𝕮𝖆𝖕𝖎𝖙𝖔𝖑𝖔 53 (Callum)

"ℑ 𝔡𝔬𝔫'𝔱 𝔱𝔯𝔲𝔰𝔱 𝔢𝔞𝔰𝔦𝔩𝔶, 𝔰𝔬 𝔴𝔥𝔢𝔫
𝔍 𝔱𝔢𝔩𝔩 𝔶𝔬𝔲 ℑ 𝔱𝔯𝔲𝔰𝔱 𝔶𝔬𝔲,
𝔭𝔩𝔢𝔞𝔰𝔢 𝔡𝔬𝔫'𝔱 𝔪𝔞𝔨𝔢 𝔪𝔢 𝔯𝔢𝔤𝔯𝔢𝔱 𝔦𝔱"

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Essendo un demone dall'età di quattro anni, avevo scordato cosa si provasse ad avere la febbre. A dirla tutta, era un'esperienza umana che non mi mancava affatto.

Mi sentivo stordito. Avevo la mente annebbiata e dei brividi mi scuotevano fin nelle ossa, che sembravano essere diventate fragili come vetro. Anche se era la sensazione dei vestiti avviluppati al corpo madido di sudore a farmi davvero impazzire.

Mi sciacquai e osservai il mio riflesso allo specchio. Nel punto in cui la camicia era strappata, erano visibili i segni dei denti incisi nella carne. Sfiorai uno dei fori e un bruciore intenso mi incendiò la spalla. Feci una smorfia, mi infilai di nuovo la giacca e sistemai il bavero in modo da coprire le vene nere e gonfie che mi si arrampicavano fino al collo.

Uscii dal bagno e percorsi i corridoi quasi deserti dell'ospedale. La fame mi dilaniava lo stomaco, stuzzicata dall'odore di anime malate o ferite. Ero contento che ci fossero meno dottori in giro a quell'ora, non sopportavo la vista dei loro camici bianchi. Mi ricordavano troppo il laboratorio.

«L'orario delle visite è finito da un pezzo» esordii, arrancando dentro la camera di Seth. «Non so se ci faranno rimanere per tutta la notte».

I miei fratelli erano sparpagliati per la stanza, profondamente addormentati. Nicholas invece era ancora sveglio, inginocchiato accanto al letto, con il mento posato sulle braccia incrociate sul bordo del materasso. Erano ore che non si muoveva da lì. Teneva lo sguardo fisso su Seth, lottando per impedire alle sue palpebre di abbassarsi.

C'era anche Arya. Era seduta insieme a Sky sul divanetto che Joel e Gabriel avevano portato dalla sala d'attesa per farle stare comode, ricurva in avanti, il volto affondato tra le mani. Prima di uscire avevo notato che aveva la pelle d'oca, così mi ero procurato una coperta. Mi avvicinai e gliela porsi, ottenendo in cambio un piccolo sorriso.

Nicholas emise uno sbuffo sarcastico. Aveva un'aria distrutta. Ombre violacee gli segnavano il viso pallido e i capelli, di un biondo sporco, erano incrostati di sangue rappreso. «Che ci provino a mandarmi via. Trasformerò questo posto in un mattatoio».

Mi abbandonai sul pavimento con la schiena appoggiata al comodino, reclinai la testa all'indietro e socchiusi gli occhi. «Sì, lo immaginavo».

«Già. Perché per te uccidere è sempre la soluzione a tutto». Il tono di Arya era duro, impregnato di sarcasmo.

«Ce l'hai con me per qualcosa, angioletto?»

Perspicace. Stava migliorando anche con l'empatia, allora.

«Volevi fare del male a John. È mio zio. È la cosa più vicina a un padre che mi sia rimasta» sibilò lei risentita.

«I parenti sono sopravvalutati». Nicholas fece spallucce e la adocchiò di sfuggita. Esitò. «Dicevi sul serio?»

Arya crollò contro lo schienale con uno sbadiglio. «Che cosa?»

«Quando hai minacciato di non farmela conoscere. Funziona così? La userai per manipolarmi ogni volta che mi comporto male?»

Mi irrigidii, le orecchie tese per non perdermi neanche una parola. La nota di paura nella voce di mio fratello era inequivocabile. Poteva nascondersi dietro una falsa indifferenza quanto voleva, ma era ovvio che ormai si era affezionato a quel bambino, o bambina. Il cuore mi si gonfiò al pensiero che tutto stava andando come avrebbe voluto Kath.

Arya lo fissò per un istante. «Ho esagerato. Non avrei dovuto mettere di mezzo nostro figlio... figlia» si corresse, appena Nicholas fece per aprire bocca. «Mi dispiace per questo. Tu però stavi minacciando la vita di John, il che mi sembra un tantino più grave. Eri preoccupato per Seth, lo capisco. Ma mi hai fatto paura e io non voglio averne, non di te. Se dobbiamo essere genitori, voglio potermi fidare. Perché onestamente non ero sicura che non avresti attaccato anche me in quel momento».

Nicholas si mordicchiò il labbro e tornò a voltarsi verso Seth. Aveva un'espressione delusa sul volto. «Non ti avrei mai fatto niente» biascicò, così piano che lo udii a stento persino io.

«Cosa?» chiese Arya assonnata, posando il capo sulla spalla di Sky.

«Ho detto che di solito uso il sesso per farmi perdonare, ma ora ho una relazione, quindi dovrai accontentarti delle scuse».

«Ma non ti sei scusato».

«Immagina di sì. Non sono bravo a farlo».

«Ottimo. Almeno fai pratica».

Rilasciai un sospiro profondo. «Ne avete ancora per molto?»

Arya trasalì e mi rivolse un cipiglio severo. «Hai finto di dormire per tutto questo tempo? È scorretto».

Corrugai la fronte. «Io stavo cercando di dormire. Ma è difficile con i vostri battibecchi in sottofondo».

«Sì, avete rotto le balle» borbottò Alexander, accasciato sul davanzale della finestra. Alberico gli si stava arrampicando su per la gamba, che ciondolava a penzoloni.

Gabriel si girò con un grugnito e si avvinghiò a Remiel. Arya si lasciò sfuggire un sorriso. «Russa sempre così?»

Nicholas storse il naso. «Già. È insopportabile. Sembra un maiale».

«Quando lo fa Seth, non ti lamenti».

Alexander inarcò un sopracciglio in direzione di Arya, facendolo sparire sotto il cappuccio calato sul volto. «Come sai che Seth russa?»

«L'audio che aveva mandato nel gruppo di famiglia». Ci fu una breve pausa, poi aggiunse con riluttanza: «E poi, per sbaglio, una volta sono entrata nella sua mente mentre dormiva con lui e l'ho sentito».

Nicholas si rizzò di scatto. «Tu cosa?» sbottò.

Ecco che ricominciano.

Non ebbi il tempo di pensarlo che la stanchezza prese il sopravvento senza preavviso. Fu un sonno disturbato, costellato di sogni che – per la prima volta dalla sua morte – non riguardavano Kath. Una parte di me si sentiva in colpa per questo, come se ciò significasse che avevo superato il lutto e che stavo dando la priorità ai miei egoistici sentimenti. Mi sembrava un tradimento alla sua memoria.

