𝕮𝖆𝖕𝖎𝖙𝖔𝖑𝖔 46 (Callum)

"𝔄 𝔳𝔬𝔩𝔱𝔢 𝔪𝔦 𝔪𝔞𝔫𝔠𝔥𝔦 𝔠𝔬𝔰𝔦 𝔱𝔞𝔫𝔱𝔬
𝔠𝔥𝔢 𝔠𝔯𝔢𝔡𝔬 𝔡𝔦 𝔫𝔬𝔫 𝔣𝔞𝔯𝔠𝔢𝔩𝔞.
𝔓𝔬𝔦 𝔠𝔢 𝔩𝔞 𝔣𝔞𝔠𝔠𝔦𝔬, 𝔭𝔢𝔯𝔬̀ 𝔪𝔦
𝔪𝔞𝔫𝔠𝔥𝔦 𝔩𝔬 𝔰𝔱𝔢𝔰𝔰𝔬"

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Con la fronte premuta contro il finestrino, osservavo il mondo dall'alto. Le nuvole erano così vicine che avrei voluto abbassare il vetro e allungare il braccio per toccarle. Il cielo era azzurro, non grigio piombo come ero abituato a vederlo. Un bell'azzurro limpido, con una strisciolina rosata all'orizzonte.

Per Kath era un segno che la nostra vita stava cambiando. La pioggia era passata e adesso avrebbe iniziato a splendere il sole. Per me significava solo che avevamo lasciato Londra, ma la assecondavo comunque. Se avesse creduto negli unicorni, avrei anche detto di averne visto uno pur di farla contenta.

«Cal! Guarda, Cal!» gridò mia sorella, strattonandomi la manica.

Mi voltai. Le mie labbra si piegarono all'insù, quando vidi l'enorme manciata di caramelle gommose che teneva raccolte nel ripiego della maglietta. Sentii l'acquolina in fondo alla gola. Il nostro patrigno non ci comprava mai niente di buono.

Me ne concessi una, la scartai e la misi in bocca. Fragola. Era buonissima. «Le altre sono tutte tue. A me non vanno molto».

Lei si mordicchiò il labbro, indecisa. «Sicuro sicuro?»

Annuii. Kath fece una risatina e pescò una caramella dal mucchio sul suo grembo, agitando le gambette che sporgevano di poco giù dal sedile. Il suo viso era raggiante di felicità.

Mi si strinse il cuore e lanciai un'occhiata alla nostra nuova mamma, seduta a un tavolino dall'altra parte dell'aereo privato a bordo del quale eravamo. Ci aveva adottati, anche piuttosto in fretta, eppure non sembrava davvero interessata a noi. A malapena sapeva come ci chiamavamo probabilmente.

Lucius si accostò alla mia gemella. «Non esagerare, mi raccomando, o ti faranno male al pancino» le disse, dandole un buffetto affettuoso sulla guancia. Era un gesto innocuo, ma mi fece scattare in allerta. Non mi fidavo della sua gentilezza. «Tu stai bene, piccolo? Serve qualcosa?»

Mi accorsi con un istante di ritardo che si stava rivolgendo a me. Scossi il capo, fissandolo con diffidenza. Lucius mi fece l'occhiolino e si allontanò. Lo seguii con lo sguardo mentre prendeva posto vicino alla donna, che era talmente immersa nel suo lavoro da non badarci nemmeno. Le prese una ciocca di capelli sfuggita dalla crocchia e le stuzzicò il naso per infastidirla.

Kath si girò verso di me, ciucciando una caramella al limone. «È simpatico, vero?»

«Non mi piace» sbuffai.

«A te non piace mai nessuno». Mi lanciò addosso una carta appallottolata. «Non sono tutti cattivi, Cal».

Scrollai le spalle e tornai a guardare fuori dal finestrino. Si sbagliava di grosso. Dopo qualche secondo, la sentii picchiettarmi un dito sul gomito. «Cal?» sussurrò con una vocina esitante.

«Mmh?» mugolai distrattamente.

«Adesso avremo una casa, giusto? Una casa vera».

Ruotai il capo e i miei occhi grigi si incatenarono ai suoi, così pieni di speranza. Erano dello stesso colore, ma quelli di Kath erano più dolci. Più innocenti. Lei vedeva il bene, io il male. Lei ammirava la luce dell'alba, io le tenebre del tramonto. Ci completavamo a vicenda, per quello eravamo nati insieme.

«Sì, Kath» risposi, raddrizzandole la spilla tra i capelli. «Abbiamo una casa».

Era una bugia, in qualche modo ne ero certo. Una bugia che però la fece sorridere, gonfiandomi il cuore, quindi non me ne pentii. Avevo giurato a me stesso che avrei protetto il suo sorriso fino al mio ultimo respiro ed ero intenzionato a farlo. Ma non ci sarei riuscito.

Di lì a pochi giorni, i nostri nomi sarebbero diventati numeri.

Di lì a poche settimane, da bambini saremmo stati trasformati in demoni.

Di lì a pochi mesi, esperimenti e punizioni sarebbero stati la nostra quotidianità.

Di lì a pochi anni, ci avrebbero toccati a loro piacimento un'infinità di volte.

Ma avremmo anche trovato i nostri fratelli, la nostra famiglia. E, sebbene non ne avessimo mai parlato, io e la mia gemella concordavamo su una cosa: avremmo accettato di rivivere tutto daccapo, senza cambiare una virgola. Per loro.

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Crollai in ginocchio, la mano sanguinante stretta al petto. O ciò che ne restava, dopo aver tartassato di pugni il muro nel punto in cui avevo già scavato un solco. Forse, una volta ripulito, nessuno si sarebbe accorto che era diventato ancora più profondo.

Socchiusi le palpebre, ansimante. Atroci crampi di dolore mi si arrampicavano per tutto il braccio fino alla spalla. Li accolsi come una boccata d'aria fresca in una giornata cocente, mentre mi offuscavano la mente e scacciavano via i ricordi che lottavano per riemergere.

La voce di Kath mi si annidava nel cervello."Smettila di punirti, Cal. Non è colpa tua. Non vorrei mai che ti facessi del male".

Mi piegai in avanti e sbattei la fronte contro la parete, desiderando di strapparmi i timpani per smettere di udirla. Erano bugie. Avrei dovuto esserci io, al suo posto. Ero pronto. Quando le avevo promesso che non sarebbe morto nessuno, intendevo nessuno di loro.

Una morsa soffocante mi serrava la gola, tanto che il respiro mi usciva in rantoli brevi e strozzati. «Torna da me» riuscii a sussurrare con voce rauca. «Non ce la faccio da solo. È troppo. Torna da me, ti prego».

