto?»

Era una domanda retorica. Mi era stato sufficiente acuire il mio udito sovrasviluppato per cogliere il frastuono soffocato della musica, dei dadi, delle slot machine, perciò dovevano essere nei paraggi di un casinò.

Avevo anche percepito almeno una dozzina di battiti cardiaci piuttosto rapidi e affettati; il capo poteva anche non aver paura di me, ma i suoi scagnozzi erano di sicuro spaventati all'idea di affrontarmi.

«È un problema tuo. Hai fino a mezzanotte, non di più. Ti manderò la posizione». E riattaccò.

Abbassai il telefono, controllando l'orario. Non potevo andare in auto, questo era certo; Notturn Hall si trovava a nord del Wisconsin, vicino alla Contea di Brown, quindi sarebbe stato impossibile arrivare in Nevada in meno di una giornata. La rabbia mi attanagliò di colpo.

Non avrei dovuto permettergli di allontanarsi da me, dalla mia protezione. Adesso era in pericolo per colpa mia... o sua, perché aveva voluto andarsene da solo. Sua, perché era fragile. Come tutti gli esseri umani.

«Ehi, insomma!» Sean sbucò dal vicolo, accigliato. «Lo facciamo o no?»

Mi voltai e mi incamminai verso di lui, con il peso di un macigno che mi gravava sul petto. Qualsiasi fantasia erotica era stata spazzata via, rimpiazzata dai morsi di una fame lancinante e irrefrenabile.

Era il richiamo primordiale di un bisogno proprio della mia specie: uccidere.

Lo afferrai per un braccio e lo trascinai di nuovo nel vicolo, per poi sbatterlo contro la parete sudicia della stazione di servizio. Disorientato, Sean si protese per baciarmi, ma gli conficcai gli artigli in una spalla per tenerlo fermo, tappandogli la bocca con il palmo appena fece per gridare.

Il profumo della sua paura mi invase le narici e lo lasciai dibattere un po' nella mia presa, almeno finché l'eccitazione non fece spazio alla noia. Così gli piegai il capo di lato, affondai i denti nel suo collo e gli strappai la giugulare con un morso. Il suo corpo mi si afflosciò tra le braccia, fiotti di sangue che zampillavano come da una fontana.

La sensazione della sua anima che si spegneva e scivolava dentro di me mi travolse con una tale irruenza da provocarmi uno spasmo appagato. L'effetto era molto simile a un orgasmo, ma più gratificante.

Dopotutto, me l'aveva offerta per davvero la colazione.

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