Ma non potevo impedire, e forse nel profondo nemmeno volevo, che quella ragazza con scuri occhi da cerbiatto e un sorrisetto sfacciato mi si insinuasse nella mente. Immaginavo di scoprire il sapore delle sue labbra, di toccare la sua pelle, di perdermi in lei.

Quando mi svegliai, non ero mai stato così grato di non essere io ad avere un legame empatico.

Udii delle voci concitate attorno a me. La luce del giorno mi investì e dovetti strizzare gli occhi per scacciare le ombre che avevano invaso il mio campo visivo. Arya e i miei fratelli fissavano verso il letto e confabulavano tra di loro, a parte Nicholas che era immerso in un silenzio di tomba.

Mi alzai barcollando e una fitta mi attraversò il braccio. La ferita bruciava ancora, ma sentivo le mie energie che si prosciugavano a causa del processo di guarigione. Scossi il capo per liberarmi dal torpore. «Che succede? Si è...»

Tutti ammutolirono. La mano di Seth strisciò fino a quella di Nicholas e intrecciò debolmente le dita alle sue, mentre due spicchi neri spuntavano tra le ciglia. «C'è puzza di piedi qui dentro» mormorò in tono rauco.

Joel sorrise. «Bentornato, Pocahontas».

Gabriel cacciò un gridolino. Balzò sul letto e stritolò Seth in un abbraccio, strappandogli un gemito sofferente. Nicholas scattò e glielo tolse di dosso. «Lascialo, cazzo. Gli fai male».

«Scusa, ma sarebbe stato troppo brutto se fossi morto pure tu» singhiozzò lui, tirando su con il naso.

«Grazie, Gabe».

«Come stai?» chiese Isaac.

«Bene». Le labbra di Seth si piegarono all'insù, man mano che il suo sguardo si posava su ciascuno di noi e diventava sempre più lucido. «Molto bene». Si soffermò su Arya. «Non eri costretta a rimanere. Sei anche incinta. Non dovresti...»

«Scherzi? Ti sei consegnato ad August per me. Questo era il minimo». Arya si avvicinò e gli strinse una spalla con affetto. «E poi dovevo accertarmi che mia figlia non perdesse uno dei suoi papà».

L'emozione si dipinse sul viso di Seth, che venne scosso da un fremito ed espirò profondamente dalla bocca. Nicholas si accigliò, allarmato. «Perché stai per piangere? Qualcosa non va?»

«No, no. Tutto okay». Seth si schiarì la gola. «Non per lamentarmi, eh, ma come mai sono ancora... sì, insomma, vivo? Spero che non sia per merito dello zuccone, altrimenti dovrò farmelo stare simpatico».

Roteai gli occhi. «Io non c'entro. Keegan ti ha somministrato la cura».

«Keegan?»

«Già. C'è stato un colpo di scena». Joel scrollò le spalle. «A quanto pare, lo smemorato è un nostro antenato immortale che è stato sepolto per secoli in una bara».

Gabriel annuì con convinzione. «E sa teletrasportarsi. È stata una gran figata». Mostrò il petauro che teneva in mano. «Gli è anche piaciuto Alberico».

Seth aggrottò la fronte. «Okay, sono molto confuso. Ma sono contento che non abbiate dovuto fare un massacro per salvarmi».

«L'avrei fatto» esclamò prontamente Nicholas.

«Lo so». Seth lo scrutò con attenzione. «Sembri esausto. Ti prego, dimmi che non sei stato sveglio, in ginocchio, per tutta la notte».

Sky fece un verso esasperato. «Gli abbiamo detto di dormire e che potevamo sorvegliarti a turni, ma quell'idiota non ci ha dato retta».

«Dai, sdraiati» lo esortò Seth, facendogli spazio sul letto.

Nicholas mosse un passo indietro. «Meglio di no. Non vorrei farti male».

«Non fare il deficiente e vieni».

Era incredibile come riuscisse a farlo obbedire. Se avessi provato io a dargli un ordine in quel modo, probabilmente mi sarei beccato un pugno in faccia.

Mugugnando, Nicholas si liberò delle scarpe e si stese al suo fianco. Seth gli passò un braccio attorno al corpo e lo attirò a sé, coprendo entrambi con le lenzuola. «Perché non ti riposi un po' adesso?» sussurrò, accarezzandogli i capelli.

Nicholas gli posò la testa sul petto, proprio in corrispondenza del cuore. «Prima giurami che starai bene».

«Starò bene».

Nell'istante in cui lo disse, i muscoli di Nicholas si rilassarono e il suo respiro rallentò. Capii che era crollato. Seth sorrise e gli diede un bacio sulla fronte, per poi fare una smorfia. «Non diteglielo, o mi terrà il broncio per una settimana, ma gli serve una doccia».

Ci fu una risata generale, che mi fece mancare un battito. Avrei voluto imbottigliarla e custodirla per sempre, come un tesoro prezioso che mi ricordava per che cosa Kath era morta, per che cosa stavo combattendo. Non potevo restituire ai miei fratelli l'infanzia di cui erano stati privati, ma avrei fatto qualsiasi cosa fosse necessaria per dare loro un futuro pieno di risate come quella.

Joel sogghignò. «È così sottone che non riuscirebbe a tenerti il broncio neanche per due minuti».

«Non voglio rovinare l'atmosfera». Alexander si appoggiò al muro, il moncherino nascosto nella tasca. «Ma non sappiamo che cosa ti ha iniettato Keegan. Non possiamo essere sicuri che non ci siano conseguenze».

Concordai con un cenno. «Soprattutto considerato che è venuto in ospedale apposta per questo. Deve averlo fatto per una ragione».

Gabriel scosse il capo. «Non mi piace questo pessimismo».

«Io mi sento uguale a prima» commentò Seth.

«Perché lo sei. Il tuo odore è decisamente umano». Remiel si sedette sul divanetto e si passò una mano sulla faccia. «Magari davvero voleva solo risparmiare un innocente».

Storsi il naso. Ne dubitavo. In ogni caso, avevo sottovalutato Keegan fino a quel momento e non intendevo ripetere l'errore, non adesso che aveva recuperato la sua identità.

Joel si scompigliò ancora di più i capelli. «Sì, certo. E magari Matusa condivide anche la tua passione per i fiorellini e potete scambiarvi consigli di botanica».

«Cretino» borbottò Remiel.

Isaac si strinse nelle spalle. «Comunque quello non poteva essere sangue di demone. Non è un De'Ath, quindi non ha il gene, e la trasformazione funziona solo sui bambini».

Seth sospirò. «Niente superpoteri, quindi? Peccato».

«Sopportare Nik è già un superpotere» gli ammiccò Sky.

Alexander si raddrizzò, staccandosi dalla parete. «Dovremmo comunque trovare il Grimorio e scoprire che cosa ha usato. Deve esserci un motivo se non ce lo ha detto».

Mentre gli altri spiegavano a Seth del libro, Arya mi sfiorò il gomito e mi fece cenno di uscire. Malgrado la sorpresa, annuii e aprii la porta. Mi scansai per farla passare per prima, poi la seguii nel corridoio.

Arya si girò verso di me. «Mi dispiace» buttò fuori, come se lo stesse trattenendo da parecchio.