Il suo sorriso dolce mi balenò davanti agli occhi chiusi. "Non sei da solo"

Sì, invece. Lo ero. E avevo paura. Il terrore di fallire di nuovo, di commettere un altro errore che poteva costare la vita a uno dei miei fratelli mi stava dilaniando. Ma nessuno lo vedeva, nessuno doveva vederlo. Lei era l'unica con cui potevo crollare e se n'era andata.

Qualcuno picchiettò contro la porta. «Callum?»

Mi rizzai di scatto, girandomi con un movimento così brusco da farmi dolere il collo. Arya era ferma sulla soglia della palestra, un misto di stupore e di compassione nello sguardo. Nascosi la mano maciullata dietro la schiena e mi tirai in piedi a fatica.

Non c'era nessuna somiglianza fisica, eppure in quei giorni mi capitava di rivedere spesso Kath in lei. Forse per il modo in cui stava aiutando i miei fratelli a superare il lutto, o magari per quella bontà innata che entrambe possedevano e che la mia gemella era riuscita a preservare malgrado la nostra natura.

«I miei amici stanno andando via. Avevi detto che volevi parlarci» mi rammentò Arya con un sorriso incerto.

Annuii, cercando di riprendere fiato. Mi ero scordato della piccola riunione di famiglia che avevo programmato. In un gesto meccanico tentai di pettinarmi i capelli, solo per ricordarmi che erano ancora troppo corti. Speravo che mi ricrescessero presto, perché quel taglio era orribile. Inoltre, mi ricordava troppo la mia infanzia da cavia.

«Arrivo tra una decina di minuti». Provai un moto di rabbia per il tremolio tradito dalla mia voce.

Arya fece per uscire. Si bloccò con le dita appese alla maniglia e mi scoccò un'occhiata. Mi sforzai di rimanere dritto, nonostante mi sentissi le gambe molli come gelatina e una cappa di stanchezza mi fosse piombata addosso, segno che i miei poteri mi stavano rigenerando. «Scusa, non voglio farmi gli affari tuoi, ma sei sicuro di stare bene?»

Mi limitai a rispondere con un mugolio d'assenso. Se avessi aperto la bocca, non ero certo che sarei riuscito a trattenere il pianto che minacciava di assalirmi. Erano giorni che lo respingevo e ogni volta tornava con maggior prepotenza nei momenti meno opportuni, rischiando di farmi apparire un completo idiota.

Gli occhi verdi di Arya mi scrutarono per un istante, poi indugiarono sulle crepe nel marmo da cui colavano gocce vermiglie e infine tornarono su di me. Un lampo di comprensione le guizzò sul viso.

Uno spasmo lancinante mi fece contrarre i muscoli del braccio. Mantenni un'espressione impassibile e mi lasciai cadere sulla panca, ricurvo in avanti. A capo chino, rimasi a fissare il pavimento con la vista annebbiata. Sentii il cigolio della porta, seguito da dei passi che si avvicinavano, lenti e cauti. Fiutai nell'aria il suo odore, un inebriante miscuglio di demone e umano al quale si mescolava quello del timore che le incutevo.

Ma non ci badai. Ormai ero abituato alla mia totale incapacità di relazionarmi con chiunque. Era una delle tante cose in cui io e Kath ci compensavamo a vicenda. Due metà perfette come le facce della luna, ecco cosa eravamo: una buia e tetra, l'altra allegra e splendente.

Arya si sedette al mio fianco. «Devo chiamare qualcuno? Nicholas?»

Il terrore mi invase al solo pensiero che i miei fratelli mi trovassero in quello stato pietoso. «No, per favore» replicai in tono implorante, sollevando la testa. «P-puoi non dirlo a nessuno?»

«Io...» Esitante, Arya sbirciò il moncherino di carne, nervi e ossa rotte che spuntava dal mio polso. Distolse subito lo sguardo, impallidita. «Dipende. Hai intenzione di rifarlo?»

Tacqui. Anche se sapevo qual era la risposta che si aspettava, non volevo mentirle.

Sussultai per la sorpresa, quando Arya scivolò accanto a me. Adesso le nostre ginocchia si sfioravano. «Callum, ti stai facendo del male. Non posso fare finta di niente».

Aggrottai la fronte. «Perché no? Tanto guarisco». Prima che possa interrompermi, aggiunsi con una scrollata di spalle: «E mi fa stare meglio».

«Il dolore non si cura col dolore». Arya posò la mano sul mio gomito; malgrado fosse un tocco rassicurante, mi irrigidii sul posto. Doveva essersene accorta, perché con mio sollievo si affrettò ad annullare qualsiasi contatto fisico tra di noi. «Non pensi che i tuoi fratelli vorrebbero saperlo?»

Scossi con foga la testa. Non posso essere debole davanti a loro, avrei voluto spiegarle, ma non riuscii a proferire neanche una parola. Cominciai a flettere le dita della mano sana per il nervosismo, intanto che osservavo quelle dell'altra -contorte e spezzate- risanarsi lentamente con una serie di schiocchi raccapriccianti.

Ma Arya parve leggermi nel pensiero, in un modo che credevo solo Nicholas fosse in grado di fare. Si abbassò per portare il viso alla mia altezza e il sorriso tenero che mi rivolse era così simile a quello di Kath che le lacrime ripresero a bruciarmi tra le palpebre. «Tutti abbiamo il diritto di soffrire, Callum. Non significa essere deboli, e se anche fosse non c'è niente di sbagliato nell'esserlo ogni tanto. La vera forza non sta nel non cadere, ma nel provare a rialzarsi e a volte persino ammettere di non riuscirci da soli. I tuoi fratelli tengono a te quanto tu tieni a loro, quindi perché non gli permetti di aiutarti?»

Esalai un sospiro profondo, presi un lembo della maglietta e mi asciugai il sudore che mi imperlava il viso. Odiavo mostrarmi vulnerabile. «Sai, per quanto assurdo, mi risulta quasi più facile aprirmi con qualcuno come te che con loro».

«Come me?» ripeté confusa.

Mi strinsi nelle spalle. «Sì, insomma, mi conosci a malapena. Non ti importa di me. Non hai aspettative che io possa deludere».

«Non riusciresti a deluderli nemmeno se ti ci mettessi d'impegno, Callum. Ti vogliono bene, anzi di più. Ti ammirano. Questo perché sei un ottimo fratello maggiore, che sta facendo del suo meglio per proteggere una pazza famiglia di scatenati demoni adolescenti».

Mi lasciai sfuggire uno sbuffo divertito, poi storsi il naso. Era ovvio che il mio meglio non fosse sufficiente, altrimenti mia sorella sarebbe stata ancora viva. Non lo dissi, però. Non volevo darle ancora di più l'impressione di piangermi addosso. Dovevo già sembrarle parecchio patetico.

