𝕮𝖆𝖕𝖎𝖙𝖔𝖑𝖔 5 (Arya)

"𝔖𝔢 𝔞𝔪𝔦, 𝔭𝔲𝔬𝔦 𝔢𝔰𝔰𝔢𝔯𝔢 𝔣𝔢𝔯𝔦𝔱𝔬.
𝔖𝔢 𝔬𝔡𝔦, 𝔱𝔦 𝔣𝔢𝔯𝔦𝔰𝔠𝔦 𝔡𝔞 𝔰𝔬𝔩𝔬.
𝔖𝔢 𝔭𝔢𝔯𝔡𝔬𝔫𝔦, 𝔥𝔞𝔦 𝔤𝔦𝔞̀ 𝔳𝔦𝔫𝔱𝔬"

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Le sue mani scivolavano sul mio corpo.

Era un tocco deciso ma leggero, quasi un alito di vento ardente sulla pelle, sebbene non ci fosse nulla di delicato nella fermezza con cui mi aveva stracciato il vestito poco fa, in stanza. Anche lui era nudo, l'acqua della doccia che gli grondava sulle spalle larghe e sui capelli di un biondo dorato appiccicati alla fronte.

Quando si staccò dal bacio, ero l'unica dei due a essere senza fiato. Si ritrasse e lo ammirai in tutto il suo splendore: era bellissimo. Non aveva importanza, sapevo che non l'avrei più rivisto, ma non potevo negare che fosse un'opera d'arte.

Rapide goccioline gli correvano sul petto da cui pendeva un ciondolo, per poi insinuarsi tra i solchi degli addominali, scolpiti nonostante il fisico snello, e proseguire la loro caduta. A rapirmi però erano i suoi occhi, infatti stentavo a smettere di fissarli per cercare di capire se stessero brillando davvero o fosse un'illusione dovuta alla sbronza.

La cosa certa era che il blu di quelle iridi fosse strano. Avrei giurato di vedersi muovere qualcosa al loro interno, come delle onde che increspavano un cielo di zaffiri. Forse era soltanto l'eccitazione.

Gli accarezzai il volto e, scendendo, riuscii a malapena a sfiorargli le cicatrici che aveva tutt'attorno alla gola, prima che mi scansasse la mano con un gesto categorico. Non mi avrebbe permesso di toccarle, era chiaro.

«Come te le sei fatte?» chiesi, scansandogli una ciocca fradicia dalla tempia.

La sua risposta fu lapidaria. «Non da solo».

Aggrottai la fronte, ma un indice sulle labbra mi zittì. Il ragazzo abbozzò un sorrisetto e, con mio grande stupore, si inginocchiò proprio in mezzo alle mie gambe...

«Arya!»

Mi riscossi con un sussulto. Ero seduta su uno dei sedili posteriori del vecchio furgone che tre giorni prima avevamo usato per andare alla festa, con la differenza che stavolta alla guida c'era Deena ed eravamo diretti in un posto molto meno divertente. Suo fratello era accanto a lei, gli occhi azzurri fissi sul telefono da sotto la visiera del berretto.

«Che?» replicai confusa.

Al mio fianco Ethan mi guardò interrogativo, ma lo ignorai. Intuiva sempre quando ero turbata o sovrappensiero, anche se dubitavo che immaginasse cosa mi fosse passato per la testa.

O lo speravo, perché sarebbe stato imbarazzante se avesse scoperto che continuavano a tornarmi in mente sprazzi di momenti erotici di quella notte, che invece avrei preferito si perdesse nel dimenticatoio.

Mac si girò verso di me. «Ho detto che ho trovato un articolo sulla vicenda dei De'Ath di sei anni fa, ma non viene menzionato tuo padre».

«Leggilo comunque».