Battei le palpebre, sconcertato. «Per?»

«Keegan. È colpa mia. Non avrei dovuto proteggerlo. Ho fatto un casino e ora potreste essere tutti in pericolo per...» Arya si bloccò. «Tutto okay?»

Smisi subito di massaggiarmi la spalla e abbassai il braccio. «Sì, scusa. Ti sto ascoltando».

«Ti fa ancora male? L'hai disinfettata?»

«Potresti non essertene accorta, ma sono stato un po' impegnato. Lo farò dopo». Non era ancora convinta. «Tanto guarirà. Ci vuole più tempo solo perché non mi sono nutrito granché ultimamente».

Né ho mangiato granché, aggiunsi. Preferii tenerlo per me.

La sua espressione si fece diffidente. Da quando avevamo parlato in palestra, era strana nei miei confronti. Avevo il sospetto che mi stesse tenendo sotto sorveglianza. «Dovresti farlo ora. Per quanto ne sappiamo, potrebbe infettarsi».

Sbuffai. «Hai intenzione di insistere finché non accetto, vero?»

Arya sorrise. In quel momento somigliava così tanto a mia sorella che non trovai la forza di oppormi. Mi intrufolai in una stanzetta libera e mi accasciai sul bordo di una barella, in attesa che mi raggiungesse con tutto l'occorrente. Mi tolsi la giacca e sbottonai la camicia quanto bastava per poter scoprire la ferita. Per fortuna sotto indossavo una maglietta senza maniche, squarciata in corrispondenza del morso, così almeno non ero costretto a osservare quel corpo che disprezzavo.

Quando Arya entrò, si accomodò accanto a me e versò dell'alcol verde su un batuffolo di cotone. Mi irrigidii sul posto. Ripensai a Lucius, a come mi toccava ogni volta che si prendeva cura di me dopo una punizione, e d'istinto serrai le ginocchia. «Posso fare da solo». Mi accorsi di essere stato troppo brusco e mi affrettai ad aggiungere: «Grazie».

«E se prometto di non sfiorarti neanche?»

Tentennai, poi mi arresi con un movimento del capo. Arya abbozzò un sorriso e cominciò a umettare delicatamente i fori con l'ovatta, evitando qualsiasi contatto fisico tra di noi. Il bruciore del disinfettante mi strappò una lieve smorfia, ma continuai a osservare guardingo ogni sua mossa. Trassi un respiro profondo, senza smettere di tremare. Ero un fascio di nervi, eppure per qualche ragione mi fidavo.

Ero certo che non mi avrebbe fatto del male. La sua gentilezza era pura come quella di Kath, ed era l'unica gentilezza che non mi avesse mai ferito. 

«Riguardo a quello che ti stavo dicendo...»

«Hai fatto quello che ritenevi giusto. Non potevi sapere chi fosse Keegan in realtà. Essere buoni non è una colpa». Incrociai il suo sguardo, intanto che i miei muscoli si distendevano. Ero stranamente a mio agio. «Ma è importante che tu ti trasferisca il prima possibile. Qualsiasi cosa abbia in mente Keegan, è evidente che ne fai parte e ci sarà più facile proteggerti al castello».

«Lo so, lo so. Devo parlare con mia madre» replicò lei amareggiata.

Mi sforzai di pensare a qualcosa di incoraggiante. «Andrà bene». Tossicchiai. Le mie capacità sociali facevano davvero schifo. «Non la conosco molto, ma mi dà l'impressione di essere una brava madre».

«Sì, è meravigliosa. Solo che ha già sofferto tanto per papà. Non so come dirle che questa gravidanza potrebbe... finire male». Buttò nel cestino l'ovatta sporca e mi fasciò la spalla con una garza. Le sue mani tremavano. «Ecco, fatto. Come va?»

Abbottonai la camicia e rimisi la giacca. «Meglio. Ti ringrazio, anche se non era necessario». Mi alzai, sbirciandola di sottecchi. «Non ti accadrà niente, Arya. Faremo di tutto perché tu possa tenere tra le braccia tuo figlio, o figlia. Hai la mia parola».

L'angolo della sua bocca ebbe un guizzo. «Preghiamo che sia una femminuccia, o quel rompiscatole del padre mi farà rimpiangere di non essere morta».

Afferrai la maniglia. Appena udii una voce famigliare provenire dal corridoio, arretrai e richiusi la porta con un tonfo. Il cuore prese a dimenarsi nella gabbia toracica, schiantandosi contro le costole in maniera quasi dolorosa.

«Che c'è?» chiese Arya perplessa.

«Niente».

Arya riaprì la porta e sporse la testa fuori dalla stanza. «Ah, sì. Me la ricordo da quando l'ho incontrata da August. Rosalie, mi pare». Mi scoccò un'occhiata divertita. «È la ragazza che ti piace, vero?»

Avvampai. «No che non mi piace» sbottai, gonfiando il petto indignato. «Siamo soci in affari. Anzi, neanche ormai. Ex soci in affari».

Non era una bugia. Avevo solo fatto dei sogni inappropriati su di lei. Non significava necessariamente che mi piacesse.

«Allora perché ti stai nascondendo?»

«Non è vero» mentii.

Arya trattenne a stento una risata. «Vuoi davvero lasciare la ragazza che non ti piace in balìa dei tuoi fratelli?»

L'idea bastò a riempirmi di terrore. Non osavo immaginare le stupidaggini che avrebbero potuto rifilarle. Volevo salvaguardare almeno un minimo della mia dignità.

Con un sospiro rassegnato le cedetti il passo e tornammo insieme nella camera di Seth. A giudicare dalla crescente confusione tra il personale dell'ospedale, la notizia che uno dei pazienti era miracolosamente guarito si stava diffondendo. Non mi piaceva, ma potevo soltanto sperare che credessero che il veleno non fosse letale e il suo corpo fosse riuscito a smaltirlo.

«Sapevo che mi volevi bene in fondo» commentò Seth con un ampio sorriso.

«Non sono qui per te, ladruncolo. Sono abituata al tuo innato talento nel rischiare di farti ammazzare. Ma ho saputo che eri in ospedale e ho dato per scontato che ci fosse anche la tua famigliola di pazzi». Rosalie si girò e puntò lo sguardo su di me. «Eccoti».

Rimasi incantato a fissarla come un ebete, prigioniero dei suoi occhi. Erano marroni, il colore più comune al mondo, eppure possedevano un fascino magnetico che non avevo mai visto. Dentro c'era l'autunno, la stagione in cui il vecchio moriva per fare spazio al nuovo, per rinascere ancora più bello.

Forse per questo mi piacevano tanto. Forse speravo che potesse cancellare tutto ciò che odiavo e trasformarlo in qualcosa del quale non mi vergognassi.

Gabriel sollevò un dito. «Posso fare una domanda sulla vostra attuale situazione sentimentale?»

«No». Mi rivolsi a Rosalie e chiesi: «Perché mi cercavi?»

«Non rispondi alle mie telefonate e non leggi i miei messaggi. Diciamo che ho colto l'occasione». Inclinò il capo di lato e la treccia castana oscillò. «Mi devi un appuntamento. Sono venuta a riscuotere. Quando sei libero?»

