𝕮𝖆𝖕𝖎𝖙𝖔𝖑𝖔 45 (Arya)

"𝔅𝔩𝔬𝔬𝔡 𝔪𝔞𝔨𝔢𝔰 𝔶𝔬𝔲 𝔯𝔢𝔩𝔞𝔱𝔢𝔡,
𝔩𝔬𝔳𝔢 𝔪𝔞𝔨𝔢𝔰 𝔶𝔬𝔲 𝔣𝔞𝔪𝔦𝔩𝔶"

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I giorni successivi non furono facili.

A Notturn Hall si era diffusa la voce della scomparsa di uno dei De'Ath, anche se naturalmente nessuno era a conoscenza della verità. Circolavano teorie di ogni genere, alcune davvero assurde come quella in cui si ipotizzava che Kath fosse morta in un rito satanico, ma ciò sembrava aver rafforzato le leggende sull'antica maledizione che li riguardava.

Di conseguenza, a scuola tutti ci giravano al largo più che mai. Sì, anche a me e al mio gruppo di amici. Poiché passavamo un mucchio di tempo con i fratelli De'Ath, sedevamo al loro tavolo alla mensa e spesso facevamo visita al castello, ormai i nostri compagni ci associavano automaticamente a loro. Persino Deena, malgrado non nutrisse ancora una grande simpatia per quella che definiva la nostra famiglia di pazzi.

Dal canto mio, non potevo dire di stare bene.

Nonostante la pesante stanchezza della gravidanza, facevo fatica a dormire e quando ci riuscivo ero tormentata da incubi terribili. Quasi sempre erano ricordi della notte al ranch; a volte miei, altre di Nicholas. Mi capitava quindi di ritrovarmi in mezzo alla battaglia o in fondo alla piscina legata a una sedia, oppure anche di fracassare il cranio di August con un masso.

Ma il più frequente, purtroppo, era il sogno in cui cercavo di parlare a una Kath morente sotto il temporale. Le parole però mi restavano impigliate in gola, il dolore mi strozzava e mi svegliavo fradicia di lacrime e di sudore, dilaniata da un rimpianto che non mi apparteneva.

E, come se tutto ciò non bastasse, il pensiero delle rivelazioni di August su mio figlio continuava ad assillarmi. Non ne avevo parlato nemmeno con Ethan, perché dopo il secondo rapimento era già abbastanza preoccupato anche senza che gli confidassi che forse il mio bambino mi avrebbe uccisa per venire alla luce. Quanto ai De'Ath, volevo dare loro il tempo di riprendersi dal lutto, prima di informarli che rischiavano di dover portare in tintoria gli abiti funebri.

«Ehi». Remiel mi diede un buffetto sulla punta del naso, riscuotendomi. «Tutto okay? Sei molto silenziosa, oggi».

Mi puntellai su un gomito per poterlo fissare in viso. Avevamo approfittato di quel pomeriggio mite per farci un giro sulla barchetta a remi attraccata al molo e ora eravamo sdraiati all'ombra sulla riva opposta del lago.

Nella pace di quel luogo, i miei problemi erano così lontani da apparire minuscoli, quasi insignificanti. Però c'erano, e incombevano su di me come il cappio di una forca verso cui stavo marciando, passo dopo passo.

Mi sforzai di sorridere. «Sì, sono solo nervosa. Che cosa devo aspettarmi da una riunione di famiglia dei De'Ath?»

«Grida, robe che volano e tanta stupidità. Niente di che, insomma». Remiel si strinse nelle spalle. «Sarà strano senza di lei».

Il cuore mi si contrasse. Io e i miei amici stavamo facendo di tutto per tenere i De'Ath distratti e impedire loro di rimuginare troppo su Kath. Anche se per la maggior parte del tempo tenerli impegnati sembrava funzionare, c'erano momenti in cui il vuoto della sua assenza tornava a farsi sentire con prepotenza.

Ogni tanto, durante la colazione li sorprendevo ancora a guardare verso il portone d'ingresso, in attesa di vederla tornare dal jogging mattutino. Oppure quando scoppiava un battibecco e calava il silenzio all'improvviso, perché si erano resi conto che non c'era più nessuna premurosa sorella maggiore pronta a risolvere la situazione.

Annuii, posandogli il palmo aperto sullo sterno. «Fa ancora male?»

«No, ma percepisco che manca qualcosa. Come se fossi incompleto. Non credo che se ne andrà mai». Remiel rilasciò un sospiro profondo, poi le sue labbra si piegarono in un sorriso tenero. «Ma sto meglio qui con te, da soli, senza quella banda di fratelli idioti a rompere le scatole».

Ridacchiai. «Tanto so che li adori».

«Anche tu».

Sorrisi e mi sporsi per unire le nostre bocche. Le sue mani si posarono sui miei fianchi e mi caricò a cavalcioni su di sé, senza staccarsi dal bacio. Mi ritrassi appena, incrociando i suoi occhi verdi che scintillavano alla luce del sole.

Mi mordicchiai l'interno della guancia, esitante. «Posso farti delle domande?»

Remiel mi portò una ciocca corvina dietro l'orecchio. «Tutto quello che vuoi. Non devi chiedere il permesso».

«Sulla vostra natura, intendo».

Lo avvertii irrigidirsi sotto di me. A giudicare dal suo sguardo cupo, doveva aver sperato di ritardare questa conversazione il più a lungo possibile. Fece un cenno d'assenso. «Che vuoi sapere?»

