𝕮𝖆𝖕𝖎𝖙𝖔𝖑𝖔 58 (Nicholas)
"𝔄𝔫𝔡 𝔦𝔫 𝔱𝔥𝔢 𝔪𝔦𝔡𝔡𝔩𝔢 𝔬𝔣
𝔪𝔶 𝔠𝔥𝔞𝔬𝔰, 𝔱𝔥𝔢𝔯𝔢 𝔴𝔞𝔰 𝔶𝔬𝔲"
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In un libro il Dalai Lama affermava che lo scopo della nostra esistenza era cercare la felicità. Il trucco era coltivare i fattori che permettevano di raggiungerla, quindi ciò che ci faceva stare bene, ed eliminare quelli che invece conducevano alla rabbia o alla sofferenza.
Ecco, secondo il suo ragionamento, io avrei dovuto sterminare più di otto miliardi di persone. Così almeno mi sarei liberato di parecchie rotture di coglioni, anche se poi sarei rimasto senza fonte di nutrimento.
I miei umani erano gli unici che tolleravo. Il resto del mondo, all'infuori della mia famiglia, era un inutile ingombro e uno spreco d'ossigeno per quanto mi riguardava. Sarei stato ben lieto di vederlo bruciare e brindare sulle sue ceneri, purché coloro a cui tenevo fossero al sicuro.
«A che stai pensando?» mi chiese Seth, schioccandomi un bacio sulla guancia.
Smisi di guardarmi attorno e mi girai a fissarlo. Malgrado le avvertenze di Callum, eravamo andati a farci un giretto per la città, mentre i miei fratelli si divertivano in spiaggia. In realtà covavo la speranza di imbattermi in Thomas Stone, anche se sembrava più introvabile di un unicorno. «A quanto sarebbe bello ammazzare tutti quanti» bofonchiai.
Ridacchiò. «Perché? Cosa ti dà fastidio?»
«Respirano». Spintonai un turista spaesato che mi era d'intralcio e tirai l'orlo della maglietta per rinfrescarmi. Ne indossavo una di Seth, quindi mi stava larga. Il tessuto in più era una tortura con le alte temperature, ma sentire il suo odore addosso era rassicurante. Inoltre, non mi ero portato dietro niente di mio. Detestavo fare le valigie. «Sul serio, perché la gente deve essere così rumorosa?»
«Di solito ti piace la confusione».
Non quando ne ho fin troppa in testa.
Scrollai le spalle per liquidare l'argomento e lo adocchiai di sfuggita. Seth era pallido. Reggeva la granita alla fragola, ma a giudicare da come gli si stava sciogliendo in mano sembrava essersi scordato di averla. Gli cinsi il fianco con delicatezza e mi protesi al di sopra della sua spalla, strusciando le labbra sulla pelle sensibile del suo collo. «Non resteremo a Los Angeles ancora per molto, promesso».
«Lo so. È che ho un mucchio di ricordi qui». Seth sospirò e piegò il capo di lato. «Volevo farti una domanda. Se hai voglia, credi che potremmo...»
«Sì» lo anticipai.
Seth si girò verso di me e mi intrappolò il mento tra le dita. Uno scintillio divertito gli illuminava lo sguardo. «Non sai neanche cosa cosa stavo per chiedere».
«Non importa». Sfregai le labbra sulle sue in un contatto delicato, poi gli posai un bacio all'angolo della bocca. «Per te la risposta è sempre sì».
Seth sorrise. Fu come un raggio di sole che squarciava il cielo grigio e le nubi di un temporale. Non aveva idea di quanto bene riuscisse a farmi, anche solo con un suo sorriso.
Svoltammo l'angolo e ci dirigemmo verso la stazione della metro più vicina. Dato che non avevo mai capito niente sul funzionamento dei mezzi pubblici, mi limitai ad affidarmi a Seth. Aveva anche provato a spiegarmi la mappa, ma c'erano troppe linee confusionarie e io non avevo nemmeno idea di dove fossimo con esattezza.
Dopo cinque secondi, mi ero già annoiato. Lo ascoltavo comunque, però, perché sapevo che una delle cose peggiori della sua infanzia era essere sempre ignorato e non avrei permesso che lo rivivesse con me.
«Allora ti è un po' più chiaro adesso?» concluse Seth.
Annuii. «Molto».
«Quindi quante fermate mancano?»
«Ehm, il numero totale meno quelle che abbiamo già fatto».
Seth scoppiò a ridere e aspirò rumorosamente un sorso di granita dalla cannuccia, tenendosi aggrappato con l'altra mano all'asta metallica per mantenere l'equilibrio. Sebbene ci fossero dei posti liberi, quando era nervoso preferiva stare in piedi o in movimento, perciò non avevo insistito. «Che piccolo bugiardo».
Gli circondai il busto con le braccia e allacciai le dita dietro la sua schiena, facendo scontrare i nostri corpi. Seth si schiarì la gola. «Nik, ci stanno guardando tutti».
Feci spallucce. «Cazzi loro. Saranno invidiosi perché hai un fidanzato bellissimo».
«Certo, ovvio».
Il mio sguardo scivolò per la carrozza. Il sangue mi si gelò nelle vene e mi irrigidii nel momento in cui notai Lucius stravaccato su un sedile. Teneva sulle gambe una neonata. La piccola si agitava e piagnucolava, avvinghiata nella morsa delle sue braccia. La cullava con dolcezza, allo stesso modo in cui faceva con me ogni volta che mi toccava.
Poi però Lucius sollevò il capo per fissarmi. Aveva un ghigno sardonico stampato in faccia... la mia faccia. "Che ne pensi, Zero? Invitiamo tua figlia a giocare con noi?"
Qualcuno mi sfiorò il gomito. Sussultai, in preda al panico. «No» mi uscì in un sussurro.
Seth si bloccò, interrompendo qualsiasi contatto fisico tra di noi. Corrugò la fronte in un cipiglio preoccupato. «Ehi. Che hai?»
Boccheggiai, a corto di ossigeno. Lanciai un'occhiata di sbieco al punto in cui si trovava Lucius, ma il sedile era vuoto. Scossi la testa. «Niente, scusa».
«Nik...»
Accennai al finestrino. «È la nostra fermata, credo».
Seth rimase titubante per qualche istante, poi annuì. Forzai un sorrisetto stiracchiato. «Visto? Ti avevo detto che ho capito come funziona».
Scendemmo dalla metropolitana e ci incamminammo verso Skid Row. Seth attese che fossi io a prendergli la mano e gliene fui immensamente grato. Non riuscivo a scrollarmi di dosso la visione. Oltre che per la puzza di sudore che serpeggiava ovunque, soprattutto per chi aveva un olfatto sovrasviluppato come il mio, odiavo l'estate anche per questo.
La mia salute mentale peggiorava. Il caldo cocente mi rendeva più nervoso, paranoico. Gli sbalzi d'umore erano più frequenti. E il pensiero martellante della gravidanza di certo non aiutava.
Mi resi conto in ritardo che Seth aveva smesso di seguirmi. Si era fermato davanti a un triste edificio grigio piuttosto diroccato, con un giardinetto d'erba incolta in cui c'era un gommone appeso tra due alberi per fungere da altalena. Una lastra incrostata attaccata al cancello arrugginito recitava: "Ray of Light Group Home".
Malgrado il nome, in quel posto, di luce non ce n'era.
Immaginare Seth che cresceva lì, da solo, senza ricevere neanche un briciolo d'affetto mi faceva infuriare. Io ero nato in un laboratorio, ciò che era stato fatto a me e ai miei fratelli era un segreto che l'Olympus custodiva gelosamente. Ma le sue sofferenze erano avvenute alla luce del sole, sotto gli occhi di un mondo troppo miope per vederle. Ero disgustato dall'ipocrisia dell'umanità.
«Laggiù c'era la mia stanza». Seth puntò l'indice verso una delle finestre. L'espressione spaurita sul suo viso era una pugnalata al petto. «Erano abbastanza furbi da non picchiarci. Di solito incaricavano i ragazzi più grandi di farlo, oppure ci rinchiudevano al buio in quello sgabuzzino schifoso invaso dai ragni e dagli insetti». Fece una breve pausa, poi mormorò: «Scappare non era la mia prima opzione».
Rabbrividii. Mi spostai davanti a lui in maniera da posizionarmi tra il suo corpo e l'istituto, pur sapendo per esperienza che non potevo fargli da scudo contro i ricordi. «Sono contento che sia quella che hai preso».
Seth deglutì e distolse a fatica lo sguardo dalla prigione della sua infanzia. «Andiamo? Dobbiamo prendere l'autobus».
Percepii nel suo tono l'urgenza di allontanarsi. Gli passai un braccio attorno alle spalle con fare protettivo e lo sospinsi lungo il marciapiede, non prima di aver sbirciato un'ultima volta il Ray of Light. «Il direttore è ancora lo stesso?»