Un rossore si propagò sul mio viso fino alle orecchie. Prima che le mie sinapsi riuscissero a ricollegarsi, Joel poggiò il gomito sulla mia spalla sana e sfoderò un ghigno. «Stasera non ha niente da fare».

Mi riscossi. «No, oggi no. Sono occupato».

«È liberissimo» intervenne Sky.

Gabriel sventolò la mano con leggerezza. «Vai pure, tranquillo. Possiamo disseppellire la mamma anche senza di te».

Rosalie lo guardò confusa per un attimo, poi assunse un'espressione compiaciuta. «Non lo voglio sapere. Alle otto, va bene?»

Ancora una volta Joel mi precedette. «Perfetto».

Voglio morire. Oppure uccido loro. Una delle due.

«Ci vediamo a cena, allora».

Mi pietrificai. «Cena?»

Rosalie aggrottò la fronte. «Qualche problema?»

«No. Tutto okay» risposi.

«D'accordo». Rosalie mi superò e passò accanto ad Arya. Si fermò. «La figlia di Charles Black, giusto?»

«Lo conoscevi?»

«L'ho incontrato una volta, da ragazzina. Era appena stato nominato sceriffo e mio padre ha tentato di corromperlo. Con scarsi risultati, ovviamente. Era il ritratto dell'onestà, oltre che un gran bell'uomo». Un'ombra le balenò sul volto, ma scomparve subito. «Beh, condoglianze». E si allontanò, non prima di avermi fatto un rapido occhiolino.

Joel mi diede una pacca sulla schiena. «Ricordati il preservativo, papà orso. Un nipotino ci basta».

Lo folgorai con un'occhiata torva e gli mollai una gomitata al fianco.

Tornammo al castello un'ora dopo. Malgrado Seth si fosse ripreso, i medici avevano insistito per fargli degli ulteriori esami e tenerlo in osservazione per almeno un paio di giorni. Nicholas si era rifiutato di lasciarlo da solo, perciò era rimasto in ospedale insieme a Sky. Arya invece era andata a casa con sua madre.

Per tutto il tragitto i miei fratelli mi tormentarono. Gabriel continuava a darmi consigli discutibili riguardo all'appuntamento, mentre Joel mi prendeva in giro con le sue solite battute. Quando accostai la macchina in giardino, mi premurai di inchiodare così bruscamente che entrambi si spiaccicarono contro lo schienale del sedile.

«L'hai fatto apposta» urlò Joel, tastandosi la fronte.

«Non è colpa mia se non allacciate la cintura».

Seduto sul lato del passeggero, Remiel abbozzò un sorriso. Scendemmo dall'auto e il mio sguardo saettò verso l'ingresso del mausoleo.

«Se vuoi, posso prestarti la mia camicia viola a pois». Gabriel richiuse lo sportello e si sfiorò la tasca dei jeans skinny, dove dormiva il petauro. «Secondo me ti starebbe proprio bene, magari anche con mascara...»

«Sta' zitto». Alexander alzò la mano, corrucciato. «C'è qualcuno nel castello».

Mi girai di scatto e acuii l'udito. Aveva ragione. Sentivo due cuori pulsare, di cui uno era quello di Loki a giudicare dalla frequenza dei battiti.

«Non può essere Lucius, no?» chiese Isaac titubante.

«Non credo. Ma dobbiamo comunque essere pruden-»

Non avevo ancora terminato la frase che Joel si era già fiondato all'ingresso, facendo irruzione nel soggiorno. «Prego, Matusa. Fai pure come se fosse casa tua».

Remiel mi fissò. «Cos'altro ti aspettavi?»

Lo seguii, imitato dal resto della famiglia. Il disordine che infestava il salotto mi faceva prudere le mani. Il tavolino era spaccato, brandelli di sedie erano sparpagliate ovunque, il divano era sporco di sangue e un attizzatoio giaceva sul pavimento.

Keegan stava sfogliando un giornale, stravaccato su una poltroncina con il nostro enorme gatto nero sulle ginocchia. Spostò pigramente gli occhi neri come la pece su di noi. «Ho costruito io questo posto, quindi tecnicamente è casa mia. Come sta il vostro amico?»

Avanzai con cautela. «Meglio. Che cosa gli hai dato?»

«Non mi credereste. Ma potete stare tranquilli: non avrà alcun effetto collaterale».

Alexander richiuse il portone. «Allora perché non vuoi dirci che cosa fosse?»

«Perché non vi serve saperlo e non ho voglia di perdere tempo in chiacchiere inutili». Keegan posò la rivista sul bracciolo. «Inoltre, non è difficile immaginare quale sia la cura per un veleno demoniaco».

«Non puoi darci almeno un indizio? Tipo, quante lettere ha?» lo incalzò Gabriel, ciondolando sui talloni.

Remiel gli fece cenno di tacere. «Che cosa vuoi?»

«Niente. Solo farvi capire che non sono vostro nemico».

Joel prese una scatola di cereali e si sedette sul bancone. «Quindi, se ho capito bene, tu saresti un nostro lontano nonnino?»

«Parecchio lontano, ma sì». Keegan diede una grattata dietro le orecchie a Loki, che iniziò a fare le fusa. «È tutto partito da me. Nel corso dei secoli, malgrado i frequenti incesti, il sangue demoniaco della mia discendenza si è indebolito e mescolato a quello umano. Il gene però non è mai scomparso. Ha continuato a essere tramandato, latente, finché la vostra adorabile mammina lo ha risvegliato. O almeno questa è la spiegazione scientifica che mi ha dato Maya».

Lo osservai con attenzione, guardingo. «Come sei sopravvissuto nella bara senza nutrirti?»

«Sono immortale. La Maledizione non mi permette di morire in nessun modo, nemmeno con l'oricalco». C'era una nota di amarezza nella sua voce.

Gabriel spalancò la bocca. «Forte!»

«Molto meno di quello che appare».

Non mi permette di morire. Era una curiosa scelta di parole. Come se nel profondo lo volesse.

Pensai a Kath, al proiettile che aveva fermato il suo cuore, che me l'aveva portata via. Serrai i pugni lungo i fianchi. «Nostra madre ti ha usato per trasformarci. Allora perché non abbiamo le tue stesse capacità?»

«Siete dei bambini. Alla vostra età anch'io avevo ancora molto da imparare». Loki balzò giù dal suo grembo e Keegan si tirò in piedi. «Ma ammetto che non so con esattezza come funzioni per voi. Non ho mai visto dei Windigo creati in laboratorio, considerato che vengo da un'epoca in cui non esisteva neppure la tecnologia».

«Abbiamo capito, Matusa. Sei vecchio» commentò Joel sprezzante.

Alexander inarcò un sopracciglio. «Eppure sei stato anche tu una cavia di Vivianne. Se sei così potente, perché non glielo hai impedito?»

Keegan fece una smorfia infastidita. «Sono stato dentro quella bara per quattrocento anni, ragazzino. Non posso morire di fame, ma ho comunque bisogno di assorbire anime. Quando Vivianne mi ha trovato, ero a tutti gli effetti un cadavere. Non potevo muovermi, né parlare. Ero cosciente quanto bastava solo per sentirla mentre strappava un pezzo dopo l'altro del mio potere e lo metteva in voi».