Con mia grande sorpresa Arya mi diede una spintarella e la guardai corrucciato. Un vago rossore le affiorò sulle guance e si ritrasse un poco. «Perché?» chiesi perplesso.

Gonfiò il petto, impettita. «Non è vero che non mi importa di te. Mi fai solo un po' paura, ma quello è per colpa tua».

Arcuai un sopracciglio. «Mia? Che ho fatto?»

«Niente. Ma dovresti provare a essere un tantino», posizionò il pollice e l'indice uno sopra l'altro con un minuscolo spazio nel mezzo, «meno inquietante. Senza offesa».

Mi morsi la lingua per impedirmi di protestare. Sarebbe stato infantile. «Vedrò che posso fare. Adesso vai dagli altri. Mi do una sistemata e arrivo». Ci alzammo. Attesi che Arya fosse uscita dalla palestra e, mentre mi dirigevo verso lo spogliatoio, mugolai sottovoce: «Io non sono inquietante».

Dopo essermi accertato che gli specchi fossero coperti, mi costrinsi a spogliarmi e feci una doccia rapidissima. Tenni gli occhi chiusi tutto il tempo, evitando il più possibile di toccare le disgustose cicatrici che mi sfregiavano il corpo. Non c'era centimetro della mia pelle che non avrei voluto strapparmi di dosso per sostituirla con una nuova, liscia e intatta. Pura.

Vestito con un completo scuro, mi affrettai a raggiungere i miei fratelli radunati per la cena. Dal corridoio sentii delle grida famigliari rimbombare contro le pareti e dedussi che era già scoppiato un litigio. Emisi uno sbuffo esausto. La mia mano era guarita, ma la rigenerazione aveva prosciugato ciò che restava della riserva di anime che avevo assorbito nella cappella. E ora dovevo anche sorbirmi i capricci dei bambini.

Sconsolato, feci il mio ingresso nella sala da pranzo.

«... un De'Ath appiccicato al culo ventiquattr'ore su ventiquattro, visto che siete incapaci di stare lontani dai casini per più di cinque minuti» stava sbraitando Nicholas a squarciagola. Era in piedi, la sedia ribaltata all'indietro sul pavimento.

Arya si alzò di scatto dall'altra parte del tavolo. «Scusa tanto, sarebbe colpa mia se il vostro padre pazzo mi ha rapita?»

«No, ma è colpa tua che te ne andavi a spasso da sola al buio». Nicholas si fermò e le scoccò uno sguardo infuriato. «Che diavolo dovevi fare?»

«Non sono affari tuoi!»

«Il mostriciattolo che hai nella pancia è mio per metà, quindi...»

Arya gettò le braccia all'aria, esasperata. «E da quando da te ne fregherebbe qualcosa?»

«Ti ho salvata. Due volte. Che altro devo fare?» sbottò Nicholas. Nessuno, a parte me, avrebbe mai potuto cogliere la nota disperata nascosta dalla rabbia.

«Sarebbe carino se non ti ricordassi che sono incinta di tuo figlio solo quando rischio di morire». La voce di Arya era pregna di sarcasmo.

Okay. Ne avevo abbastanza. «Volete smetterla?» Battei le mani per riportare la calma. «Non ci credo. State per diventare genitori e vi comportate come se aveste quattro anni in due».

Nicholas puntò il dito verso Arya, imbronciato. «Ha cominciato lei!»

«Non è vero! Sei tu quello che continua ad abbaiarmi ordini!»

«Chi vuole delle patate?» Tutti gli sguardi si puntarono su Gabriel, che si stava riempiendo il piatto di patate lesse. Si bloccò col cucchiaio a mezz'aria. «Era per sapere se potevo finirle».

Joel ridacchiò. «Mammina e papino, potete riprendere a scannarvi? Mi sto divertendo un mondo».

Mi avvicinai a Nicholas prima che lo aggredisse, tirai su la sedia da terra e lo afferrai per le spalle per spingercelo sopra. «Mi spiegate il motivo della discussione? Con calma».

«Nik ha proposto, con la sua solita incredibile gentilezza, che uno di noi a turno faccia da guardia del corpo agli umani della famiglia». Sky rivolse un sorrisetto sardonico al diretto interessato, che mugugnò sonoramente. Era l'unica dei presenti alla quale non avrebbe mai urlato contro, a prescindere dalle sue provocazioni.

Gabriel infilzò una patata. «A proposito, che fine ha fatto Seth? Si è tolto dal gruppo di famiglia e non risponde ai miei messaggi. Stiamo cercando un posto in cui fare le prove della band».

«Potremmo usare il garage di Mac» suggerì Ethan, con la bocca ancora piena di polpette.

«Banderas, ti dispiacerebbe non sputarmi in faccia? Che schifo». Joel si ripulì dagli schizzi di sugo e gli gettò addosso il tovagliolo appallottolato. «Qualcuno ha capito perché Pocahontas ha scaricato Nik?»

Nicholas emise un verso gutturale. «Fatti i cazzi tuoi. E comunque l'ho scaricato io».

«Impossibile. Sei troppo sottone».

«A Septimus ci penseremo» tagliai corto, occupando il posto a capotavola. «So che ha trovato un lavoro al Coin e Will lo tiene d'occhio per conto mio. Se dovesse accadergli qualcosa, ce lo riferirà».

«Seth» farfugliò Nicholas.

Riluttante, Arya tornò a sedersi tra Ethan e Remiel. «Non voglio nessuna guardia del corpo. Apprezzo che vi preoccupiate, ma non passerò il resto della gravidanza sotto una campana di vetro».

Alexander scrollò le spalle. «Perché non le diamo i mezzi per proteggersi da sola? Sa sparare, a quanto mi risulta».

«Ecco, questo sì che è un ottimo consiglio. Datemi una pistola».

Ethan si illuminò d'entusiasmo. «Posso averne una anch'io, chicos

«Anche se i suoi modi fanno schifo, io sono d'accordo con Nicholas». Remiel lanciò un'occhiata mortificata ad Arya, che aveva spalancato la bocca per lo stupore. «Mi dispiace. Ma fino a che sarai incinta, sei un bersaglio. August è morto, ma abbiamo tanti altri nemici che potrebbero prendersela con te. La tua sicurezza viene prima di tutto».

Un lampo infastidito balenò sul viso di Arya. «Tanto vale che mi rinchiudete in una torre a fare la damigella in pericolo, allora».

Le labbra di Nicholas si incresparono all'insù. «Pensavo più a una cella, ma anche una torre mi va bene».

Soppesai la questione per un lungo momento, i gomiti sui braccioli e le dita intrecciate. «Puoi avere un'arma e non ti sarà imposta nessuna scorta».