«Penso di sì. Perché?»
Perché voglio ucciderlo. «Curiosità».
Skid Row era un quartiere squallido situato nel centro della città. Era incredibile come due realtà così diverse potessero coesistere a pochi passi l'una dall'altra. Le strade pullulavano di sporcizia, spacciatori e senzatetto. Non era raro incrociare qualche disperato con un ago nel braccio o lo sguardo annebbiato dalla droga.
A coloro che chiedevano l'elemosina Seth distribuiva soldi come se fosse Babbo Natale. Anche lui aveva cercato di vivere di carità quando era scappato dalla casa famiglia, finché aveva capito che la generosità riempiva poco lo stomaco e si era dato ai furti. Quindi lo lasciai fare, limitandomi a mostrare i canini agli idioti che si avvicinavano per tentare di infastidirci.
Arrivammo davanti alla caffetteria una decina di minuti dopo. Seth si pietrificò sulla soglia e parve sul punto di tornare indietro, poi alla fine si fece coraggio e avanzò nel locale. Osservai la donna dietro al bancone, in cerca di somiglianze tra di loro. A parte la forma del viso e le unghie mangiucchiate, non ce n'erano.
Provai un'antipatia istantanea. Non mi fidavo delle figure materne per principio, ma sapere che lei era la ragione per cui quel bambino col cuore pieno di sogni e di supereroi non aveva mai ricevuto l'amore di una famiglia me la faceva disprezzare con ogni fibra del mio essere.
«Sento il dovere di avvisarti» dissi a Seth, mentre ci mettevamo in fila. «Non sono qui solo in veste di supporto morale. Se ti fa del male, la uccido».
Si inumidì le labbra secche con la lingua. «Mi sembra abbastanza innocua».
«Non intendevo fisicamente».
Non rispose. Quando venne il nostro turno, la donna ci rivolse un sorriso caloroso. «Salve. Che cosa vi porto?»
Seth aprì la bocca, poi la richiuse. Indugiai per un secondo e gli mollai una lieve gomitata per spronarlo. Non ottenendo nessuna reazione, decisi di prendere le redini della situazione. Mi sporsi e lessi il suo nome sulla targhetta. «In realtà siamo qui per te, Ava».
La sorpresa colorò il volto della donna. «Scusi?»
«Non è con me che devi scusarti» replicai freddamente.
Seth trasalì. «Sta scherzando. È un simpaticone». Mi afferrò il polso, strattonandomi all'indietro. «Una scatola di donuts e un milkshake al cioccolato. Con le praline, mi raccomando. I donuts, voglio dire, non il milkshake».
Increspai le sopracciglia. La donna appariva ancora perplessa, ma annuì e si scostò dal bancone per preparare la nostra ordinazione. Abbassai la voce per evitare che mi udisse e sussurrai all'orecchio di Seth: «Che stai facendo?»
Scosse freneticamente il capo. «Non posso, Nik. Non ha nemmeno senso. Qualsiasi spiegazione mi darà può solo farmi stare peggio».
Lo capivo. Avrei fatto volentieri a meno di scoprire le vere motivazioni per cui mia madre mi aveva usato come cavia, uno scarto sacrificabile nel tentativo di salvare il suo figlio prediletto.
Ma Seth era diverso da me. I dubbi sul suo passato lo logoravano da tutta la vita e lo avevano caricato di un peso che non avrebbe dovuto appartenergli. Non sarebbe mai stato in pace con sé stesso, non senza quel confronto che tanto agognava.
Gli presi con dolcezza le guance e incatenai gli occhi ai suoi. «Non siamo qui per delle spiegazioni di merda, okay? Siamo venuti per te. Perché hai bisogno di una chiusura. Perché devi capire che è colpa sua, non tua. Lascia che ti guardi in faccia e si penta di non potersi vantare di averti reso il ragazzo straordinario che sei». Strusciai il pollice sul suo labbro inferiore. «Fallo per ogni candelina che hai spento».
Esitò. «Prometti che non interverrai? È una mia battaglia».
«È una nostra battaglia» lo corressi. «La combattiamo insieme, fianco a fianco, ma sarai tu a vincerla».
Quando Ava ritornò, temetti che la rinnovata determinazione di Seth potesse vacillare. Rimase fermo, muto come un pesce. Gettai sul ripiano un rotolo di banconote e raccolsi sia il milkshake che la scatola dei donuts. «Vi serve altro?» chiese lei, accorgendosi che non ci eravamo ancora mossi.
«In effetti sì». Seth serrò i pugni e mi si avvicinò, facendo sfiorare le nostre spalle. Forse fu ciò che gli diede la forza di proseguire. «Mi chiamo Seth Adler e vorrei sapere perché mi hai buttato in un cassonetto ventidue anni fa».
Ava ebbe a malapena un sussulto. Socchiuse le palpebre e rilasciò un sospiro, più rassegnata che sorpresa.
Mancava poco alla fine del suo orario lavorativo, quindi occupammo un tavolo accanto alla finestra e mi avventai sui miei donuts. Seth invece non sfiorò neanche il milkshake. «Come dovrei comportarmi, secondo te?»
Avevo varie sfumature di suggerimenti, a partire dal mandarla a fanculo fino ad arrivare a staccarle la testa, ma optai per una soluzione neutra. «Ho ucciso entrambi i miei genitori. Non penso di poterti dare dei consigli».
«Non hai torto».
Ava ci raggiunse, sciolse la coda di capelli castani e si sedette di fronte a noi. Mi indicò. «È un tuo amico?»
«Il mio ragazzo» precisò Seth.
Sfoderai un sorriso gelido. «E anche uno psicopatico con problemi di rabbia. Ti conviene stare attenta alle tue parole».
Seth posò una mano sulla mia coscia e mi scoccò uno sguardo ammonitore. Tacqui obbediente. Ava non sembrava impressionata dalla mia minaccia. Riportò gli occhi verdi su suo figlio e parlò in tono gentile. «Come mi hai trovata?»
«Una signora, Anne Ross, dichiarò di aver visto una donna che entrava in un vicolo con un neonato e uscirne senza, la notte in cui sono stato... mi hai abbandonato. A nessuno fregava di un orfanello di Skid Row, quindi la polizia archiviò la faccenda, considerandole le farneticazioni di una vecchia». Seth giocherellò con la cannuccia del milkshake. «A tredici anni sono stato beccato a rubare e mi fecero passare qualche ora in cella. Un agente aveva sentito parlare del mio caso, così venni a sapere dell'esistenza di una testimone. L'ho rintracciata. Non solo mi diede una tua descrizione, ma era certa di conoscere il tuo nome e che frequentavi un tizio che veniva da una strana cittadina chiamata Notturn Hall. Non sapeva altro sul tuo conto».
«Allora perché...»
«Non ti ho cercata perché non ne valeva la pena. Ero più interessato a mio padre, dato che era ovvio che tu non mi volessi». La voce di Seth si indurì, anticipando anche la seguente domanda: «Ora ho cambiato idea. Voglio sapere che cosa ti ha spinta a gettarmi nell'immondizia come se fossi un rifiuto. Ci sono milioni di modi per liberarsi di un bambino e hai scelto il peggiore. Potevi lasciarmi in ospedale, o in una chiesa. Cazzo, qualsiasi cosa sarebbe stata meglio».
Ava assunse un'espressione colpevole. «Lo so. È proprio per questo che l'ho fatto».
Restare in silenzio richiese uno sforzo enorme. Pescai l'ultima ciambella dalla scatola, la divisi in due e me ne ficcai metà in bocca. Masticai con ferocia. Proteggere Seth era ormai un istinto radicato talmente in profondità che ogni cellula del mio corpo si stava ribellando.
«Ero una scienziata all'epoca. Lavoravo per un'organizzazione governativa segreta con l'obiettivo di favorire il progresso del mondo e l'evoluzione della nostra specie, attraverso lo studio del paranormale». Ava fece una breve pausa, poi aggiunse: «Dubito che tu la conosca, o anche solo che mi creda, ma ti assicuro che avvenivano delle atrocità terribili lì dentro».
Emisi uno sbuffo sarcastico. «Ma davvero?»
Seth sbiancò. «Lavoravi per l'Olympus?»
Stavolta la donna fu colta alla sprovvista. «Come...» Si interruppe e mi lanciò un'occhiata, soffermandosi sulle cicatrici sul mio collo. «È impossibile. Sarebbe una coincidenza troppo grande».
Allungai un braccio e grattai la superficie del tavolo con un artiglio. Ava rimase senza fiato. Siccome ciò era una prova solo della mia natura, rincarai la dose e mi girai di novanta gradi. Seth comprese al volo e abbassò con riluttanza la t-shirt appiccicata alla mia schiena imperlata di sudore. Un verso incredulo mi confermò che faceva abbastanza caldo da svelare il tatuaggio tra le mie scapole.