«Il tuo potere?» ripeté Remiel.

Ripensai a ciò che aveva detto Maya ieri in ospedale e finalmente compresi. «Siamo stati creati grazie al tuo potere. Quando uno di noi muore, quel potere torna a te. Sei guarito perché abbiamo ucciso Jayson».

Nel soggiorno piombò il silenzio, interrotto solo dal rumore di Joel che sgranocchiava i cereali. L'unico che non sembrava stupito era Isaac, che doveva essere giunto alla stessa conclusione persino prima di me. In compenso, era pallido e si stropicciava senza sosta un lembo del maglione.

«A rischio di perdere il poco di fiducia che ho guadagnato, sì» sospirò Keegan, afferrando il telecomando. Accese la televisione e cominciò a cambiare i canali. «E rispondo già alla vostra prossima domanda: no, non voglio farvi del male per recuperare il resto. È ciò che sto cercando di farvi capire. Jayson aveva gran parte del mio potere, per questo il suo corpo non lo ha retto e ne è stato consumato. Non me ne serve altro».

Gabriel si grattò il mento. «In realtà la mia domanda era se sai volare».

Un fremito mi percorse la schiena e strinsi il ciondolo che pendeva all'estremità della catenella. Anche la morte di Kath aveva contribuito a renderlo più forte. Per qualche ragione era una consapevolezza che mi faceva infuriare.

«Certo. E perché dovremmo crederti?» ribatté Alexander in tono tagliente.

«In tutta onestà, non mi importa se mi credete o meno».

Joel arraffò un'ultima manciata di corn flakes e ripose la scatola. «Fai parecchio lo sbruffone per essere uno in netta inferiorità numerica».

Un sorriso sardonico affiorò sulle labbra di Keegan. «Perché voi siete così terrificanti, eh?» Indicò con il mento Gabriel, che era intento ad accarezzare il petauro, appena uscito dalla sua tasca. «E no, non so volare».

«Arya che cosa c'entra?» soggiunse Remiel.

Keegan si bloccò per un lungo momento, lo sguardo puntato verso lo schermo. La sua espressione era indecifrabile. Era impossibile stabilire se stava ponderando con cautela quanto rivelarci, o se era semplicemente concentrato sul cartone animato. «Capita di rado che un essere umano rimanga incinta di un demone. Mi incuriosiva».

«Ti sei dato così tanto da fare per conoscerla, solo perché ti incuriosiva

«Magari mi piace». Quando Remiel e Alexander si incupirono, Keegan scoppiò in una risata. «Scherzavo, rilassatevi. Ho superato la fase delle cotte adolescenziali».

Approfittando della sua distrazione, Joel estrasse un coltello da bistecca dal mobile e lo scagliò nella sua direzione. Keegan sembrava non aspettare altro. Piegò il capo con un gesto secco e l'arma deviò la sua traiettoria. Disegnò un mezzo cerchio nell'aria e tornò indietro a una velocità tale che non riuscii neanche a muovermi.

«Cazzo» imprecò Joel, stringendo il manico del coltello conficcato nella sua spalla. Lo tirò fuori con un mugolio e la ferita si rimarginò in pochi istanti.

Nel frattempo l'istinto di protezione era scattato. Alexander, Remiel, Gabriel e Isaac si disposero attorno a lui, io davanti a loro. Contrassi la mascella. «Tocca di nuovo uno dei miei fratelli e ti rimetterò in quella bara».

«Ho detto che non voglio farvi del male». Keegan ci fissò con uno sguardo gelido. «Ma se cercate di farne a me, non esiterò a uccidervi tutti, dal primo all'ultimo. Sono stato abbastanza chiaro, bambini?»

Le mani erano sudate, mentre mi allacciavo i bottoni della camicia. Durante il giorno non avevo fatto altro che pensare alla cena con Rosalie e più di una volta ero stato sul punto di annullare tutto. L'ansia mi attanagliava lo stomaco, pesante come un macigno. Ero anche piuttosto pallido.

Una miriade di domande mi affollavano la mente. Di che cosa parleremo? Si aspetta un bacio, o addirittura qualcosa di più? E se non riesco a mangiare nulla?

Non avevo neanche fame. Anzi, in quel momento, la sola idea del cibo mi faceva venire la nausea. Di nuovo, fui tentato di chiamarla e inventare un'emergenza famigliare come scusa per cancellare i programmi della serata. Eppure, una minuscola parte di me – quella non dilaniata dalla paura – voleva davvero vederla. Mi piaceva passare del tempo con lei. Ormai la consideravo... un'amica?

No, non andava bene. Una gradevole conoscente. Ecco, meglio.

Sbuffai e strinsi il nodo della cravatta. Siccome facevo fatica a respirare, lo allentai un poco, poi mi accorsi che era venuto male e lo sciolsi. Incrociai i miei occhi grigi allo specchio e il dolore parve scavare il vuoto che mi squarciava il petto. Kath avrebbe di sicuro trovato le parole giuste da dirmi.

«Hai bisogno di una mano?»

Per un folle attimo credetti di riconoscere la voce della mia gemella. Mi girai di scatto e mi ritrovai di fronte Sky, che mi fissava con un sorriso carico di tenerezza. Mi schiarii la gola secca. «Non eri in ospedale con Nicholas?»

«C'è Alexander adesso. Ho immaginato che i miei talenti sarebbero stati più utili qui». Mi ammiccò e prese la cravatta che avevo lanciato sul letto. «Non sono ancora brava quanto te, ti avviso in anticipo».

Abbozzai un sorriso. «Non importa, tranquilla». Lasciai che me la avvolgesse attorno al collo e seguii i suoi movimenti impacciati con lo sguardo. Provai un moto di orgoglio. «Te la cavi, invece. Non mi hai mai detto perché hai voluto che te lo insegnassi».

«Ben faceva schifo a farlo, così ho imparato per aiutarlo». Dal suo tono trapelava una nota di tristezza.

La fissai in volto. «Mi dispiace. Se ti consola, era un idiota. Ci ha perso solo lui».

«Ovviamente lo sapevi. Non ci sono segreti tra Cip e Ciop, eh?»

Scrollai le spalle. La ferita si era rimarginata in fretta, grazie anche ad Arya che l'aveva disinfettata, e si era aggiunta alla mia collezione di cicatrici. «Nicholas preferiva essere odiato da te, piuttosto che farti soffrire, e l'ho assecondato. Non ero molto d'accordo, in realtà. Ho cercato di spiegargli che ci saresti stata male comunque, ma non mi dà mai retta».

Sky mi aggiustò il colletto e mosse un passo indietro per osservarmi meglio. «Sei stupendo. Il nero ti dona».

Storsi il naso e infilai il soprabito scuro. «Se lo dici tu».

«Esatto. Lo dico io. Una ragazza etero che se ne intende di bei ragazzi».

«Sei anche mia sorella. Il tuo giudizio non è imparziale».

«Come vuoi». Sky afferrò il telefono e mi scattò una foto, poi prese a digitare sullo schermo.

Aggrottai la fronte. «Che stai facendo?»