«Okay». Si rimise composto e abbassò lo sguardo sul cellulare, facendo scorrere il testo con il dito man mano che andava avanti. «"Tutti conosciamo le sinistre leggende che aleggiano attorno all'antico castello di Crystal Lake, che si dice essere stato costruito con ossa umane tenute insieme dal sangue. Non ci credete? Eppure la maledizione ha colpito ancora. A non molta distanza dall'ultima tragedia, la famiglia dal nome oscuro piange un'altra terribile perdita: Vivianne De'Ath è deceduta alle prime luci dell'alba, uccisa a colpi di martello dal marito in preda a una cieca follia, che non è estranea ai rami del suo albero genealogico. Perde la vita anche l'uomo con il quale -stando alla ricostruzione dei fatti fornita dalla polizia- il coniuge l'avrebbe sorpresa, dopo essere stato invano portato in ospedale per la grave mutilazione subita"».

Ethan fece un verso sofferente. «Se è ciò che penso, compatisco quel poveretto».

«Sì, beh, anche essere presi a randellate non sembra piacevole» commentai con una smorfia.

«Non saprei. All'impatto dovresti già essere stecchito...»

«La smettete voi due? Che schifo!» Deena rabbrividì, litigando con la leva del cambio che si inceppava sempre. «Qual è l'altra tragedia a cui si riferisce l'articolo? C'è scritto?»

Mac scosse il capo e proseguì la lettura a voce alta: «"Fonti ufficiali confermano che il tribunale ha riconosciuto ad August De'Ath l'infermità mentale, predisponendo il suo internamento in un istituto psichiatrico della Contea di Brown. Ancora ignota la sorte dei figli ormai orfani della coppia"».

«A quanto pare, è stato un caso semplice». Ethan giocherellò con il cerotto che portava sul mento. Ai nostri amici aveva raccontato di essere inciampato, a me invece aveva confessato di essere stato spintonato a terra durante un litigio tra i suoi genitori. «Potrebbe essere per questo che tuo padre non ne ha mai parlato».

«Forse». Mi sporsi in avanti per sbirciare lo schermo al di sopra della spalla di Mac. «L'articolo è datato a maggio. Ricordo che mio padre aveva preso un congedo poco attorno a quel periodo».

«E allora?» obiettò Deena.

Ma neanch'io sapevo cosa potesse significare, probabilmente nulla. Era sempre stata dura per me accettare che un uomo che aveva dedicato la sua intera vita alla giustizia fosse morto per una fatalità, per una coincidenza che l'aveva voluto sulla stessa strada di un ubriaco al volante.

Eppure era così: papà era morto, colui che lo aveva investito era finito in prigione e noi avevamo ricevuto persino una sua lettera di scuse, insieme a un assegno di cinquemila dollari che mia madre non aveva mai riscosso. Nessun mistero, nessuna indagine, nessun motivo. Soltanto un banale incidente.

Mi ributtai all'indietro sul sedile, sospirando. Deena accostò nel parcheggio del nostro liceo, scendemmo e andammo a cercare Layla. Era l'unica di noi a vivere in un altro quartiere, quindi veniva a scuola da sola.

Mentre attraversavamo il cortile, notai che c'era mia sorella. Era seduta sul muretto di mattoni e ascoltava la musica dagli auricolari. La salutai con la mano, ma si limitò a roteare gli occhi e voltarsi dall'altra parte come se non esistessi.

Nonostante i gemelli Maclean si fossero offerti spesso di accompagnarla, Eryn continuava a prendere l'autobus perché non sopportava né me né il mio gruppetto di "sfigati", per citarla.

A volte avevo l'impressione che mi detestasse proprio per il fatto di avere degli amici, il che mi sembrava un controsenso. Se non fosse stata scontrosa con chiunque commetteva il grave errore di respirare, anche lei avrebbe avuto una vita sociale, invece di stare sempre rintanata in camera a guardare Netflix o a badare a Rhys quando la mamma faceva il turno serale.

La sua solitudine era colpa sua, non mia!

Trovammo Layla davanti al suo armadietto. Marocchina di nascita, era una ragazza dalla pelle scura, un paio di grandi occhi neri contornati da lunghe ciglia e dei lineamenti da cui trapelava tutta la sua timidezza. Spesso ci piaceva scherzare definendola la più carina del nostro gruppo e, anche se lo facevamo perché era buffo vederla arrossire mentre cercava in ogni modo di smentirci, in fondo lo pensavamo davvero.