Tornai composto. «Le tue già basse probabilità di uscire viva da questa conversazione sono appena calate a picco. Ne sei consapevole, spero».
«Mi faresti un favore. Tanto avete firmato la mia condanna a morte nel momento in cui siete entrati».
«Non capisco» ammise Seth.
Ava staccò a fatica lo sguardo da me e si concentrò su di lui. «All'inizio non sapevo di quanto l'Olympus fosse corrotta e malvagia. Ero convinta di star aiutando a costruire un futuro migliore, almeno finché non mi venne ordinato di effettuare esperimenti su un ragazzino che sospettavano avesse il gene della licantropia. Era tardi per andarmene, però. Avevo avuto una tresca con il Benefattore. È il nome in codice del dirigente dell'Olympus, non conosco quello vero. Sapevo che era sbagliato, che era sposato, ma mi faceva troppa paura per dirgli di no. Rimasi incinta e lui fu molto chiaro sul fatto che non mi avrebbe permesso di portargli via il suo desiderato erede».
Seth scosse il capo. Era cereo come un fantasma. Prese il pezzo rimasto della mia ciambella e ne strappò un morso, in preda a una fame nervosa. Mangiare era il suo bizzarro modo di respingere la nausea. «Hai detto che era sposato».
«Si vociferava che sua moglie avesse difficoltà ad avere figli. La amava quanto bastava per non voler mettere a repentaglio la sua salute, anche se non si faceva scrupoli a tradirla». Ava si appoggiò allo schienale, espirando bruscamente con aria esausta. «Saresti cresciuto all'Olympus. Ti avrebbero inculcato fin da piccolo che il fine giustifica i mezzi e che era giusto sacrificare delle vite per un bene superiore. E che creature come lui», accennò a me col mento, «erano inferiori agli esseri umani. Per loro erano animali da addomesticare, creati per essere sottomessi a noi. Non era ciò che volevo per te».
«Mi hai allontanato per salvarti» riepilogò Seth, scrutando i rivoli di panna sciolta che grondavano dal suo milkshake. «Cosa ti ha fatto quando lo ha scoperto?»
Annuii. «Sì, come lo hai convinto a non farti fuori? Non esiste il licenziamento all'Olympus, per quanto ne so».
«No, infatti. Ma lui ragiona in un'ottica utilitaristica. Mi ha risparmiata e obbligata a rimanere a Los Angeles sotto sorveglianza. Era certo che un giorno saresti venuto a cercarmi». Ava guardò il traffico fuori dalla finestra, amareggiata. «A quest'ora avrà già capito chi sei. Verrà a prenderti».
Un ringhio roco mi scaturì dal fondo della gola e affondai le dita nelle venature del legno. «Deve solo provarci».
Seth si alzò. Dal movimento repentino intuii che non avrebbe sopportato di stare seduto un secondo di più. «D'accordo. Grazie del tuo tempo».
«Aspetta». Ava cercò di prendergli la mano, ma lui si ritrasse. Sibilai in segno di avvertimento. Se non voleva essere toccato, nessuno lo avrebbe costretto. «Ho fatto io la segnalazione anonima quella notte. Chiamai per avvisare che avevo sentito piangere un neonato e rimasi nei dintorni fino a che non ti trovarono. Non c'è giorno in cui non abbia ripensato a quella decisione, ma non sapevo cos'altro fare. Non potevo condannarti a un'esistenza in fuga». La voce le si incrinò. «Volevo solo darti una bella vita».
Seth contrasse la mascella e si strofinò il dorso della mano sulla guancia con un gesto brusco. Capii all'istante che stava per dire qualcosa per cui poi sarebbe stato male, ma non potei impedirglielo. «Sì, beh, non l'ho avuta» replicò a denti stretti, tuffandosi fuori dalla caffetteria.
Balzai in piedi. Invece di tentare di afferrarmi, la donna mi si piazzò davanti e rischiai quasi di travolgerla. «Per ciò che ti abbiamo fatto...»
«Non mi interessano le scuse. Non mi piacciono e non so che farmene» tagliai corto.
Ava fece un cenno d'assenso e si scostò. «Prenditi cura di lui».
Storsi il naso, offeso da quella richiesta. «Lo faccio sempre».
Prima che potesse ribattere, ammesso che ne avesse l'intenzione, uscii dal locale e raggiunsi Seth con una camminata rapida. Quando lo affiancai, ripose il telefono in tasca. «Ho scritto agli altri che stiamo tornando».
«Seth».
«Vuoi andare in hotel o in spiaggia?»
Accelerai il passo per stargli dietro. «Seth».
«Che cosa?» sbottò lui, voltandosi di scatto. «Sei l'unico che può non voler parlare di ciò che prova?»
Abbozzai un mezzo sorriso. «Io sono un pessimo esempio da non seguire, ricordi, Scrat?»
La sua rabbia si sgretolò e crollò all'indietro su un muretto. Si piegò con i gomiti sulle ginocchia, le dita infilate nei capelli. «Potevo essere uno di loro, Nik. Uno di quelli che vi hanno torturati e...» Rafforzò la presa sui suoi ricci. «Mi viene da vomitare solo a pensarci».
Mi inginocchiai davanti a lui, ignorando gli sguardi dei passanti. «Non è andata così».
«Ma poteva. Se mia madre non mi avesse-»
«I "se" non significano nulla». Lo costrinsi con dolcezza ad abbassare le mani dal volto. «Ciò che conta per me è chi sei, non chi saresti potuto essere. E sei la persona che mi ha fatto più bene al mondo».
Seth si mordicchiò il labbro inferiore. «Sai quanto spesso penso a ciò che hai subito? Quattordici anni in un laboratorio. Nove di abusi. Nove. A volte ho ancora il terrore di sfiorarti, perché non so quali ricordi orribili potrei risvegliare. Come può farmi sentire scoprire che è colpa di mio padre?»
«Tuo padre potrebbe essere anche il fottuto presidente di Marte, per quanto mi importa».
Seth emise un suono strozzato, forse una risata stroncata sul nascere. Premette la punta dell'indice sulla mia tempia, scese lungo i margini del mio viso e percorse la curvatura della mascella. «Tu hai paura da sempre di essere come tua madre. E se fossi stato educato da lui? Se avessi fatto parte dell'Olympus e ti avessi toccato contro la tua volontà anch'io?»
Arcuai un sopracciglio. «Che ho detto? I "se" sono banditi». Prima che potesse protestare, gli tappai la bocca con un bacio. «È vero. Ho paura di essere come mia madre. Ma non sarebbe mai potuta andare in quel modo, non per te. Perché sei buono».
«Anche tu...»
Lo zittii con un'occhiata. «No, non lo sono. Non c'è nulla di buono in me. Sono un'accozzaglia di pezzi rotti tenuti insieme dall'odio. Non so neanche chi sarei senza tutto il rancore che mi porto dentro. È la grande differenza tra di noi. Tu sei riuscito dove io ho fallito». Gli accarezzai la guancia. «Hai preso il tuo dolore e lo hai trasformato in qualcosa di meraviglioso. Di puro. Per questo ti venero».
Seth arretrò un poco e si sfilò la collana che gli avevo regalato per il suo compleanno. Mi corrucciai, ma rimasi in silenzio. Fissò il corvo appollaiato sul teschio per un lungo momento, poi me la tese. «Non credo di meritarlo. Se mio padre sa di me e resto con voi, avrete un bersaglio ancora più grande sulla schiena».
Mi concessi uno sbuffo per sdrammatizzare. «Sai che novità». Sollevai il ciondolo che pendeva all'estremità della catenella, gli aprii la mano e glielo misi sul palmo. Infine, gli chiusi le dita attorno a esso. «Non azzardarti mai più a restituirmela. Sei un De'Ath. Chi colpisce uno di noi, ci colpisce tutti».
«Non puoi parlare per i tuoi fratelli. Potrebbero non essere disposti a rischiare per il figlio del nemico».
«Okay. Glielo chiederemo e te lo diranno loro».
Gli angoli delle sue labbra si incurvarono. «Funziona così la famiglia allora?»
Ricambiai il suo sorriso. «Pare di sì».
Seth fu silenzioso per tutto il ritorno. Anche se non ci sentivamo pedinati, prendemmo parecchi autobus per allungare il giro e scendemmo alla fermata successiva della metro, per poi tornare indietro a piedi. Era un trucchetto che usavamo spesso quando eravamo solo noi due.
Alla fine, arrivammo all'hotel. Salimmo le scale fino al nostro piano e, mentre Seth entrava nella suite, io mi recai in quella di fronte. Mi ero impuntato sul fatto di voler stare il più vicino possibile alla stanza dell'angioletto, anche se avevo tralasciato di specificare che era per proteggerla meglio.
Nel salottino trovai Alexander con un pc sulle ginocchia, stravaccato sul divano. Su una poltroncina Isaac distolse lo sguardo dal libro che stava leggendo e mi rivolse un piccolo sorriso di saluto.