Non mi rispose. Al suono di una notifica, un'espressione soddisfatta le si dipinse sul volto e mi porse il suo cellulare. Era acceso sulla chat di Arya, alla quale aveva inviato la mia foto, accompagnata dal messaggio "È nervoso per l'appuntamento. Che te ne pare? Della mia opinione non si fida".

La risposta era stata: "Decisamente sexy. Approvato".

«Lei non è tua sorella» sottolineò Sky compiaciuta.

Roteai gli occhi, anche se non potei impedire che l'angolo della bocca mi si incurvasse all'insù. Le adoravo. «Voi due insieme siete insopportabili. E non sono nervoso. Non è nemmeno un appuntamento. Cioè, sì, ma sono stato costretto ad accettare».

«Bugiardo».

Rassettai la piega dei miei capelli e mi incamminai verso la porta. «Non sto mentendo. Ho perso una scommessa. Non ho avuto scelta».

Sky ridacchiò, precedendomi fuori dalla camera. «In che cosa consisteva questa scommessa? Sentiamo».

«Dovevo batterla a un incontro di boxe».

«E hai perso? Contro un'umana?» Scoppiò a ridere e mi diede un buffetto sulla guancia. «Bugiardo e clown, fratellone. Ecco cosa sei».

«Mi ha distratto» mugugnai sottovoce. Ma avevo la netta sensazione di star peggiorando la situazione, così mi chiusi in un silenzio di autoconservazione.

Scendemmo le scale e arrivammo in soggiorno. Io e Isaac lo avevamo ripulito e messo in ordine quella mattina, sebbene ancora non avessimo sostituito il tavolino distrutto. Per profanare la tomba di nostra madre Remiel aveva suggerito di aspettare Nicholas e tutti eravamo stati d'accordo; come aveva fatto notare Alexander, nessuno di noi aveva voglia di sorbirsi le sue lamentele per il resto della settimana. O del mese.

Joel sogghignò. «Dalla faccia sembri un demone che sta andando in chiesa, anziché a un appuntamento».

«Non è un...» Intercettai il sorrisino di Sky e borbottai: «Lasciamo stare. Allora vado».

«Aspetta». Gabriel mise in pausa il videogame e mi corse incontro. Mi porse una bomboletta. «Dovresti aggiungere un po' di questa. È una lacca fantastica».

La presi con una certa ritrosia. Non volevo ritrovarmi i capelli pieni di brillantini o tinti di rosa. «Definisci fantastica, per favore».

«È all'aroma di fragola. Forza, provala» mi incitò entusiasta.

Facevo pena a dire di no ai miei fratelli. Sospirai, tolsi il tappo e mi spruzzai la lacca. Adocchiai Sky in cerca di rassicurazioni. Lei annusò l'aria e mostrò un pollice all'insù. «Non è male».

Joel mi si avvicinò e fece scivolare una fiaschetta nella mia tasca, facendomi l'occhiolino. «Solo un goccetto per scioglierti. Non esagerare, mi raccomando».

«Non mi sembra una buona idea» commentò Sky.

A me, però, non dispiaceva avere qualcosa per combattere l'ansia. Li salutai in maniera sbrigativa e raggiunsi il portone. «Ti sei ricordato il pre...» mi gridò dietro Joel, ma uscii prima che potesse finire.

Salii sulla Audi e guidai fino a Notturn Hall, accostando davanti al palazzo in cui viveva Rosalie. Sfilai le chiavi e me le rigirai tra le mani, assalito da un'ondata di panico. Afferrai la fiaschetta e mi concessi un piccolo sorso. Riconobbi il sapore bruciante del whiskey, che mi riscaldò il petto e attenuò la morsa allo stomaco.

Scesi dall'auto ed entrai nell'atrio. Mi sentii mancare il fiato. Rosalie mi stava venendo incontro. La treccia castana le ricadeva sulla spalla, chiusa da un fermaglio tempestato di zaffiri. Indossava una vaporosa camicetta di seta color blu navy dalla scollatura profonda, con un blazer aperto e una borsetta abbinati ai pantaloni neri. Era perfetta senza neanche sforzarsi di esserlo.

Si fermò di fronte a me e mi chinai per baciarle il dorso della mano. «Che ne pensi, pezzo di ghiaccio?»

«Sei...» Stupenda, bellissima, la cosa più vicina a una dea che abbia mai visto. «Molto elegante».

Tra tutti i complimenti possibili avevo scelto quello più stupido. Ottimo. Ben fatto, Callum.

«Grazie». Percorse la mia figura con lo sguardo e le sue labbra, accese dal rossetto, si piegarono in un sorriso divertito. «Anche tu. E profumi di fragola».

Feci una smorfia. «Lunga storia».

Raggiungemmo a piedi il ristorante, non molto lontano. Era un ambiente spazioso e discreto, rischiarato da una luce soffusa. I tavoli erano ben distanziati l'uno dall'altro, con bianche tovaglie ricamate e apparecchiate in maniera impeccabile. C'era una lieve musica di sottofondo che rendeva l'atmosfera quasi incantata. Beethoven, il mio preferito.

Un'ala del locale era riservata solo a noi. Tirai indietro la sedia per permettere a Rosalie di prendere posto, poi mi sedetti e osservai la fiammella della candela. Formava una simmetria apprezzabile con il posacenere. «Come sta il ladruncolo?»

Inarcai un sopracciglio. «Bene. Eri venuta per lui in ospedale, vero?»

«Lo conosco da quando era un mocciosetto di quattordici anni che frugava tra i rifiuti e si cacciava nei guai. Mi sono affezionata, credo. Ma non dirglielo».

Presi il menù e mi ci nascosi dietro in modo da sfuggire al suo sguardo penetrante. Pur sapendo che non era un argomento adatto a un incontro galante, mi aggrappai al discorso. «Per questo lo hai aiutato a liberare mio fratello?»

Rosalie adagiò il mento sulle dita intrecciate. «L'ho aiutato perché ho avuto compassione di un ragazzino tenuto in gabbia e usato come cane da combattimento». Rifletté per un istante. «E sì, anche per fare un dispetto a quel bastardo di mio padre».

La fissai da sopra il menù. «Lo ha ucciso mio fratello?»

«Circa un anno e mezzo dopo, Nicholas è tornato a Notturn Hall insieme a Seth. Era già cambiato parecchio. Voleva vendicarsi dell'Olympus, così abbiamo fatto un patto: gli avrei fornito una lista con i nomi di tutti gli scienziati coinvolti nel Progetto, o perlomeno di quelli di cui mio padre era a conoscenza grazie alla collaborazione con Vivianne. In cambio...»

«... lui doveva uccidere tuo padre» completai, e Rosalie fece un cenno d'assenso. «È strano che Ronald Bailey avesse accesso a così tante informazioni sul Progetto. Credevo che fosse solo un fornitore di carne umana».

Cadaveri di detenuti. Era ciò che ci davano da mangiare in laboratorio per sopperire al nostro bisogno di nutrirci. Dei residui dell'anima restavano impigliati nel corpo per qualche giorno dopo la morte. Anche se il sapore non era paragonabile a quello di cuori freschi, ancora pulsanti, e non erano nutrienti quanto uccidere, era una soluzione sufficiente a tenerci in vita.