Sollevai l'indice per zittire le lamentele di Nicholas. A giudicare dalla facilità con cui desistette, doveva aver intuito che avevo già preso provvedimenti. Mi appuntai di dirgli che, dal giorno del funerale, avevo messo un localizzatore nel telefono di Arya per poterla sempre rintracciare. «Ma ritengo che sarebbe meglio che ti trasferissi qui».

Nella sala piombò il silenzio assoluto. Che durò una frazione di secondo, perché a Gabriel andò di traverso un boccone e prese a tossire gesticolando all'impazzata. Isaac gli allungò un bicchiere d'acqua e lui la ingurgitò tutto d'un fiato, così rapidamente che dei rigagnoli gli colarono dal mento e bagnarono la tovaglia di pizzo.

Arya impallidì. «Trasferirmi?»

«Con la tua famiglia naturalmente» precisai.

«VIENE ANCHE IL LORO CAGNOLONE?» strillò Gabriel entusiasta, battendosi il pugno contro il petto per smettere di tossire.

Ethan sgranò gli occhi nocciola. «Io accetto. Voglio vivere con Sky. Cioè, con voi».

Sky proruppe in una risatina e gli ammiccò, facendolo avvampare. Sbuffai. Forse avrei dovuto escluderlo dall'invito.

Adocchiai Nicholas in attesa di una sceneggiata e venni colto alla sprovvista dall'espressione spaventata che gli si era dipinta sul volto. «Assolutamente no» esclamò, alzandosi di scatto. «C'è un limite massimo al numero di marmocchi ammessi in questa casa ed è nessuno». Esitò, poi fece un gesto sbrigativo verso la pancia di Arya. «Okay, mezzo».

Joel, che si stava sbellicando dalle risate, smise di colpo e un brillio si accese nelle sue iridi eterocrome. «Assolutamente sì. Se non abbiamo abbastanza spazio, la sua sorellina può dormire nella mia camera».

«Vuoi essere strangolato nel sonno?» chiese Arya accigliata.

Sky abbozzò un sorriso mesto. «Non sarebbe male avere altre ragazze in casa».

«Abbiamo quattro camere degli ospiti esclusa quella di Seth, più quelle dei nostri genitori, di Lucius e lo stanzino della governante. Direi che lo spazio non ci manca». Agguantai Nicholas per il polso e lo obbligai a rimettersi sulla sedia. «Volevi che fosse al sicuro, no? Accontentato».

Lui mi fulminò con lo sguardo. «Non ho nessuna intenzione di sopportare quel mostriciattolo urlante...»

«E dài, fratellone!» Gabriel gli diede una pacca incoraggiante. «Guarda il lato positivo. Potrai fare pratica con il piccolo Black».

«Pratica per cosa? Mettermi i tappi alle orecchie?»

Joel sogghignò. «A fare il papà».

Nicholas sbiancò, afferrò la bottiglia di vino sulla tavola e iniziò a tracannarne il contenuto.

Approfittai dell'attimo di pace per abbassare lo sguardo sul mio piatto. Sebbene avessi fame, lo stomaco mi si attorcigliò alla vista di tre polpette al sugo, di sicuro cucinate dalla madre di Arya.

Dalla morte di Kath, si era impuntata a portarci da mangiare e veniva spesso al castello con la scusa di fare le pulizie. Dai sorrisi carichi di compassione che ci elargiva, però, avevo l'impressione che ci considerasse degli sfortunati cuccioli orfani colpiti dall'ennesima disgrazia e bisognosi di affetto materno. Mi metteva a disagio, in tutta sincerità.

Arya tossicchiò. «C'è un piccolo problema. Potrei non aver ancora detto a mia madre che sono incinta di un De'Ath. O che sono incinta in generale».

«O che degli scienziati pazzi danno la caccia a tuo figlio» aggiunse Ethan, respingendo all'indietro il ciuffo castano.

Piluccai nel piatto con la forchetta, disponendo le polpette a triangolo, e presi controvoglia un pezzetto di carne. La nausea mi assalì. Più masticavo, più la poltiglia sembrava impastarsi nella mia bocca. Sputarla sarebbe stato poco educato, così riempii il bicchiere d'acqua e ne bevvi un sorso generoso per riuscire a mandarla giù.

Mi pulii le labbra col tovagliolo. «Prenditi pure dei giorni per rifletterci. Comunque, non volevo parlarvi solo di questo». Rovistai nella tasca dei pantaloni e tirai fuori una striscia di carta stropicciata. «Ricordate il biglietto che ci aveva lasciato Lucius, dopo la notte al luna park? La frase in latino?»

Gabriel annuì con foga. «Tanti i padri quanti i figli».

«Qualis pater talis filius. Quale il padre, tale il figlio» lo corresse Isaac.

Arya aggrottò la fronte. «Mi sono persa. Lucius non era morto?»

«Non ancora, purtroppo». Sky si portò una ciocca bionda dietro l'orecchio. «Lo sarà quando lo troveremo».

«Ma Nicholas non gli aveva tagliato...» Ethan indicò in basso, tra le sue gambe.

Joel fece una smorfia sprezzante. «Stiamo ancora cercando di capire se glielo abbiano riattaccato o meno».

«Pensi che abbia un significato?» intervenne Remiel corrucciato, accennando al foglietto.

Prima che potessi replicare, ci fu uno schianto e frammenti di vetro esplosero dappertutto. Nicholas gettò il collo rotto della bottiglia sul tavolo, mentre Arya ed Ethan trascinavano indietro le sedie con uno stridio. «Che vuoi? Era vuota» obiettò, in risposta al mio sguardo di rimprovero.

«Buttare le cose nel bidone è passato di moda?» lo rimbeccò Arya.

Decisi di lasciar perdere. «La stessa frase in latino è riportata anche su una delle lapidi nel mausoleo. Nicholas è convinto che non sia una coincidenza, e sono incline a dargli ragione».

Nicholas sfoderò un ghigno compiaciuto. «Mi piace avere ragione».

Sky prese a ruotare l'anello attorno all'indice, rivolgendosi a me. «Di chi è la tomba?»

«Un certo Jayson De'Ath. Non ho la minima idea di chi sia, però».

Arya trasalì. Era stato un movimento a stento percettibile, ma non mi era sfuggito. Così come notai l'occhiata fugace che si scambiarono lei e Alexander. Fu quest'ultimo a prendere la parola. «Potrebbe essere collegato a quello che aveva detto a Remiel, alla scuola».

«Thyphous. L'aveva definita la chiave per qualcosa». Remiel scosse il capo. «Forse ci sta solo prendendo in giro».

«È un personaggio di Percy Jackson». Ethan si fece passare la ciotola delle patate. Ci guardò dentro e increspò le sopracciglia. «Ma sono finite!»

Gabriel assunse un'aria colpevole. «Io avevo avvisato».