Gli ammiccai. «Callum?»
«Ancora fuori con John» rispose lui.
Alexander mi adocchiò. «Non sarà felice di sapere che siete andati a spasso».
«Sopravvivrò al suo scontento». Abbassai piano la maniglia e aprii la porta quel tanto che bastava per sbirciare.
Malgrado l'aria condizionata, nel sonno Arya doveva aver scalciato via le coperte, che giacevano ammassate all'altezza delle sue ginocchia. Era riversa su un fianco, il viso rivolto verso di me e una cascata nera sparpagliata sul cuscino. Il mio sguardo si spostò sul suo pancione e il richiamo che provai fu un dolore quasi fisico. Avanzai e tesi la mano. Mi bloccai a pochi centimetri di distanza.
"Uccidile, Zero. Sai che è la cosa giusta".
Mi ritrassi con un guizzo. Evitando lo sguardo indagatore di Alexander, uscii in corridoio e mi rifugiai nella mia suite. Il cuore mi tuonava in gola. «Hai portato dei costumi?» esordii, irrompendo nella camera.
Seth era sdraiato a braccia larghe al centro del letto matrimoniale. Puntellò i gomiti sul materasso e mi guardò con un'espressione confusa. «Perché?»
Mi accovacciai per frugare tra i vestiti nel suo borsone. Non volevo che mi leggesse in faccia il mio turbamento. «Andiamo in spiaggia con gli altri. Joel mi ha scritto che c'è una specie di festino».
«Ma odi il mare».
«A te piace, e a me piaci tu. È abbastanza».
Il mare era terrificante.
Un'immensa distesa d'acqua che cercava di inghiottirti e trascinarti negli abissi. Demone o meno, persino io ero impotente al cospetto di quella forza devastante capace grazie alla sua pazienza di erodere anche la roccia. Ogni onda sembrava una dichiarazione di guerra e i baluginii del sole sulla superficie azzurra ricordavano i riflessi di un'armatura.
La sola vista mi toglieva il respiro. La mia mente continuava a tornare ai test, al metallo delle catene che mi mordevano i polsi e le caviglie, ai miei polmoni in fiamme che scalpitavano per una boccata d'aria. Alcune volte mio padre si insinuava in quella spirale di orrori. Avvertivo la sua morsa ferrea che mi spingeva la testa nella piscina, il fetore del cloro nelle narici e il peso del collare attorno alla gola. Non era difficile, per associazione, arrivare a ripensare a Kath.
«Forte. Quindi sei più ricco di noi» commentò Joel.
Seth sistemò il telo degli Avengers sulla sabbia e si sedette. «Ti ho appena detto che mio padre è praticamente Voldemort e ti concentri su questo?»
Sky liquidò la faccenda con una scrollata di spalle. «Siamo abituati ai pessimi genitori».
Ethan si scansò il ciuffo castano dagli occhi. Posò la mano a terra, abbastanza vicina da sfiorare la punta delle dita di mia sorella. «In effetti fate sembrare i miei quasi decenti. Almeno non hanno commesso crimini contro l'umanità».
«Discutibile. Una merda fa schifo a prescindere da quanto puzza» ribattè Sky.
Ridacchiai. «Da quale libro di poesia hai tirato fuori questa perla? Devo essermelo perso».
La tensione sul volto di Seth si allentò. Era una gioia cauta la sua. Ma da chi aveva aspettato per anni di essere adottato, solo per vedere sfumare una possibilità dopo l'altra, non si poteva pretendere che abbassasse la guardia con facilità.
Remiel scoccò un'occhiata nervosa alla folla chiassosa radunata a una decina di metri di distanza. Era venuto per mettere alla prova il suo autocontrollo. Finora non aveva ucciso nessuno, anche se era evidente che stava lottando contro la tentazione. «Dovremo parlarne a Callum. Avreste potuto farvi dare almeno una descrizione per identificarlo».
Mi accomodai nello spazio tra le gambe di Seth. «Bastardo con manie di onnipotenza non è una descrizione sufficiente?»
«Non ci abbiamo pensato» intervenne Seth in tono colpevole. «Tanto voglio rivederla. Non sono stato molto gentile con lei».
«Ehi, raga. Parlando di cose meno deprimenti». Gabriel agitò la paletta viola con cui stava scavando una buca. Era determinato ad arrivare fino al centro della Terra. «Layla mi ha chiesto quali sono i nostri piani dopo il diploma. Pensa che sarebbe figo andare tutti allo stesso collage».
«College» lo corresse Sky.
«Sono abbastanza sicuro che abbia detto collage. Forse intendeva che dovremmo fare un cartellone di famiglia con le nostre foto».
La stupidità era come il veleno. Se presa a piccole dosi diventavi immune. Di conseguenza quella di Gabe aveva smesso di stupirmi. Inarcai un sopracciglio. «Che ne è stato di "Mary"?»
«Abbiamo portato la nostra relazione a un livello successivo» dichiarò Gabriel con orgoglio.
«Chiamarvi con i nomi giusti? Wow». Il telefono di Remiel vibrò e lui scattò per prenderlo.
Joel lo precedette in un lampo. «Vediamo con chi messaggia sempre il nostro Romeo».
«Ridammelo, coglione».
Si azzuffarrono per qualche secondo, finché Joel riuscì a lanciarmi il cellulare. Lo afferrai e controllai lo schermo. Corrugai la fronte. «Chi cazzo è Deena? Ah, già. La tizia scontrosa che ci detesta».
Ethan fissò esterrefatto Remiel, che era diventato paonazzo. «Esci con Deena?»
«Non esco con lei. Ci sentiamo ogni tanto» si difese lui, stringendosi nelle spalle. «Abbiamo scoperto di avere delle cose in comune».
Joel sfoderò un ghigno beffardo. «Nel senso che è appassionata di botanica o che vi fate entrambi complessi esistenziali?»
«Nessuno dei due ti sopporta, per dirne una».
«Non capisco. Devo aggiornare il blog con una nuova ship?» Gabriel ficcò la testa nella piccola fossa, gli sfuggì un versetto entusiasta e ne riemerse. «Assurdo. Sapevate che sotto la sabbia c'è l'acqua?»
Sbuffai. «Prima di crepare spero di scoprire se sei nato così deficiente o è solo un effetto collaterale degli esperimenti».
Sky mi strappò il telefono di mano e lo restituì a Remiel. «Andiamo a farci un bagno?»
Un tremito mi scosse fin nelle ossa. Strinsi i denti per reprimere il panico e cercai di alzarmi, ma Seth chiuse le ginocchia contro i miei fianchi in un muto ordine. Fece un cenno agli altri e mi liberò dalla sua presa solo quando si furono allontanati verso la riva.
Non era andato con loro per colpa mia, malgrado nuotare fosse la sua passione.
Gli rivolsi una smorfia seccata. «Non dovresti rinunciare a fare qualcosa che vuoi soltanto per me».
«E tu non dovresti costringerti a fare qualcosa che non vuoi soltanto per me».
«Ma voglio farlo» protestai, inarcando un sopracciglio. «Era il nostro patto, ricordi? Tu affronti la tua paura, io la mia. Sono pronto».
Seth mi esaminò con uno sguardo attento, prima di concludere che non stavo mentendo. Mi prese per mano e mi condusse verso la riva, lontano rispetto al punto in cui c'erano i miei fratelli. Mi vergognavo troppo per mostrarmi così spaventato davanti a loro. Inoltre, Joel aveva il vizio di tentare di affogare tutti o di infilare granchi nel costume.
Trasalii quando un'onda si abbatté sulle mie caviglie. Il mio cuore batteva frenetico, pompando sangue nelle orecchie. Seth tracciò dei cerchi invisibili col pollice sulle mie nocche e mi concentrai con tutte le forze su quel gesto rassicurante.
Quando il livello dell'acqua arrivò alla mia pancia, mi inchiodai sul posto. Non potevo fare a meno di controllarmi attorno, tremante, quasi aspettandomi che qualcuno mi afferrasse e mi spingesse sotto contro la mia volontà.
«P-possiamo fermarci qui?» chiesi con una voce patetica, spezzata dal respiro affannoso.
Seth annuì e mi cinse il bacino con le braccia, fungendo da ancora di salvezza. Sebbene non avessi bisogno di essere sorretto, mi calmava il pensiero che fosse lui a tenermi. «Certo. Sei stato bravissimo. Sono fiero di te».
Sbuffai insoddisfatto. «Non c'è molto di cui andare orgogliosi. Non riesco nemmeno a immergermi».
«Ehi, sono io il tuo istruttore». Mi pizzicò il fianco, facendomi contrarre per l'ondata di solletico. «Il che significa che sta a me decidere se i tuoi progressi sono buoni o no. Non a te. E non approvo la terapia d'urto, quindi non osare tuffarti».