«Mio padre era un avvoltoio. Appena ha saputo della morte di Vivianne, ha ordinato ai suoi uomini di perquisire il laboratorio. Sperava di mettere le mani su di voi». Rosalie fece una risata acida. «Non immagini quanto sia stato furioso di scoprire che vi avevano già portati via».

«Perché non ci ha cercati al castello?»

«Era troppo superstizioso per avvicinarsi a Crystal Lake. Non è buffo? Quando sei marcio dentro, le oscure leggende ti fanno ancora più paura».

Un cameriere si avvicinò al nostro tavolo. Pensai che volesse prendere le ordinazioni, invece trasportava un carrellino con dei piatti di pasta piccante e una bottiglia di vino. Aggrottai la fronte. «Beethoven. Cibo italiano. C'è lo zampino di Nicholas».

Il sorriso di Rosalie si allargò. «Beccata. Potrei avergli chiesto qualche dritta per fare colpo su di te».

Il cuore mi scalpitò nel petto. Era assurdo che qualcuno potesse essere così interessato a me. Di solito non piacevo a nessuno. Non ero bravo con le persone, non sapevo relazionarmi con loro. Avrei tanto voluto capire che cosa la spingesse a perseverare, malgrado i miei tentativi di respingerla. «Come va con la tua sorellina? Judith, giusto?»

Il viso di Rosalie si illuminò. Mi raccontò che, in seguito al rapimento, i genitori adottivi avrebbero voluto interrompere qualsiasi contatto, ma Judith l'aveva presa in simpatia e si era opposta. Adesso era spesso ospite da lei, che la riempiva di vizi tra regali e dolcetti. Non aveva ancora trovato il coraggio di spiegarle che il loro legame di sangue era dovuto a uno stupro e alla bambina per ora non sembravano importare i dettagli.

La ascoltai in silenzio, piluccando ogni tanto dal piatto. Un nodo mi serrava lo stomaco. Ogni boccone mi si impastava in bocca e dovevo ingurgitare grandi quantità di vino per costringermi a ingoiarlo. Alla fine, Rosalie non mancò di notarlo. «Non ti piace? Posso farti portare altro».

Scossi il capo. Feci cadere la forchetta e allargai il colletto della camicia. Mi sentivo soffocare. Le pareti della sala si restringevano attorno a me ed ero atrocemente consapevole di avere davanti un essere umano. «Vado in bagno, scusa».

Ansimante, mi allontanai a passi spediti e sbattei la porta. Appoggiai i palmi sul bordo di uno dei lavandini e mi sforzai di riprendere fiato. Delle fitte mi attraversavano il torace a ogni respiro. Ignorando le occhiate della gente, rovistai freneticamente nei miei vestiti. La scorta di ansiolitici per demoni era finita, ma trovai la fiaschetta che mi aveva dato Joel. Senza riflettere, me la scolai in una sola sorsata. Il whiskey mi incendiò la gola e presi a tossire, battendomi un pugno sul petto.

Poi però mi raddrizzai. Avevo la testa leggera, come se fosse stata svuotata da tutte le preoccupazioni e i pensieri che la riempivano fino a scoppiare. Una sensazione euforica mi invase. Perché mi stavo crogiolando nelle paranoie, quando ero a un appuntamento con la ragazza più attraente che avessi mai incontrato?

Riempii i polmoni d'ossigeno e sistemai il nodo della cravatta. Rivolsi un cenno di saluto a un uomo che mi stava fissando perplesso. «Bella serata, eh?» commentai, riponendo la fiaschetta.

Tornai nella sala e mi indirizzai verso il nostro tavolo. Mi chinai su Rosalie e accostai le labbra al suo orecchio, inebriato dal suo profumo cipriato. «Ti va di farci una passeggiata?»

Un fremito le fece accapponare la pelle. «Stai bene? Non hai mangiato molto».

«Mai stato meglio». Ed era vero. Non ricordavo neanche l'ultima volta in cui mi ero sentito così spensierato. «Ma ho proprio bisogno di una boccata d'aria».

Rosalie si alzò, mettendosi la borsetta in spalla. «D'accordo. Per il conto...»

«Faccio io».

Dopo aver pagato, uscimmo dal ristorante e camminammo uno accanto all'altro sotto il cielo stellato. Infilai la mano nella sua, intrecciando le nostre dita. Rosalie increspò le sopracciglia. «Proprio sicuro di stare bene?»

La contemplai per un secondo, poi i miei occhi risalirono e andarono a conficcarsi nei suoi. «Stupenda. È così che avrei voluto rispondere. Penso che tu sia stupenda».

«E perché non l'hai fatto?»

«Perché sono un idiota».

Rosalie rise. Era un suono meraviglioso, di cui avrei voluto potermi beare all'infinito. «Su questo concordo».

«Non riesco mai a dire quello che penso. Non so il motivo. Le parole mi rimangono incastrate in gola e si rifiutano di uscire. Non dico neanche la metà delle cose che mi passano per la mente». Le sfiorai le nocche con il pollice, senza staccare lo sguardo dal suo viso. Avevo deciso di lasciare che fosse lei a decidere dove condurmi, tanto l'avrei seguita ovunque. «Ti ho sognata. Stanotte, in ospedale. Ero febbricitante, ma non credo che sia la ragione. Ho sognato entrambi, in realtà. Eravamo insieme».

Rosalie si bloccò. «E che cosa facevamo?»

Accorciai la distanza tra di noi. Portai il viso a pochi centimetri dal suo e le accarezzai la guancia col dorso dell'indice. «Tutto quello che non trovo il coraggio di fare».

Le sue labbra si dischiusero. Bruciavo dal desiderio di assaggiarne il sapore. La cinsi con le braccia in corrispondenza dei fianchi e la attirai a me. La mano di Rosalie si posò sul mio collo, facendomi rabbrividire, poi scivolò sulla mia cravatta e la strinse. «Sei ubriaco, pezzo di ghiaccio».

Sorrisi. «Fatto, per la precisione. I miei fratelli mi hanno dato una fiaschetta di whiskey e sono abbastanza sicuro che ci fosse qualche goccia di estratto di iperico. È una droga per noi demoni, sai?» La punta del mio naso si scontrò con la sua. «Ma ti assicuro che voglio baciarti anche da sobrio».

Rosalie esalò un sospiro profondo e arretrò. Fu come essere arrivato all'ingresso del Paradiso solo per vedersi chiudere le porte in faccia. «Che palle. Dammi il tuo telefono».

«Perché?» chiesi confuso.

«Voglio scrivere ai tuoi fratelli che sono dei deficienti».

Ridacchiai. Obbedii e, quando me lo restituì, lo rimisi in tasca. Rosalie si diresse verso un chiosco. «Ho voglia di un gelato. Tu?»

La seguii. «Non ho fame. E poi non fa freddo per un gelato?»

«Non fa mai troppo freddo per un gelato». Sfoderò un sorrisetto. «Lo dividiamo allora. Scommetto che riesco a indovinare i tuoi gusti preferiti».

«Ne dubito. Non ne ho. In tutta la mia vita credo di averlo mangiato due o tre volte, al massimo».

«Ancora meglio. Resta qui e vediamo se scelgo bene». Un lampo dispettoso le guizzò sul volto. «Anche se forse sei più tipo da ghiacciolo».