«Sì, viene dalla mitologia. Thyphous». La vocina di Isaac era a stento udibile nella confusione generale. «Secondo una delle versioni era stato generato da Crono per battere Zeus. Una volta nato, è salito sul Monte Olimpo e gli dèi ne furono così terrorizzati da fuggire in Egitto trasformati in animali».

Joel si mise in bocca una polpetta intera. «Mi pare di ricordarmelo, questo mito. Crono non si era masturbato su due uova per crearlo?» Finse di rabbrividire. «Che mondo orribile sarebbe, se si potesse avere figli masturbandosi».

«Chissà quanti ne avresti tu» lo canzonò Sky.

«Di sicuro meno di Nik».

Nicholas incrociò le braccia al petto, indignato. «Io non mi sono mai masturbato. E di certo non lo farei su delle uova».

Arya si massaggiò le tempie. «Okay. Questa conversazione sta prendendo una piega sempre più strana».

Ma avevo smesso di ascoltarli. I pezzi si stavano finalmente incastrando tra di loro. Ripensai all'indovinello che avevamo trovato nel portatile di Vivianne. "Alla mia comparsa, gli dèi non poterono che tremare. Loro che eppure si credevano onnipotenti. Con code, pinne e piume ho fatto scappare".

Thyphous.

Se c'era una chiave, c'era una serratura da aprire. E Lucius ci aveva dato la soluzione anche a questo.

Ignorando i miei fratelli, mi precipitai fuori dalla sala da pranzo e uscii in giardino. Era una serata gelida, il sole già stava calando sotto l'orizzonte rosato. Mi recai verso il mausoleo e attraversai la grotta fino a raggiungere la lapide di Jayson De'Ath.

Un frastuono di passi infranse il silenzio. Nicholas mi venne incontro, seguito dalla famiglia al completo. «Potevi anche aspettarci».

Ethan fece un fischio ammirato, mentre si guardava attorno con la torcia del telefono a fargli luce. «Questo posto è una gran figata».

Arya si avvolse nel giubbotto. «Siccome non siamo tutti immuni al freddo, posso sapere che ci facciamo qui?»

Sky si scrollò la chioma dorata. «Infatti. Sbrighiamoci che l'umidità mi rovina i capelli».

«Dovrei finire di distruggerla, secondo voi?» Nicholas diede un calcetto alla tomba piena di crepe di nostra madre, sfoderando un ghigno. «Perché credo che sia un peccato lasciare l'opera a metà».

Joel si sfregò le mani, eccitato. «Oppure la profaniamo? Così ci accertiamo che quella strega non sia strisciata fuori dall'Inferno».

«Uh, sì! Posso giocare un po' con le ossa?» chiese allegramente Gabriel.

«State zitti» ordinai secco, continuando a girare intorno alla stele di granito. Mi accovacciai sui talloni: stando alle date, Jayson De'Ath era deceduto a quattro anni e mezzo. «Cosa notate di diverso rispetto dalle altre lapidi?»

Gabriel la osservò con attenzione. «È molto pulita».

«Ed è la più grande». Alexander indicò quella di nostra madre, alta quasi due metri. «Esclusa la sua, ma non è una novità. È sempre stata narcisista».

«Già. Chi altro conosciamo così?» Remiel adocchiò Nicholas con fare eloquente.

Quest'ultimo scattò subito sulla difensiva, immusonito. «Io sono sincero, non narcisista. Non è colpa mia se sono stupendo».

Arya si inginocchiò per leggere meglio le incisioni sulla lapide e la sua espressione si rattristò. «Era solo un bambino».

Isaac fece un timido passetto in avanti, si chinò e sfiorò i petali sbriciolati in un vaso alla base della lapide. «Gabe ha ragione, però. Questa tomba ha meno ragnatele delle altre, la candela nella lanterna sembra recente e anche i fiori non possono essere stati portati più di qualche mese fa». Le guance gli erano diventate rosse man mano che parlava, rendendosi conto di essere al centro dell'attenzione.

Concordai con un cenno. Joel rifilò a Gabriel una gomitata al fianco e sghignazzò: «Segnatelo sul calendario, perché non ricapiterà mai più».

«Sul calendario io segno solo le date in cui fare la ceretta».

«Ora che ci penso c'erano dei crisantesimi sulla tomba di nostra madre, quando sono sceso qui la prima volta» rifletté Nicholas pensieroso, piazzandosi dietro di me. «Dovevano esserci già da qualche giorno, ma avevo dato per scontato che fosse stato Remi a metterli».

Remiel lo guardò perplesso. «Perché mai avrei dovuto farlo?»

Nicholas fece spallucce. «Che ne so? Sei sempre stato il suo preferito. E poi sei tu il giardiniere della famiglia».

«Forse Lucius si è nascosto nel castello in questi sei anni, finché siamo arrivati noi e ha dovuto lasciarlo». Alexander accarezzò in rilievo il nome di Jayson. Un'ombra gli guizzò sul viso. «È morto un anno prima della nascita di Nicholas, e all'incirca alla stessa età in cui siamo stati trasformati noi. Potrebbe essere stato il primo su cui hanno sperimentato la mutazione».

«Seriamente, ma quanti cugini avete? È assurdo» esclamò Ethan sbalordito.

«In realtà, non credo che fosse Lucius a far visita al mausoleo». Iniziai a tastare la lastra di granito, esercitando una leggera pressione con le dita. «Linda, la madre di Arya, mi aveva detto che la signora Wurstel ha continuato a prendersi cura del castello anche dopo che lo avevamo abbandonato, poi si è ammalata di demenza senile e ha smesso. In uno dei post-it che ho trovato a casa sua, c'era scritto che aveva portato Alfa nel suo scantinato, perciò prima doveva essere da un'altra parte».

Un click improvviso riecheggiò nella grotta. Avevo premuto per caso un bozzo sotto l'ala del corvo di pietra, appollaiato sulla lapide, e questo si era schiacciato come se fosse stato un bottone.

Ci fu uno scatto metallico e l'imponente lastra scivolò di lato, quasi stesse scorrendo su dei cardini. Arretrai d'istinto e finii per scontrarmi con Nicholas. Isaac balzò in piedi incespicando, mentre Alexander si spostava davanti ad Arya con un atteggiamento protettivo.

Un piccolo monitor lampeggiò, installato nel terreno dove prima si trovava lo stele. Era richiesta una password di otto lettere. Lanciai un'occhiata ai miei fratelli, tutti troppo tesi e incuriositi per fiatare, poi digitai il codice sul tastierino accanto allo schermo: Thyphous.

Il buio della caverna venne rischiarato da un luminoso fascio verde. Un riquadro comparve nella roccia, come se il pavimento si stesse spaccando, e si dischiuse a mo' di botola. La spalancai e vidi una scalinata che si perdeva nell'oscurità, ma la mia vista si adattò subito e scorsi la massiccia porta di metallo sul fondo.