Incatenai gli occhi alle perle nere dei suoi. Deglutii a vuoto, con la gola secca. «Voglio imparare a nuotare. Non oggi, non domani. Ma un giorno voglio riuscirci. Così potrò seguirti ovunque, in terra e in mare».
«Ne sei sicuro? Non devi sentirti obbligato a-»
Mi appoggiai alle sue spalle e mi impadronii della sua bocca, intrecciando le dita sulla sommità della nuca, tra i suoi ricci. Posai la fronte contro la sua, ansimante. «Mi hai insegnato ad amare. Insegnarmi a nuotare non può essere più difficile».
Restammo a guardarci per un momento così lungo che il tempo parve cristallizzarsi e il mondo intero dissolversi. Nell'eterna lotta per la sopravvivenza che era la mia vita, Seth era il solo con il quale mi sentissi in pace.
Finché un'onda particolarmente violenta ci travolse, strappandomi un sussulto. Seth indicò la spiaggia col mento. «Torniamo indietro».
Dopo esserci asciugati, ci sistemammo sul telo. Mi allungai verso la borsa di Gabe e presi la crema solare. L'aveva comprata perché gli piaceva il profumo, nonostante in quanto demone non ne avesse bisogno.
«Devo proprio metterla?» protestò Seth.
Lo scrutai serio. «Vuoi che ti elenchi tutte le possibili controindicazioni di non usare la crema solare per un essere umano? Scottature, eritemi, tumori della pelle, rughe...»
Fece un gesto di resa. «Va bene, va bene. Ho capito».
Strizzai il tubetto fino a formare una montagnetta bianca sul suo petto. «Un tantino esagerato» esordì Seth, per poi tacere a un mio cenno.
Cominciai a spalmarla con cura. Le mie dita percorsero le linee sode del suo torace, i muscoli delle braccia e le incanalature degli addominali. Gli soffiai nell'ombelico per irritarlo – era una cosa che detestava –, per poi farmi perdonare con una serie di baci adoranti sulla curvatura della clavicola. Accarezzai le spalle larghe e mi dedicai in fretta al dorso, prima di riposizionarmi davanti a lui. Pur essendo consapevole che non gli dava fastidio, non ero a mio agio a stargli dietro.
Feci schioccare la fascia del costume sulla sua pelle, ma mi fermai. Non tanto perché eravamo in pubblico, non ci eravamo mai fatti troppi scrupoli a riguardo. Seth aveva detto che si sentiva in parte responsabile per gli abusi che avevo subito a causa di suo padre. Fare qualcosa di sessuale al momento avrebbe potuto peggiorare la situazione, come era successo mesi prima in piscina.
Gli cedetti il flacone affinché finisse da solo e mi stesi sul telo, con un braccio ripiegato sulla fronte. Il vociare della gente e la musica di sottofondo mi cullarono nella loro atmosfera vibrante, attenuando il frastuono dei pensieri che mi turbinavano nella mente. Avevo la sensazione che il fragile equilibrio su cui si reggeva la mia esistenza si stesse inclinando e la paura mi divorava.
Quando avvertii qualcosa di freddo sulla pancia, aprii un occhio. Seth mi stava versando addosso una quantità indecente di crema. Non mi diede il tempo di obiettare, perché sollevò l'indice e me lo puntò contro. «Eh, no. È il tuo turno di sopportare».
Sogghignai. «Vendicativo».
Socchiusi le palpebre e mi godetti la sensazione delle sue mani che esploravano il mio corpo. Se avessero detto a Zero che un giorno avrebbe amato essere accarezzato da qualcuno, non ci avrebbe mai creduto.
Invece, Seth aveva abbattuto le mie barriere, fisiche e non. Sette anni fa aveva raccolto un cane randagio pronto ad azzannarlo e lo aveva lentamente trasformato in una persona.
Docile, mi girai prono e adagiai il mento sulle braccia incrociate. «Ti manca questa».
Seth esitò. «Sicuro?»
Per tutta risposta, gli agguantai il polso e lo tirai verso di me. «Toccala. Voglio dimostrarti con i fatti ciò che ti ho spiegato a parole, a proposito del bene che mi hai fatto».
Non era convinto, però mi assecondò. Posò le mani sulla parte superiore della mia schiena, mi adocchiò con cautela e scese ai lati della spina dorsale. Tremai solo per un attimo e i miei nervi si tesero in uno spasmo istintivo. Buttai l'aria fuori dai polmoni, la riaccolsi ed espirai ancora.
«Sono io» mi sussurrò Seth, tracciando con l'indice il profilo di una delle cicatrici. «Non ti faccio niente».
«Lo so».
Attesi che si stendesse accanto a me e mi rannicchiai contro il suo petto. Sapevo che rischiavo di rovinargli l'abbronzatura, ma avevo un bisogno viscerale di contatto fisico. Era l'unica maniera per zittire le voci che mi sussurravano nella testa. Schiacciato tra un passato orribile e un futuro incerto, potevo solo aggrapparmi a quel labile presente, al sicuro tra le braccia di Seth.
Invece di scacciarmi, lui mi strinse a sé e mi depositò un bacio sulla nuca. «Non credevo che i tuoi fratelli l'avrebbero accettata così facilmente. La questione di mio padre, intendo».
«Secondo te mi stancherò di avere sempre ragione?» bofonchiai.
«Considerato il tuo ego gigantesco, ne dubito. No, non fare battute sulle dimensioni». Mi tirò una ciocca bionda, prima che potessi azzardare una battuta. «Qual è la cosa che ami di più di te stesso?»
La domanda era talmente inaspettata che impiegai qualche secondo a registrarla. Mi puntellai su un gomito, accigliato. «Di me stesso? Non di te?»
«Di me lo so già. Risponderesti una roba sdolcinata del tipo "tutto"».
Non mi presi la briga di negarlo. «Sarei più originale di così». Riflettei a lungo, poi schioccai la lingua contro il palato. «È difficile. Sono troppo bello per scegliere solo...»
«No». Seth scosse il capo, serio. «Niente legato al tuo aspetto».
«Ma è il mio punto forte» obiettai indignato.
La sua espressione era categorica, perciò mi rassegnai e chiusi la bocca. Il silenzio si protrasse tra di noi, mentre mi sforzavo di trovare qualcosa di decente ad eccezione del mio corpo. Non era una novità, eppure fu comunque desolante rendermi conto di quanto poco altro avessi da offrirgli.
Ruotai il capo e disegnai dei cerchi nella sabbia, incapace di reggere il suo sguardo. «Scusa».
«Per cosa?»
«Per fare schifo».
«Okay. Comincio io». Seth mi posò le labbra sulla spalla. «La cosa che amo di più di te è come proteggi le persone a cui tieni. Anche se odio che tu dia più valore alla vita degli altri che alla tua». Risalì il lato del collo, strappandomi un fremito. Piegai la testa di lato. «Amo la tua incredibile capacità di dire le frasi più romantiche di sempre, senza neanche accorgerti di quanto sei dolce».
Boccheggiai. «Non sono dolce».
Rise contro la mia pelle sensibile. «Appunto». Giunse dietro l'orecchio e mi mordicchiò il lobo con delicatezza, strappandomi un gemito. «Amo il modo in cui mi ami. E vorrei che trattassi e rispettassi te stesso con anche solo la metà della premura che hai per me».
Mi girai e premetti con foga la bocca sulla sua, tanto da spingerlo all'indietro sul telo. Piazzai una mano sul suo bacino per mantenere l'equilibrio, mentre la mia lingua rivendicava il suo spazio e si intrecciava alla sua. Quando mi staccai ero senza fiato, ma lui era il solo ossigeno di cui avevo bisogno.
«Non usare quella parola. Non mi piace. Voglio venerarti, non amarti».
Seth passò il dorso dell'indice dalla mia tempia fino alla guancia. Chiusi gli occhi, schiavo del suo tocco. «Tu sei un demone bisessuale, io un ladro gay e ci veneriamo a vicenda. Andremo di sicuro all'Inferno».
«Ci sono nato all'Inferno, posso anche ritornarci. Ma tu sei il mio assaggio di Paradiso».
Un sorriso gli illuminò il volto. «Forza. Andiamo a divertirci».
Mi lasciai trascinare verso il festino e cominciammo a ballare, ammesso che i saltelli sgraziati e i movimenti scoordinati di Seth potessero definirsi in quel modo. A ogni occasione mi scolavo un drink, cercando di scacciare l'inquietudine che mi scalpitava dentro.
Quando la sera calò sulla spiaggia, ero abbastanza ubriaco da trovare le barzellette di Gabriel quasi divertenti. Capii che la situazione si stava facendo grave nell'istante in cui fu Joel, che di solito era un ottimo compagno di bevute, a togliermi il bicchiere di mano. «Fratello, sono l'ultimo a poter giudicare, ma non credo che una sbronza epica potrà risolvere il tuo problema di paternità imminente».