Sbuffai e mi lasciai cadere su una panchina. Quando si sedette accanto a me, Rosalie aveva in mano una coppetta con due cucchiaini. «Tu sei chiaramente uno di quelli che non prende il cono per non rischiare di sporcarsi».

Inclinai il capo, pensieroso. «Non mettono anche una cialda di solito? Mi ricordavo così».

«C'era, ma è troppo buona e l'ho mangiata».

Scoppiai in una risatina. Rosalie afferrò uno dei cucchiaini e indicò i gusti, uno per uno. «Fragola. Come il tuo profumo di stasera».

Roteai gli occhi. «È una lacca, stupida».

«Cioccolato. Fondente, perché è ovvio che ti piaccia l'amaro. Bevi anche il caffè senza zucchero, vero?»

Annuii, sulla difensiva. «Che c'è di male?»

«Niente, a parte che è come bere il cianuro». La mia smorfia le strappò un sorriso. «E infine vaniglia, per aggiungere un tocco di dolcezza».

«È così che mi vedi? Un contrasto di dolce e amaro?»

«Forse». Mi pungolò con una gomitata. «Dai, dimmi che ne pensi».

Finimmo il gelato in una decina di minuti. Ero a mio agio con Rosalie. Non mi faceva pesare la mia lentezza, mi distraeva con le chiacchiere e, quando dichiarai di non volerne più, non mi fece alcuna pressione.

«Avevi ragione» dichiarai, alzandomi dalla panchina. «Credo di adorare il cioccolato fondente».

Rosalie gettò la coppetta nel bidone. «Non avevo dubbi».

Mi avvicinai e le passai il pollice sull'angolo della bocca, pulendole una macchiolina scura. «Facciamo qualcosa di folle?»

Lei deglutì. «Cosa intendi?»

«Non lo so. Qualcosa di stupido. Potremmo prendere la mia auto e andare a tutta velocità». Le depositai un bacio sul collo, sfiorandole a malapena la pelle con le labbra. «Le macchine sono la tua passione, no?»

«Sì, faccio anche delle gare clandestine. Ma magari rimandiamo tutto a quando sarai sobrio». Rosalie mi accarezzò i capelli, trattenendo un gemito. Si ritrasse, con le guance paonazze per l'eccitazione. «Andiamo a casa mia. Non mi fido a farti tornare da solo».

«Provi a sedurmi da mesi e questa è già la seconda volta che mi rifiuti» feci notare in tono divertito.

«Sono scioccata quanto te».

Giunti al palazzo, prendemmo l'ascensore e la accompagnai fino all'attico, sorvegliato dalle solite guardie. Nell'istante in cui varcai la soglia, mi accorsi che c'era qualcosa di diverso.

Accennai al pianoforte, posto nell'angolo. «Non dirmi che l'hai comprato apposta per fare colpo su di me».

Rosalie si sfilò il blazer. «Sarebbe romantico o inquietante?»

«Un po' e un po'».

«Era di mio padre. Quindi no, non l'ho comprato apposta per te».

Prima che Rosalie potesse chinarsi, mi inginocchiai davanti a lei e la aiutai a togliere le scarpe con i tacchi. Si sorresse alla mia spalla, mentre le massaggiavo con delicatezza un piede e poi l'altro.

Il suo respiro divenne affannoso. «Suonami qualcosa».

La fissai dal basso con un mezzo sorriso. «Che cosa vorresti, mia signora?»

«Sorprendimi».

Mi tirai su e andai ad accomodarmi sullo sgabello del pianoforte. «Sono arrugginito».

Rosalie si sedette al mio fianco. «Se tu dovessi fare schifo, avrò la gentilezza di non dirtelo».

«Molto carina, grazie».

Scrollai le spalle per sciogliere la tensione dei muscoli e cominciai a suonare. Nonostante fossero anni che non toccavo un pianoforte, le mie dita volteggiavano sui tasti di loro spontanea volontà. Il ritmo era frenetico, una tempesta di note cariche di passione e tormento.

Socchiusi le palpebre. Finalmente mi sentivo in pace. La musica sembrava avere il potere di lenire tutto il dolore che mi portavo dentro.

Per pochi istanti dimenticai le urla della mia madre biologica quando veniva picchiata dal mio patrigno. Dimenticai il suono della frusta che sibilava nell'aria, prima di scavarmi la carne. Dimenticai la sensazione del corpo morente di Kath tra le mie braccia. Dimenticai il terrore asfissiante di non essere in grado di proteggere la mia famiglia, di non essere abbastanza. 

Non ero più un fratello obbligato a fare da padre, né un mostro perseguitato dall'Olympus o un demone con le mani grondanti di sangue. Ero me stesso.

Solo io. Libero.

Aprii gli occhi e incrociai lo sguardo di Rosalie. Era così vicina che il suo fiato mi ardeva sulle guance. «Sono fuori allenamento, scusa».

Rosalie mi sfiorò il mento. Un tremito mi percorse la spina dorsale. «Sei bravissimo, invece. Inizio a pensare che tu sia perfetto. Chi ti ha insegnato a suonare?»

Perfetto. Era buffo. Io avevo l'impressione che non ci fosse nulla di giusto in me. «Il dottor Stone, in comunità. Ci spronava a coltivare un hobby per controllare i nostri istinti. Io ho scelto questo. Anche tu sei capace?»

«A suonare? Sì, certo. Solo che potrei farti desiderare di fracassarti i timpani, pur di non ascoltarmi».

«Tanto guarirei».

«Che sfortuna».

Ridemmo all'unisono. Fissai le sue labbra, e ogni mia singola cellula venne attraversata da una scarica elettrica. Ogni fibra del mio essere voleva baciarla.

Udii il suo cuore che batteva forte. E batteva. E batteva.

Il mio stomaco si contrasse.

Scattai in piedi. «Non posso rimanere, perdonami».

Rosalie mi agguantò per la manica. «Callum!»

Mi divincolai alla sua presa e uscii in fretta e furia dall'appartamento. Mi allontanai di corsa dal palazzo, cercando di mettere più distanza possibile tra me e lei. E la tentazione di ucciderla. Rallentai a un'andatura umana. Una coppia stava venendo nella mia direzione. Ne sentivo i passi in fondo alla strada, i bisbigli sommessi tra di loro. I dintorni erano deserti.

Un ringhio famelico mi scaturì dalla gola, man mano che avanzavano. Non ebbi un attimo di esitazione. Mi avventai con un balzo sulla donna e le spezzai il collo. Mi girai e affondai la mano nel petto dell'uomo, estraendone il cuore con un gesto secco.

Rovesciai il capo all'indietro, mentre le loro anime mi riempivano e placavano i morsi della fame. Sì, era stata una fantastica serata. 

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Angolo Jedi
Prima di condannare Callum, vi ricordo che tutti i De'Ath sono demoni. E, in quanto tali, uccidono per nutrirsi.

Detto ciò, chiedo scusa per il ritardo. Ho un rapporto di amore e odio per questo capitolo. Stiamo entrando nella fase finale della storia e finalmente ho introdotto Keegan in versione psycho (la mia preferita, sì). Ma ho tanti dubbi e ultimamente odio la mia scrittura più del solito.

Comunque grazie a chi continua a credere in me e in questa disastrata famiglia

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