Ethan deglutì rumorosamente. «Sono l'unico che se la sta facendo un pochino sotto?»

Gabriel si toccò la patta dei pantaloni. «Per ora tutto okay» gli bisbigliò all'orecchio.

«Sembra di essere in un film di Indiana Jones». Arya si sporse da sopra la spalla di Alexander, che le faceva ancora da scudo. «Che diavolo è?»

Appena mi accorsi che Nicholas stava per avanzare, allungai il braccio per fermarlo. «Vado prima io».

«Perché sempre prima tu?» si lamentò lui.

Joel si scompigliò i capelli. «Tanto se muori, veniamo comunque giù per capire cosa ti ha ammazzato».

Roteai gli occhi. «D'accordo, ma niente umani».

«Non è giusto!» protestò Ethan.

Un altro bambino. Proprio quello che mi ci voleva.

Presi a scendere i gradini e, giunto sul fondo, abbassai la maniglia. Un piccolo bip mi suggerì che dovesse esserci un qualche meccanismo di riconoscimento, magari digitale. Mi scansai e feci un cenno a Nicholas, fermo dietro di me. «Divertiti pure».

Nicholas fece un sorriso compiaciuto e sfondò la serratura con una ginocchiata. Adorava rompere le cose. Lo afferrai per il cappuccio della felpa e lo spinsi indietro in modo da varcare la soglia per primo. Le luci si accesero con un ronzio. Mi ritrovai in una stanza quadrata piena di macchinari e schermi spenti, con fili elettrici che si diramavano in tutte le direzioni e vetrinette addossate ai muri bianchi.

Al centro c'era un tavolo molto simile a quello di una sala operatoria, solo che al posto di un paziente sopra era adagiata una grossa cassa. Anzi, sembrava una bara dall'aspetto piuttosto antico.

Era realizzata in oricalco, dorata con venature rossastre sbiadite dal tempo, rafforzata da catene così arrugginite che a sfiorarle si sarebbero potute sgretolare. Sul coperchio, incrostato di sporcizia e terra secca, era a stento riconoscibile il simbolo della nostra famiglia, il corvo sul teschio. Non avevo bisogno di aprirla per sapere che non conteneva niente.

«Quindi nostra madre aveva un piccolo laboratorio segreto». Il tono di Nicholas suonava disinteressato. «Prevedibile».

Joel si avvicinò a un microscopio e soffiò via lo strato di polvere sulla lente. «Perché non ci ha mai portati qui, secondo voi?»

Entrarono anche Alexander e Sky. Gli altri dovevano essere rimasti di sopra, con Arya ed Ethan, in attesa del via libera.

«Bleah» commentò mia sorella, indicando le ampolle esposte nelle vetrinette. Racchiudevano di tutto, da liquidi densi e melmosi di colori disgustosi a interiora di animali o bulbi oculari.

Il mio sguardo venne attirato da una porta, contrassegnata da una lettera in ottone: α.

Schioccai le dita per richiamare i miei fratelli e la spinsi in avanti, entrando nella cella più bizzarra che avessi mai visto. E ci ero cresciuto, in una cella.

Sulle pareti azzurre erano dipinte nuvole e arcobaleni, sebbene in alcuni punti la vernice fosse stata raschiata via da profondi segni d'artigli. La testiera del lettino era di un vivace arancione e le lenzuola, lacerate e strappate, avevano delle stampe di orsacchiotti. Il pavimento era invaso dai giocattoli, anche se la maggior parte erano sventrati e l'imbottitura fuoriusciva dagli strappi. Su un tavolino di plastica erano sparpagliati dei pastelli a cera e dei cartoncini con degli scarabocchi informi.

Joel increspò le sopracciglia. «Ehi, dove sono le catene?»

«Sì, le nostre celle non erano così carine!» obiettò Sky indignata.

Nicholas seguì con l'indice una lunga incisione che rigava la fiancata della libreria, poi scoprì la cicatrice sul suo avambraccio e arricciò il naso. «Anche la nostra mammina faceva le preferenze, a quanto pare».

«Non credo che sia una cella». Stranito, osservai le cornici disposte sui ripiani. In alcune c'erano Lucius e Vivianne, ma in tutte era presente un bimbo con gli occhi blu incavati e un cranio schiacciato su cui spuntavano dei ciuffi castani. «È una cameretta».

«Alfa non è un gatto, e non è neppure Keegan» sussurrò Alexander, prendendo uno dei fogli sul tavolino. «È Jayson».

Dopo aver riaccompagnato Arya ed Ethan a casa loro, mi recai nel bar in cui mi aveva portato Rosalie al nostro primo incontro.

Volevo un bene infinito ai miei fratelli, erano la mia vita, ma avevo bisogno di qualche minuto di tregua o sarei impazzito. Ignorando le occhiate degli altri clienti, mi buttai sullo sgabello e feci un cenno alla ragazza dietro al bancone.

Lei mi rivolse uno sguardo d'apprezzamento e sorrise. «Che cosa ti porto?»

Di solito evitavo di bere, soprattutto da quando una volta avevo esagerato in una discoteca fin troppo affollata in cui mi avevano trascinato i miei fratelli e avevo perso il controllo. Ma uno dei pochi vantaggi della mia natura era avere un metabolismo veloce, capace di smaltire qualsiasi cosa in brevissimo tempo. Un goccio non mi avrebbe fatto niente.

Le allungai una banconota da cento dollari. «Qualcosa di forte, per favore».

Mi guardai attorno. Le parole di Arya continuavano a risuonarmi in testa, forse perché il suo sembrava il genere di consiglio che avrebbe potuto darmi Kath: parlare con qualcuno.

Il problema era che l'unica persona rimasta con cui mi sentissi libero di essere debole era Nicholas, e al momento stava già soffrendo abbastanza. A prescindere da ciò che gli avevo detto, sapevo che ancora si incolpava per ciò che era successo. E adesso aveva anche litigato con Seth.

No, non potevo pesare su di lui. Era compito mio proteggerlo, non il contrario. Mi sarei arrangiato da solo.

Assaggiai un sorso del mio drink, poi lo vuotai tutto d'un fiato. Feci una smorfia e tossicchiai, mentre mi scendeva in una scia infuocata lungo la gola. Non sapevo che cosa fosse, ma di sicuro era forte. Ne ordinai un altro.

Quando la ragazza me lo porse, il bicchiere sfuggì dalla mia presa e il liquido dilagò sul bancone. Mi accorsi che la mano mi tremava forte. «Scusi» mi affrettai a mormorare, balzando in piedi.