Gabriel mi diede una pacca vigorosa sulla spalla. «Non devi preoccuparti, Nik. Di recente ho trovato delle videolezioni di un corso per neogenitori per imparare a mettere i pannolini o a scaldare il biberon. Ho anche ordinato dei bambolotti per esercitarci».
«Fantastico. Adesso sì che sono tranquillo» commentai sarcastico. Provai a immaginarmi a cambiare mia figlia e un brivido mi accapponò la pelle. Non volevo avere niente a che fare con le parti intime di un bambino.
Joel mi rivolse un sorrisino. «Il lato positivo è che non puoi fare più schifo dei nostri padri. Vedila così».
«Cosa te lo fa pensare?»
«Beh, uno ci frustava e l'altro ci violentava. Dovresti seriamente impegnarti per batterli».
Mi si ribaltò lo stomaco. Anche se apprezzavo il loro tentativo di incoraggiarmi, avevo l'impellente necessità di cambiare argomento. Notai Remiel seduto in disparte, intento a digitare sul telefono. Lo indicai. «Voi sapevate del suo inciucio con Lana?»
«Sono piuttosto sicuro che si chiami Deena» mi corresse Joel.
«Sì, Dana. È quello che ho detto».
Gabriel si appropriò del mio mojito rubato e prese a sorseggiarlo. «Io no. Sono stato un po' distratto dalla tresca segreta tra Ethan e Sky».
Il significato delle sue parole impiegò qualche attimo a penetrare la coltre di torpore dell'alcol. Ruotai la testa con uno scatto così repentino da farmi scricchiolare il collo. «Cosa?»
«Sì, l'ho scoperto durante le prove della band. Sky ha mandato un messaggio vocale a Ethan in cui parlava dell'appuntamento che hanno avuto» spiegò Gabriel, mordicchiando l'ombrellino di plastica. «Per sbaglio ho origliato con il super udito».
Joel emise un fischio esaltato. «Cento dollari che hanno già scopato».
Seth mi gettò sullo sgabello al mio fianco. Aveva i capelli arruffati e le guance arrossate. «Sapete che esiste una strana cosa chiamata privacy?» Fece una breve pausa, poi aggiunse come se non riuscisse a trattenersi: «Rilancio a duecento, ma secondo me si sono solo baciati».
Mi alzai e infilai la camicia, senza prendermi il disturbo di abbottonarla. «Vado a ucciderlo e torno».
«Nik!» mi rimproverò Seth.
Feci un gesto noncurante. «Scherzo. Voglio solo fargli un discorsetto da fratello maggiore. Dov'è?».
Joel sghignazzò. «Al bar. Prima di rompergli le gambe, però, ti vorrei ricordare che è il migliore amico della madre di tua figlia».
Ignorandolo, mi allontanai barcollante dal festino e puntai dritto verso il locale adiacente alla spiaggia. Individuai Ethan davanti alla vetrina dei gelati, l'espressione corrucciata di chi stava compiendo la scelta più difficile del mondo.
Prima che potessi muovere un altro passo, qualcuno mi strattonò per la manica. Mi girai, pronto a reagire. «Chi caz...» La voce mi morì in gola. Il cuore mi si arrestò di colpo, per poi esplodere e cominciare a tuonare all'impazzata. «No».
Lucius mi mollò e incrociò le braccia sul petto, sorridente. «Ciao, piccolo».
Farfugliai qualcosa di indistinto e provai a colpirlo, ma il corpo non rispondeva più ai miei comandi. Ero pietrificato. Alla fine, riuscii a mettere insieme una frase coerente. «Non sei qui» balbettai debolmente.
Un lampo di compassione gli guizzò nello sguardo. «Hai ragione, Zero. Non sono qui. E non ci sei nemmeno tu».
Mi limitai a sbattere le palpebre. Le dita mi formicolavano e la testa aveva iniziato a pulsare. Mi resi conto che non stavo respirando, quindi rilasciai il fiato e inspirai a fondo.
«Adesso però è il momento di svegliarsi» proseguì Lucius in tono bonario, posandomi una mano sulla spalla. Ne avvertii il peso come se fosse reale e lo stomaco si ribellò a quel tocco familiare. «Hai creato una bella storia, te lo concedo. Tu che scappi, trovi l'amore e ti ricongiungi con la tua famiglia. La gravidanza è stata un inaspettato colpo di scena, anche se la morte di Due l'ho trovata un tantino melodrammatica per i miei gusti».
Scossi il capo. Mi divincolai e arretrai di qualche passo. Il mondo vorticava attorno a me. Il bar all'improvviso era vuoto, la musica era scomparsa. Mi sentii soffocare. «No, non è vero. È reale. So che è così» farneticai, dandogli le spalle. «Deve esserlo».
"Davvero? Ti è sempre sembrato troppo".
Ripensai alle ore intere trascorse a fissare Seth, timoroso di vederlo dissolversi e di essere ancora intrappolato nel laboratorio. Una fitta acuta mi trapassò il petto e lanciai un'occhiata fuori dalla finestra, cercando i miei fratelli tra la folla in spiaggia con lo sguardo. Invano.
Lucius mi apparve di fronte. «Svegliati, Zero. Questa non è la tua vita. Non lo è mai stata, e mai lo sarà. Sei una cavia. La libertà, l'amore... non sono cose che meriti di avere, lo sappiamo entrambi».
Scavai dentro di me e cercai disperatamente di aggrapparmi al legame. Ma non c'era nulla. Era svanito. Mi cinsi la testa tra le braccia e mi tirai con forza i capelli. «No. Smettila. No. Sta' zitto. Basta».
«Zero-»
«Nicholas!» gridai, balzandogli addosso. La sua schiena crepitò all'impatto con il pavimento. Gli conficcai una mano nel petto con tale violenza che le costole gli si frantumarono. «Mi chiamo Nicholas!»
Strappai il cuore con un movimento secco e rimasi a cavalcioni su di lui. L'urlo mi aveva lacerato la gola. Boccheggiai, il torace che si alzava e si abbassava in maniera frenetica. Poi abbassai lo sguardo sul suo cadavere.
E vidi Ethan.
Aveva la bocca aperta. Gli occhi vitrei erano sbarrati dalla sorpresa, coperti da un velo di sonno eterno. L'orrore mi invase a poco a poco, strisciando come un serpente. Ero a malapena consapevole della gente che strillava e fuggiva verso l'uscita.
Non riuscivo a smettere di guardare Ethan. Era morto a causa mia. Ero stato costretto a uccidere tante persone senza volerlo nell'Arena, ma non mi era mai capitato di perdere il controllo. Cosa avevo fatto?
«ETHAN!»
Mi riscossi al suono della voce di Arya. Era immobile sulla soglia, con la chioma corvina tutta arruffata e una mano sulla pancia. Un miscuglio di emozioni guerreggiava sul suo viso.
I miei muscoli si attivarono da soli. Mi alzai e indietreggiai fino a sbattere contro il bancone, lasciando cadere il cuore. Osservai Arya che si gettava sul corpo di Ethan e lo stringeva a sé, noncurante del sangue che le imbrattava i vestiti.
«Non lasciarmi. Ti prego, ho bisogno di te» sussurrò lei, in preda al terrore. Gli scansava spasmodicamente le ciocche dal volto, quasi pensasse che potessero dargli fastidio. «Non ce la faccio senza di te. Non voglio. Hai promesso di non lasciarmi. Ti prego. Ti scongiuro».
Keegan entrò. Non parve né stupito né confuso dalla scena a cui stava assistendo. La sua espressione era cupa, mentre dardeggiava le iridi nere da Ethan, al cuore e infine su di me. Sussultai, quando mi parlò nella mente. Un ordine freddo e conciso: "Vattene".
Arya si rese conto del suo arrivo e si girò. Le sue guance erano rigate dalle lacrime. Stava tamponando lo squarcio nel petto di Ethan nel tentativo di arrestare l'emorragia, malgrado servisse a poco senza l'organo vitale. «Aiutami. Fa' qualcosa. Riportalo da me».
Keegan sospirò. «Non sono così potente. Mi dispiace».
Anche i miei fratelli sopraggiunsero, per poi bloccarsi uno dopo l'altro con delle facce sconvolte. Seth impallidì e si piegò in due per vomitare. Dopo un attimo di disorientamento, Remiel sfrecciò oltre Gabriel e Joel e si chinò accanto ad Arya. Avrebbe voluto abbracciarla, ma lei lo respinse bruscamente e si avvinghiò al corpo del fratello, come se temesse che glielo portassero via.
Sky fu l'ultima. Non sapevo quale reazione mi fossi aspettato. Il silenzio mortale che seguì, però, fu più doloroso di qualsiasi tortura mi fosse mai stata inflitta. Spostò lo sguardo da Ethan e incrociò il mio. «Sei stato tu?» chiese con un lieve tremito.
Mi stava dando il beneficio del dubbio. Il mio sole che si ostinava a credere in me. Avrei voluto rispondere di no, avrei voluto spiegare che era stato un incidente, invece annuii soltanto.