In quel momento stava parlando con un ragazzo magrissimo dai capelli neri che indossava una felpa degli Yankees e aveva un'espressione imbarazzata sul viso. Lo conoscevo di sfuggita; ricordavo solo che si chiamava Luke ed era il fratello minore di Andrew Stevenson, il quale era di gran lunga più popolare grazie agli eventi spericolati che organizzava e al suo talento nel basket.

«Mi dispiace, davvero. Gli dico sempre di stare più attento a chi invita...»

Layla gli fece un sorriso rassicurante. «Tranquillo, magari mi sbaglio. E di sicuro non sei tu che devi scusarti».

Luke annuì, un po' titubante. Era ovvio che avrebbe voluto aggiungere altro, ma al nostro arrivo ammutolì e ci salutò piuttosto timidamente, prima di allontanarsi a capo chino.

«Che ci siamo persi?» chiesi in tono eloquente.

Ethan sfoderò un ghigno. «Quello era un esemplare di chico innamorato».

«Non è vero». Layla si girò di scatto verso l'armadietto, colpendo per sbaglio in faccia Mac con le sue lunghe treccine a rasta. «Questo falso mito che non si possa essere gentili con qualcuno del sesso opposto senza avere una cotta è ridicolo».

Deena mollò una gomitata sia a me che a Ethan, accorgendosi dello sguardo canzonatorio che ci eravamo scambiati. «Finalmente ti sei ripresa, comunque. Stare male così tanto per un goccio d'alcol è strano» commentò scettica.

«Già, lo hanno pensato anche i miei genitori». Layla infilò l'ultimo libro nella cartella e richiuse lo sportello metallico. «Loro non credono che sia stato lo scotch, infatti».

Mi accigliai. «Ti hanno messo dentro qualcosa?»

«Non lo so. Discutevo di questo con Luke».

Ci stavamo già preparando alla ramanzina di Deena in cui ci faceva notare che eravamo un quartetto di incoscienti e che non le davamo mai retta, malgrado avesse ragione nel novantanove percento dei casi. Ma fummo salvati da una mandria di studenti che invase il corridoio in direzione dell'uscita, provocando un fracasso assordante di passi e voci concitate. Procedevano talmente spediti che dovemmo quasi spalmarci contro gli armadietti per non essere travolti.

«Cosa succede?» Layla dovette quasi urlare per sovrastare la confusione generale.

«Boh. Un esodo di massa o una rivolta, io ci sto in entrambe le ipotesi. RIBELLIOOONE!» strillò Ethan, lanciando un ululato alla Tarzan che mi strappò una risata.

Mac lo fissò con l'aria di chi si domandava quale stadio evolutivo avesse saltato, poi si immise nella fiumana di studenti che sciamava fuori dall'edificio. Noi gli andammo subito dietro, con una Deena recalcitrante che ci ripeteva che sarebbe stato meglio fregarsene e andare in aula.

Tanto per cambiare, la ignorammo.

Rimasi di stucco nel constatare che in giardino si era radunata una gigantesca folla... okay, erano al massimo un centinaio, ma in proporzione al numero esiguo di alunni della nostra scuola non erano pochi. E facevano abbastanza casino da poter essere paragonati a un esercito.

Regnava un'atmosfera di eccitata frenesia che sulle prime non compresi, almeno finché non mi accorsi di cosa tutti stessero osservando. Una fantastica Maserati quattro porte, rossa fiammante, si era appena fermata nell'ala riservata ai professori e spiccava tra le altre macchine come un pugno in un occhio.

Accanto c'era una moto, nera e lucida. Non me ne intendevo affatto, ma l'occhiata venerante che le rivolse Ethan mi fece dedurre che doveva essere di una marca di lusso. Io però ero più interessata al ragazzo seduto sulla sella, in particolare alla testa bionda che spuntò dal casco quando lo tolse.

La saliva mi andò di traverso, intanto che il terrore sbocciava dentro di me. Sporgendomi per vedere meglio, calpestai per sbaglio un piede a Mac e andai a sbattere contro qualcuno. Alla fine però riuscii a balzare su una panchina e mi calmai all'istante.