Non udii la sua risposta. Il cuore mi martellava frenetico contro le costole, pompando sangue nelle orecchie. I suoni attorno a me si erano fatti remoti e ovattati, eccetto per la dolorosa consapevolezza dei tanti cuori umani che battevano in un coro scoordinato. La fame, l'altra fame, mi ghermì lo stomaco.

Barcollai verso l'uscita sul retro, rischiando di andare a sbattere contro uno dei camerieri. Una morsa mi serrò la gola e cercai di allargarmi il nodo della cravatta, nonostante i tremiti irrefrenabili la rendessero un'operazione complicata.

Appena fui all'esterno, cominciai a trarre dei respiri profondi, ma i miei polmoni non funzionavano a dovere. Si rifiutavano di riempirsi, come se fossero stati sostituiti con dei palloncini bucati.

«Ehi, amico, tutto bene?» chiese un ragazzo, che era impegnato a sbaciucchiarsi con la fidanzata su una panchina.

Amico. Chi cazzo ti conosce?

Trattenni l'impeto di rabbia e mi allontanai a passi strascicati dalla coppietta, conscio che se fossi rimasto li avrei sbranati entrambi. L'idea era così allettante che, per un istante, fui davvero tentato di tornare indietro. Lo stomaco gorgogliò con maggior insistenza.

Scossi il capo e mi infilai in un vicolo deserto. Ansimante, tirai fuori il flacone dalla tasca della giacca. Mi cadde, dovetti chinarmi per raccoglierlo e lo aprii. Rovesciai nel palmo le ultime tre pillole e le inghiottii una dopo l'altra, ignorando la vocina nel cervello che mi faceva notare che non fosse saggio eccedere con degli ansiolitici potenziati per demoni.

Mi appoggiai al muro, piegato in avanti, con un sudore gelido che mi invadeva la schiena. Dovevo solo aspettare. Immaginai che Nicholas fosse insieme a me a contare, stretti uno all'altro come quando eravamo bambini. «Zero... uno... due...»

Due. Kath.

Il dolore mi esplose nel petto, più che lacerante che mai. Mi mancava. Mi mancava da morire.

Il pianto eruppe con l'irruenza di un fiume in piena e scivolai a terra lungo la parete, i singhiozzi che mi scuotevano convulsamente il corpo. Mi afferrai i capelli e li tirai, solo per ricordarmi di nuovo che me li avevano rasati. Avevo una voglia matta di urlare, ma dovevo risparmiare ossigeno.

Il telefono mi vibrò nei pantaloni. Tremando come una foglia, lo presi e lessi il nome che campeggiava sul display. Rosalie.

Un'ondata di emozioni contrastanti mi invase. Non parlavamo da quando mi aveva tradito e consegnato August. Non le serbavo rancore; sia perché lo avevo previsto, sia perché avrei agito allo stesso modo per salvare uno dei miei fratelli. Ma era stata la scusa perfetta con cui allontanarla.

Le avevo fatto recapitare un assegno con l'ingente somma che avevamo pattuito e avevo tranciato i rapporti, in modo da potermi dedicare esclusivamente alla mia famiglia.

Peccato che finora non fosse stata una strategia molto efficace. Spesso mi ritrovavo comunque a pensare lei, senza nessun motivo. Si insinuava nella mia mente a tradimento, se ne impossessava e allora mi rendevo conto che Kath non era l'unica di cui sentivo la mancanza.

Alla fine, cliccai sull'icona per accettare la chiamata. Mi sarei accontentato del suono della sua voce. «Pezzo di ghiaccio?»

Rimasi in silenzio, il respiro rauco e affannato, le ginocchia sollevate.

«Senti, Callum, so di essere nella tua lista nera al momento, ma credo che...» Si bloccò, e mi tappai la bocca per soffocare l'ennesimo rantolo. «Tutto bene?»

No, non sono mai stato peggio.

Ma non potevo dirglielo. Ero già pronto a riattaccare o a mentire, invece la verità mi uscì dalle labbra contro la mia volontà. «N-non riesco a calmarmi» boccheggiai tra un singulto e l'altro.

Ci fu un solo istante di silenzio. A giudicare dall'assenza della musica e della confusione di sottofondo, dedussi che non si trovava nel suo night club. «Dimmi dove sei».

Mi vidi dall'esterno per un secondo. Rannicchiato in un vicolo, tremante, intento a frignare come un bambino. «No, non voglio che tu mi veda così».

Dall'altra parte provenne un sospiro frustrato. «Sei il genio più stupido che io abbia mai conosciuto. Puoi mettere da parte questo virile orgoglio da idiota e farti aiutare?»

Mi scappò una debole risatina. «Insultarmi è una strana tattica per aiutare».

«Preferivi quando provavo a sedurti?»

«Pensavo che avessi cambiato approccio, in realtà». Mi tirai in piedi, sorreggendomi al muro di mattoni. Una serie di brividi mi colò lungo la colonna vertebrale. «Mi avevi chiamato per qualcosa?»

Lei tentennò. «Niente di importante».

Sfilai il fazzoletto da taschino e mi asciugai il viso bagnato dalle lacrime. Posai la nuca contro i mattoni, il torace che si alzava e si abbassava a ritmo irregolare. «Posso venire da te?»

«Sei troppo sconvolto per fare una battuta, suppongo». Poi il suo tono si ammorbidì e aggiunse: «Certo. Ti aspetto».

Un po' camminando e un po' correndo a rapidità sovrumana, giunsi davanti al suo palazzo. Dovevo avere un aspetto terribile, perché il portiere nella hall mi fissò con una smorfia stranita. Tremavo ancora quando arrancai fuori dall'ascensore e le due solite guardie all'ingresso si rizzarono di scatto. Sembravano piuttosto riluttanti a lasciarmi passare.

«Toccatemi e vi uccido» bofonchiai, continuando ad avanzare. Mi pareva educato avvisare.

«Fatelo entrare». Rosalie era immobile accanto alla porta spalancata, lo sguardo fisso su di me. Indossava una camicetta senza maniche con una generosa scollatura a V e dei jeans aderenti. La chioma castana era raccolta in una treccia. Si scansò di lato. «Prego».

La superai e cominciai a misurare il soggiorno dell'attico a grandi passi, facendo avanti e indietro. Una parete intera era occupata da finestre alte fino al soffitto che offrivano un meraviglioso panorama sul cielo d'inchiostro, trapunto di stelle, in cui vorticavano nubi pallide.

Rosalie richiuse la porta e mi lanciò un'occhiata. «Perché non ti siedi?»

«Non ci riesco». La mia attenzione venne catturata dai modellini d'auto da corsa in una gigantesca teca di vetro. Mi avvicinai e presi ad allinearli uno accanto all'altro. Quando furono tutti perfettamente diritti, provai un senso di appagante soddisfazione. «Molto meglio».

«Sicuro che non vuoi che chiami i tuoi fratelli?»