Arya depositò con delicatezza Ethan a terra e si tirò in piedi. Attraverso il vincolo che ci univa, sentii la sofferenza che veniva sommersa da un sentimento più irruento. Odio. Un odio brutale, feroce, assoluto. E capii che era finita. Avevo perso. Avevo rovinato tutto.
I miei angioletti.
Seth scattò e si posizionò a metà strada fra di noi. Allargò le braccia, facendomi da scudo. «Non sappiamo com'è andata, Arya. Nik non gli avrebbe mai fatto del male senza motivo».
«Non glien'è mai fregato un cazzo di Ethan» sbottò lei, fremente di rabbia. «Vuoi negarlo? È un fottuto egoista. Non gli importa di niente e di nessuno, all'infuori della sua famiglia. Ed Ethan era la mia, non la sua».
«Poteva non voler bene a Ethan, ma ne vuole a te. Non toccherebbe mai qualcuno a cui tieni». Seth mi adocchiò di sbieco. «È tutto okay, Nik. La risolviamo insieme, come sempre. So che non volevi farlo».
Arya fece una risata isterica, sprezzante, rotta dai singhiozzi. «Avanti, allora. Dimmi perché hai ucciso il mio migliore amico. Mio fratello. E già che ci sei, dimmi anche il motivo per cui hai ucciso mio padre. Forza, Nicholas. Sono curiosa».
Incassai l'accusa senza protestare. Non avevo idea di cosa significasse, ma non ero nelle condizioni di formulare un pensiero coerente. All'immagine di Arya si sovrappose la figura di Lucius, che mi rivolse un ghigno canzonatorio. Rabbrividii.
Remiel trasalì. «Hai fatto cosa?»
«Sul serio? Cavolo, Nik, le hai sfasciato la famiglia». Joel colse l'occhiataccia di Keegan. «Okay, sì. Troppo presto. Sto zitto».
Gabriel agitò le mani con fare conciliante. «Raga, calmiamoci. Aspettiamo che arrivino Callum, Alexander e Isaac, che sono quelli intelligenti, e risolviamo tutto».
In un'altra situazione avrei pensato che era la frase più sensata che gli abbia mai sentito dire.
Arya spinse via Seth in un baleno e mi sferrò un pugno in faccia. Avrei potuto schivarlo senza problemi, invece tutto ciò che feci fu serrare le mani per impedirmi di reagire. Gli artigli mi penetrarono nei palmi e il bruciore fu come una boccata d'ossigeno.
«Mi fidavo di te!» urlò Arya, tempestandomi di colpi a cui non opposi resistenza. La guancia, il mento, la mascella, lo stomaco... «Come hai potuto?» Mi spintonò contro la parete. Ringhiai, lottando per tenere a freno i miei impulsi. «Reagisci!»
Seth si rialzò, ma Joel lo precedette e mi si piazzò davanti. Non fece una piega quando lo schiaffo di Arya raggiunse il suo viso, anziché il mio, ma ogni traccia di ironia aveva abbandonato la sua espressione. «Adesso smettila. Questo non riporterà in vita Ethan e non ti permetto di maltrattare mio fratello».
Un movimento catturò la mia attenzione. Keegan puntò l'indice verso la porta del locale e la sua mente invase di nuovo la mia. "Non sei lucido. Vattene prima di fare del male anche a lei. Subito".
Non me lo feci ripetere. Mi precipitai fuori a tutta velocità e proseguii senza una meta precisa. Il vento frizzante mi fischiava nelle orecchie e mi pungeva la faccia, scrollandomi di dosso il caldo. Non mi fermai neanche quando giunsi a un punto della spiaggia completamente deserto.
Volevo solo fuggire. Forse, se avessi corso abbastanza, la vita stessa avrebbe smesso di inseguirmi.
Ero esausto. Avevo sopportato il dolore per tutta la mia esistenza, ma ormai ero stanco. Per la prima volta non avevo più voglia di combattere, per la prima volta desideravo soltanto arrendermi.
Mi ricordai di essere ubriaco troppo tardi. Inciampai, feci un volo di diversi metri e continuai a ruzzolare fino alla riva. Gattonai verso il mare e mi costrinsi a immergere la testa, cacciando un urlo che si perse tra le bolle. L'acqua mi inondò la bocca e il naso e mi ghiacciò i polmoni. Non era abbastanza per punirmi, ma l'istinto prevalse e mi tirai su.
Tornai strisciando sulla sabbia e fissai il cielo nero. Il telefono vibrava nella tasca dei jeans. Lo ignorai e cominciai a elencare le costellazioni. Seth mi aveva insegnato a riconoscerne alcune. Il legame pulsava più forte che mai, stringendomi la gola come una catena che mi trascinava verso Arya. Verso la figlia che non avrei mai conosciuto.
«È il momento di tornare a casa, Soggetto Zero» esclamò una voce.
Non mi mossi. Poteva essere passato un minuto, un'ora o un giorno intero. Non aveva importanza. Così come non ce l'avevano gli uomini con i fucili spianati che mi stavano circondando.
Dovevano pensare di essere stati così bravi da cogliermi alla sprovvista... patetici. Li avevo uditi prima ancora che scendessero dai loro furgoni.
Sorrisi fra me e mi misi a sedere. «L'angioletto vi ha detto dove trovarmi, suppongo. Siete troppo stupidi per riuscirci da soli».
Le armi si tesero nella mia direzione. Ebbi il tempo di sospirare, facendo il mio ultimo respiro come Nicholas, prima che una raffica di dardi mi piovesse contro e l'oscurità mi inghiottisse.
Mi svegliai un istante dopo. O quella fu la mia impressione.
Mi sentivo la testa stranamente leggera e capii in ritardo che era dovuto alla quantità esagerata d'incenso che impregnava l'aria. Ogni respiro mi bruciava fin nelle viscere. Schioccai le labbra secche e ci passai sopra la lingua, sentendo delle cinghie tendersi sulla mia mandibola. Indossavo una museruola.
Dischiusi le palpebre e una luce abbagliante sul soffitto mi accecò. Una sagoma comparve ai margini del mio campo visivo. A fatica misi a fuoco il volto di un uomo, chino su di me. Aveva gli occhi neri di Seth e gli stessi capelli scuri, anche se i suoi non erano ricci. «Bentornato, Zero».
Una risatina rauca mi scaturì dalla gola. «Immagino che tu sia mio suocero».
Le sue labbra si arricciarono per l'irritazione. «Già. Mi è stato raccontato che mio figlio nutre una sorta di attaccamento affettivo nei tuoi confronti. Nulla a cui non si possa rimediare, comunque». Liquidò la faccenda con un gesto secco della mano. «Mi chiamo Logan Myers. Sono la persona a cui appartieni».
«Ah sì?» chiesi in tono disinteressato, guardandomi attorno.
L'ambiente mi era così familiare da risultare quasi rassicurante. Ero steso su un ripiano metallico, all'interno di una grande stanza bianca. Con addosso solo i pantaloni, la schiena premeva sulla superficie dura e fredda. Degli anelli in oricalco erano chiusi attorno ai polsi e alle caviglie, così stretti da bloccarmi la circolazione. Catene robuste mi fasciavano all'altezza delle ginocchia, dei fianchi e dei gomiti.
Logan afferrò la gabbietta applicata sulla mia bocca e mi costrinse a girare il viso verso di lui. Ero troppo debole per oppormi. «Ho ricevuto l'ordine dal governo di non portare avanti le ricerche. Dopo il casino a New York, ai piani alti si stanno facendo degli... scrupoli morali, diciamo. Se venisse fuori che hanno autorizzato esperimenti su dei bambini, sarebbe un gran bel problema».
Abbozzai un sorriso sbilenco. «Tiro a indovinare. Io sono una fortunata eccezione».
«A differenza degli altri Soggetti, tu sei nato in laboratorio. Niente certificato di nascita, né documenti. Non c'è traccia di te. Non sei nessuno. Nicholas De'Ath non esiste». Il suo sguardo percorse il mio corpo. Era uno sguardo freddo e calcolatore, come se fossi un oggetto del quale doveva stimare il valore. «Esiste solo Zero. E Zero è una proprietà dell'Olympus, quindi mia».
Storsi il naso. «Spiacente. Sono già prenotato».
Logan allungò il braccio verso il tavolo su cui erano disposti quelli che sembravano degli strumenti chirurgici. All'inizio non capii che cosa avesse preso, poi mi accorsi del bisturi. Ma ero stato sventrato troppe volte per impressionarmi.
Posò la lama sotto lo sterno ed effettuò una profonda incisione lungo l'addome. Digrignai i denti, ingoiando il dolore. La ferita impiegò solo pochi secondi a rimarginarsi e, al suo posto, rimase una riga di sangue sulla pelle.
Logan emise un verso sbigottito. «Sei una creatura meravigliosa» commentò ammirato. «La più grande invenzione di Vivianne».