Nel profondo ero certa che non potesse essere lui, era troppo grande per frequentare ancora il liceo, ma una possibilità anche remota era bastata a mandarmi nel panico. Invece no.

Il ragazzo sulla moto aveva capelli chiari ma di una tonalità più scura, molto arruffati, e un fisico più sottile. Non ero abbastanza vicina per distinguere con precisione i dettagli del suo volto, ma il brusio che pervase la componente femminile della calca mi fece intuire che dovesse essere carino.

«Cazzo, mi sa che questo è il circo. Abbiamo sbagliato» esclamò all'improvviso, facendo piombare un silenzio inquietante.

Il motore della Maserati si spense. Dal posto del conducente uscì un Remiel pallido e visibilmente nervoso, e riecheggiò un altro mormorio che mi infastidì: cominciavo a dubitare che l'attrazione principale fosse ancora l'auto.

Anche il lato del passeggero si aprì e fu il turno degli ormoni maschili di ballare. La ragazza si accarezzò la chioma dorata, agitata dal vento, guardando in giro con fare così disinvolto che ebbi l'impressione che non si fosse nemmeno resa conto della gente assiepata attorno.

«Cavolo, ci siamo davvero sbagliati...»

«L'ho già detto io, Barbie» commentò il ragazzo, saltando giù dalla moto.

Lei lo folgorò con un'occhiataccia. «No, idiota. Questo è il parcheggio degli insegnanti».

Un altro dei loro fratelli spuntò inciampando dalla portiera sulla fiancata, quasi fosse stato spinto a forza. Aveva i capelli color rame brunito e, nel momento in cui vide di essere circondato da una moltitudine di estranei, parve sul punto di tornare indietro... o di svenire.

Poi saltellò fuori pimpante un ragazzo riccio e muscoloso che riconobbi con facilità, soprattutto per il suo stile eccentrico; indossava un pull lilla con cuori rossi e una gonna di pelle nera lunga fino a metà dei polpacci. Che fosse per l'abbigliamento o per il bell'aspetto, la sua vista destò un acceso chiacchiericcio.

E infine toccò all'ultimo. Il biondo ghiaccio di cui era tinto risaltava in contrasto con i vestiti scuri che indossava, bomber e jeans strappati. Era di corporatura atletica, non particolarmente robusto, ma abbastanza alto da essere il tipo con cui non si vorrebbe litigare.

A differenza del resto della famiglia, si incamminò senza la minima esitazione verso l'ingresso con le mani infilate nelle tasche e delle grosse cuffie sulle orecchie.

«Alexander!» lo chiamò la sorella.

Lui non si girò neppure. Man mano che avanzava, la folla si affrettava a diradarsi per lasciarlo passare, percorsa da un mormorio sempre più intenso. Anche perché, a giudicare dalla decisione con cui camminava diritto, se qualcuno non si fosse spostato era probabile che sarebbe direttamente andato a schiantarglisi contro, piuttosto che schivarlo.

Quando mi sfrecciò accanto, dardeggiò lo sguardo su di me per un attimo e mi sentii gelare il sangue nelle vene.

E no, non in senso metaforico: i suoi occhi, di un innaturale azzurro quasi trasparente -dovevano essere delle lenti, o soffriva di una qualche patologia, non potevano esistere occhi del genere-, erano così freddi che al confronto l'Antartide somigliava a un'oasi tropicale.

Scesi dalla panchina, incapace di smettere di fissare il punto in cui era sparito il misterioso ragazzo dalle iridi glaciali. Ero piuttosto sicura che non avrei trovato il coraggio di rivolgergli la parola neanche se fosse stata questione di vita o di morte.

«Voglio un De'Ath» sentenziò Eleanor poco distante, con la disinvoltura di chi ordinava da mangiare su Just Eat.

Mac fece un verso sarcastico. «E la tua regola di sopravvivenza? Non dicevi che erano psicopatici?»

«Sì, beh, era prima di vederli».

Prima ancora dell'inizio delle lezioni, la voce si era già diffusa in tutto l'istituto: i De'Ath erano ufficialmente tornati a Notturn Hall.

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