Mi girai di scatto verso di lei, il cuore in gola. «No, non farlo. Loro no. Ti prego» farneticai, continuando a spostare il peso da una gamba all'altra.

«D'accordo, d'accordo». Appena ripresi il mio pellegrinaggio per il salotto, Rosalie batté una mano sul divano componibile. «Però puoi sederti, per favore? Mi sta venendo il mal di mare».

«No, non posso. Prima mi sono seduto per terra».

«E allora?»

«Il divano è bianco». Lo indicai con un cenno, senza smettere di camminare in cerchio. Le mie dita continuavano ad aprirsi e chiudersi in preda a un tic nervoso. «Non voglio sporcarlo. Odio sporcare».

«Sei serio?» replicò Rosalie esasperata, trattenendomi per la manica.

Sebbene fosse stato un gesto cauto, reagii d'istinto. Le afferrai la gola e la sbattei contro il muro con tale veemenza da strapparle un piccolo gemito. Un lampo di paura le guizzò sul viso, ma il suo tono era dolce quando parlò. «Callum, sono io. Nessuno vuole farti del male. Sei al sicuro».

La fissai per un lungo momento, col respiro affannato. Poi mollai la presa e le posai la fronte sulla spalla, abbandonando le braccia lungo ai fianchi. «Scusa, scusa, scusa» ripetei in un sussurro implorante.

Rosalie rilasciò il fiato, restando immobile con la schiena spalmata alla parete. «Non importa».

«Mi dispiace. Mi dispiace tanto».

«È tutto okay. Guardami». Mi sollevò il mento e mi costrinse a incrociare le sue iridi da cerbiatto, grandi e marroni. Mi chiesi se sapesse che le bastavano quegli occhi per avermi completamente in suo potere. «Non è colpa tua».

Mi chinai in avanti e depositai un piccolo bacio su ognuno dei segni rossi che le avevo lasciato sul collo. «Devi smettere di farlo». Più che un ordine, la mia era una supplica.

«Cosa?» mormorò lei, inclinando appena il capo.

«Non lo so. Qualsiasi cosa tu mi stia facendo». Le mie labbra scesero sul suo petto fino al solco in cui sprofondava l'orlo della camicetta. Scostai la scollatura quanto bastava a scoprire il tatuaggio di una rosa che le avvolgeva il seno sinistro. Lo accarezzai con il pollice, sentendo Rosalie fremere sotto il mio tocco. «Non riesco a smettere di pensare a te, anche quando non ci sei. E quando invece ci sei, non riesco a ragionare. Starti vicino è una tortura, starti lontano ancora peggio. È frustrante. Non lo sopporto più».

Rosalie fece una lieve risata, infilando le dita nei miei capelli. Fui stranamente felice che fossero corti, cosicché non potesse tirarli come faceva sempre lui. «Credo che tu ti stia innamorando di me, pezzo di ghiaccio».

Lo stomaco mi si contrasse. «Io non mi innamoro. Non posso».

Le abbassai la coppetta sinistra del reggiseno e presi il capezzolo turgido in bocca, stuzzicandolo con la lingua. Rosalie emise un gemito roco e mi sfilò la giacca, facendola cadere sul pavimento. Succhiai il bocciolo e leccai l'areola scura attorno.

Avevo la mente annebbiata. L'odore della sua eccitazione mi invadeva le narici, mescolata all'inebriante profumo cipriato che emanava. Tutti i miei sensi erano tesi al massimo per cogliere ogni sua minima reazione corporea, ad esempio le pulsazioni accelerate del suo cuore o le variazioni del suo respiro.

Baciai la rosa tatuata e sollevai lo sguardo su di lei. Era talmente bella che mi sentii soffocare. I suoi occhi brillavano, una ciocca sfuggita alla treccia le ricadeva sul viso. Sarei crollato in ginocchio all'istante, pronto ad adorarla in ogni modo possibile, se solo il pensiero di ritrovarmi in quella posizione non fosse stato così terrificante. «Dimmi cosa devo fare per toglierti dalla testa».

Rosalie appoggiò le mani sul mio bacino e mi spinse con delicatezza ad arretrare. Quando le mie gambe sbatterono contro il divano, esercitò una leggera pressione per indurmi a sedere. Un brivido mi scese lungo la schiena, ma mi limitai a obbedirle, i muscoli rigidi come fossero di legno.

Le avrei lasciato fare ciò che voleva. Dovevo solo rimanere immobile. Me lo diceva sempre la dottoressa durante le Terapie.

«Mi dispiace per tua sorella, comunque. Non ho ancora avuto l'occasione di farti le mie condoglianze» disse Rosalie, sciogliendomi il nodo allentato della cravatta. Me la tolse e la gettò sul tavolino. «E mi dispiace per averti tradito».

Mi corrucciai, confuso dal cambio d'atteggiamento. Il desiderio sul suo volto aveva ceduto il posto a un'espressione dolce. «Lo sapevo già. Quando ho indagato sulla tua sorellina, ho trovato una denuncia di scomparsa. Ho immaginato che August l'avesse rapita e la stesse usando per convincerti a consegnarmi».

«Me lo hai lasciato fare, però».

«Volevo essere catturato. Faceva parte del piano». E non volevo che una bambina innocente morisse.

Rosalie mi premette le mani sulle spalle e ancora una volta la assecondai, stendendomi in mezzo alla montagna di cuscini ricamati. Chiusi gli occhi e deglutii a vuoto. Avevo la gola secca. Presi a tremare come una foglia e trasalii quando la percepii muoversi, certo che stesse per posizionarsi sopra di me.

Invece, Rosalie fece una cosa stranissima. Mi si sedette accanto, sul bordo del divano, e mi diede una carezza sulla guancia. Non ne avevo mai ricevuta una prima, non così. Era gentile, addirittura tenera. Non mi faceva stare male come quelle nel laboratorio, né mi faceva sentire un oggetto come quelle di Lucius.

Anzi, mi piaceva. Era una sensazione magnifica, e mi resi conto che avrei fatto qualsiasi cosa pur di provarla di nuovo.

Sbirciai tra le ciglia e vidi le sue labbra che si piegavano in un sorriso dolce. «Riposati. Ti prometto che nessuno ti farà del male qui».

Mi abbandonai a un sospiro profondo, i tremiti che si placavano a poco a poco. «Puoi rimanere per un po'?»

«Certo. Tutto il tempo che vuoi» replicò, ritirando la mano.

Le palpebre mi si fecero pesanti. Stavo per chiederle se poteva darmi solo un'altra carezza, ma le tenebre mi assalirono prima che potessi parlare e scivolai nel sonno più sereno e tranquillo della mia vita.

Ero così esausto che mi accorsi a malapena che il mio telefono stava vibrando nella tasca.

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