«Sì, lo so. Anche se preferisco definirmi stupendo».
«Riesci a immaginare come sarebbe il mondo, se tutti avessimo la tua capacità di guarire da qualsiasi cosa? O di non ammalarsi mai? O ancora di invecchiare a un ritmo dieci volte più lento?»
«Dimentichi la bellezza soprannaturale» precisai.
Logan mi ignorò di nuovo. Si rivolgeva a me come si farebbe con un cane, con la pretesa di essere ascoltati e nessun interesse a ricevere una risposta. Ero una cavia, dopotutto. Le mie parole non avevano valore. «Mia madre è morta di cancro, sai? Le sono rimasto accanto, impotente, fino a che ha esalato il suo ultimo respiro. A te questo non può succedere. È ciò che voglio per l'umanità. Un mondo perfetto in cui non dovremo dire addio ai nostri cari, non dovremo perderli prima del tempo. Ti sembra una cosa malvagia, Zero?»
La porta si spalancò.
Il mio cuore mancò un battito nell'istante in cui Lucius fece il suo ingresso. Il suo odore muschiato mi attanagliò lo stomaco e ogni mio singolo muscolo si tese di riflesso. Di colpo divenni consapevole più che mai del mio fisico nudo ed esposto. Pregai con tutto me stesso che fosse frutto di un'altra allucinazione, ma nel profondo sapevo di sbagliarmi prima ancora che Logan si voltasse a fissarlo.
«Che cosa vuoi?» chiese quest'ultimo con evidente disprezzo.
«Mi hai promesso mezz'ora da solo con lui, in cambio del mio aiuto». Lucius arcuò un sopracciglio nella sua direzione. Negli ultimi sette anni si erano aggiunte delle rughe e si era irrobustito. Per il resto, però, era uguale a come lo ricordavo nei miei incubi. Scuri capelli corti, lineamenti marcati e iridi nere come pece. «Sono venuto a riscuotere».
Impallidii. Mi sforzai di deglutire, ma avevo la gola secca. Logan mi sbirciò e dalla sua espressione intuii che era a conoscenza dei nostri trascorsi e di cosa sarebbe accaduto. «Keegan non ha approvato. Anzi, mi ha dato specifica indicazione di non fartelo vedere. I tuoi vizi non gli piacciono molto».
«Beh, Keegan non è qui. È immortale, non onnisciente». Lucius inclinò il capo di lato. «Se vuoi la mia collaborazione, questo è il prezzo. Altrimenti uccidimi pure, perché non ti servirò a nulla».
Digli di no. Per favore, digli di no.
Logan sbuffò e fece un cenno verso le videocamere. Attese che le spie rosse si fossero spente. «Come vuoi». Lo superò, passandogli il più lontano possibile come se fosse contagioso, e abbassò la maniglia. «Io non ne so niente, chiaro?»
Lucius annuì. Appena fu uscito, prese una sedia e la posizionò al contrario accanto a me. Si sedette a cavalcioni, un braccio piegato attorno allo schienale. Fece un sorriso dolce. «Sei cresciuto».
La nota di dispiacere nel suo tono mi instillò una flebile speranza. Forse ero diventato troppo grande per interessargli. «A quanto pare non sono Peter Pan. Sconvolgente».
Lucius ridacchiò e mi accarezzò i capelli. I miei propositi di dimostrargli che avevo smesso di essere un bambino spaventato andarono al diavolo, quando iniziai a tremare come una foglia. «Mi sei mancato».
Tacqui, incapace di formulare un pensiero razionale.
«Io non ti sono mancato, Zero?»
«Il mio nome è Nicholas» sussurrai.
La presa di Lucius si strinse in uno spasmo involontario, tanto che avvertii la cute tirare. «Te lo ha dato lui, vero?»
Dedussi che si riferisse a Seth. «Sì. Che c'è? Sei geloso?»
«Non capisco. Hai dimenticato tutto quello che ho fatto per te?» Trascinò la sedia più vicino e con la mano libera mi sfiorò la guancia, mentre con l'altra mi teneva ferma la testa. «Perché lo preferisci a me?»
Avrei potuto elencare un migliaio di motivi, un'infinità di ragioni per cui Seth era migliore, eppure in quel momento tutto ciò che mi uscì fu: «Posso dire di no».
Lucius aggrottò la fronte. «Te l'ho sempre chiesto, Zero. Ti chiedevo di giocare con me e tu accettavi. Sapevi a cosa andavi incontro. Non è colpa mia».
Mi morsi il labbro. «Avevo paura che facessi male ai miei fratelli, e gliene hai fatto comunque».
«Non ho mai fatto del male a nessuno di voi. Vi ho solo amati. Tu più degli altri». Si alzò e mi depositò dei piccoli baci sul petto. Provai a dimenarmi, assalito dalla nausea. «Ed è ancora così, Zero. Sono disposto a perdonarti. Ti porterò via da questo posto ed esploreremo il mondo insieme come ti avevo promesso. Devi solo dirmi che mi ami anche tu».
Crollai sfinito sul tavolo, prosciugato dall'effetto dell'incenso. Ero impotente, come lo ero da piccolo. Chiusi gli occhi e mi sforzai di fingere di essere con Seth, ma era impossibile.
Il suo tocco era delicato, premuroso. Mi faceva sentire protetto, un tesoro prezioso da custodire. Quello di Lucius era ruvido, possessivo. Ero un giocattolo di cui poteva disporre a proprio piacimento, un ammasso di carne a sua disposizione.
Il calore umido della sua lingua che ripuliva la striscia di sangue sulla mia pancia mi fece salire le lacrime. Battei le palpebre per scacciarle ed espirai attraverso le fessure della museruola. La sua mano scivolò sul mio corpo, mi sganciò la cintura e si insinuò sotto ai miei jeans.
Il terrore mi invase. «Sì, va bene».
Lucius si bloccò. Un lampo eccitato gli si accese nello sguardo, che si incatenò al mio. «Non basta. Voglio sentirlo». Si sporse e accostò il volto al mio, continuando a palparmi lentamente tra le gambe. «Dimmi che mi ami, Zero. Dimmi che sei mio, non suo».
Lo fissai. «Non dovevi toccarli».
Raccolsi le energie che mi rimanevano, tirai su il mento per darmi lo slancio e gli sferrai una violenta testata. Lucius balzò indietro con un'imprecazione, coprendosi il naso da cui sgorgavano fiotti vermigli. Dovevo averglielo rotto.
Sfoderai un ghigno. «Ecco, sei contento? Adesso sai che cosa provo per te, brutto stronzo. Temo che dovrai trovarti un altro bambino da abusare... no, aspetta. Non puoi. Ti ho tagliato il cazzo».
Lucius afferrò uno strofinaccio e si tamponò il naso. Gocce scure gli macchiavano la maglietta. Mi scoccò un'occhiata amareggiata. «Sono molto deluso, Zero. Molto deluso». Gettò l'asciugamano a terra e tornò a chinarsi su di me, mantenendosi però fuori dalla mia portata. «Ma voglio farti una domanda: perché l'Olympus ha bisogno del mio aiuto, secondo te? Ci hai pensato? Scommetto che puoi arrivarci».
Mi irrigidii. Prima avevo sentito Logan nominare Keegan, ne parlava come se fosse un suo alleato. Ma era assurdo. Perché un demone dovrebbe schierarsi dalla parte di un'organizzazione che perseguita i suoi simili? Non aveva senso. A meno che non avessero stretto un patto riguardante qualcun altro.
E a Keegan importava solo di Arya.
E lei rischiava di morire di parto.
«No, no, no» mormorai, contorcendomi nella morsa delle catene.
Lucius sorrise. «Non ti preoccupare, Zero. Farò in modo che la gravidanza fili liscia come l'olio. Con te ho sbagliato, ma con tua figlia andrà meglio. È la mia seconda occasione. Magari la chiamerò Vivianne».
«No, ti prego. Puoi avere me. Giuro che mi comporterò bene. Ti obbedirò. Potrai farmi tutto ciò che vorrai».
Lucius rilasciò un respiro abbattuto. «Vorrei crederti, Zero. Sul serio. Ma purtroppo hai appena dimostrato di portare troppo rancore. Non posso stare con qualcuno che mi odia». Si strinse nelle spalle. «Tua figlia non avrà i tuoi stessi pregiudizi sul mio conto»
Un'ondata di furia cieca mi travolse. Emisi un verso ferino e strattonai le manette con tale veemenza da lacerarmi i polsi. «Prova a sfiorarla e ti smembrerò pezzo per pezzo» ringhiai, continuando a dimenarmi. «Ti ucciderò in un modo così doloroso che mi supplicherai di morire».
«No, non lo farai». Lucius tirò fuori qualcosa dalla tasca e me la ficcò tra le dita insensibili. «Addio, Zero».
Era il re degli scacchi.
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