Ci riflettei un secondo. «Come funzionano i vostri supersensi? Cioè, adesso puoi sentire qualsiasi rumore e odore nel raggio di chissà quanti chilometri? Non vi viene mal di testa?»

Una risata inaspettata gli scosse il corpo e i suoi muscoli tornarono a rilassarsi a poco a poco. «Sul serio? Questo è uno dei tuoi dubbi esistenziali?»

Gli diedi un pizzico, facendolo sussultare. «Scusami tanto, non sono un'esperta di windigo» protestai offesa.

Remiel si costrinse a smettere di ridere, sebbene le sue labbra rimasero incurvate verso l'alto. «I nostri supersensi, come li chiami tu, si possono attivare a comando. È difficile da spiegare, ma possiamo regolare il nostro udito o anche la vista. Nel sonno, ad esempio, siamo vulnerabili quasi quanto gli esseri umani. Con l'olfatto è meno spontaneo, invece».

Storsi il naso. «Deve essere terribile salire sugli autobus affollati per voi».

Un lampo divertito gli balenò sul volto. «Non è piacevole, in effetti. Però c'è anche il rovescio della medaglia, non fiutiamo mica solo cose sgradevoli». Mi passò il pollice sul mento. «Il tuo profumo è unico, sai? Fruttato, con delle note floreali. Mi ricorda il gelsomino». Le sue dita mi sfiorarono il collo. Il suo tocco era talmente leggero da farmi rabbrividire. «È una fragranza dolce, soprattutto quando sei felice. E anche delicata, ma così intensa che inebria come una droga al punto che non puoi più farne a meno».

Tossicchiai, ignorando il calore che mi si propagava sulle goti. «Merito di Dior, probabilmente».

Remiel scosse il capo e si protese per baciarmi. Lo ricambiai, cominciando a sbottonargli la camicia di flanella. Mi bloccai dopo un paio di bottoni e gli scoccai un'occhiata per accertarmi che non fosse a disagio, poi ripresi con meticolosa lentezza. «Ne esistono altri? Di demoni?»

Il suo respiro si fece pesante. «Non che io sappia. Solo noi De'Ath possiamo essere trasformati».

«Giusto. Per il gene». Tracciai una scia di baci lungo la sua gola e proseguii fino al petto. Mi accigliai. «Ma da qualche parte deve arrivare, no? Dubito che un giorno un tuo antenato si sia svegliato con zanne, artigli e un gran brutto carattere».

Steso sotto di me, insinuò la mano sotto la mia camicetta e percorse con l'indice la mia spina dorsale. «C'è una vecchia leggenda sulle nostre origini. N-non la ricordo bene» farfugliò, attraversato da un fremito. «C'entra un matrimonio, però. E una strage».

«Quanto al cibo?» azzardai.

Mi bloccò di scatto, corrucciato. «In che senso?»

Tentennai. Alla fine, optai per essere sincera. «August. Mi ha rapita perché voleva che gli consegnassi Keegan, è vero, ma credo che cercasse anche di mettermi contro di voi. Ha detto che vi nutrite di... anime, e che uccidete per sopravvivere. Non ho proprio capito benissimo ciò che intendeva, in realtà».

Remiel deglutì. Mi fece scivolare gentilmente giù dal suo corpo e, dopo avermi deposta sul prato, si tirò a sedere. Si riallacciò la camicia con dei gesti incerti, le dita che gli tremavano dall'eccitazione. «Torniamo al castello».

«No». Scattai e lo afferrai per il polso, prima che potesse alzarsi. L'espressione spaventata che mi rivolse mi attanagliò lo stomaco. La mia determinazione si sciolse in un sorriso rassicurante e gli accarezzai i capelli neri come il carbone. «Prometto che non cambierà nulla tra noi. Ti conosco, conosco il ragazzo meraviglioso e buono che sei, a prescindere dalla tua natura. Ma ho bisogno di sapere. E penso pure di meritarlo, considerato che sono quasi morta e che tra pochi mesi avrò un baby Nicholas di cui occuparmi».

A capo chino, prese a strappare alcuni esili fili d'erba dal terreno. «Siamo mostri, Arya» sussurrò in tono colpevole.

Gli sollevai il mento. «Lascialo giudicare a me».

Remiel mi fissò in silenzio, finché rilasciò un respiro rassegnato e si stese di nuovo. Incrociò le braccia dietro la nuca, lo sguardo puntato verso il cielo terso. Mi rannicchiai contro il suo petto e socchiusi le palpebre, ascoltando il battito frenetico del suo cuore. L'aria si stava facendo pungente e i corvi lanciavano dei versi rauchi e stridenti, mentre svolazzavano tra le fronde degli alberi.

«August non ha mentito. Quando togliamo la vita a una persona, ne assorbiamo l'anima. Possiamo stare intere settimane senza nutrirci in questo modo, purché ci sfamiamo regolarmente con cibo normale, ma in teoria la nostra alimentazione ideale è a base di carne... beh, umana».

Il sangue mi si gelò nelle vene, facendomi accapponare la pelle. Remiel fraintese la mia reazione e mi avvolse con un braccio per scaldarmi. «Cuori, per la precisione. Il fulcro dell'anima. È ciò che ci dava nostra madre, quando eravamo rinchiusi nel laboratorio. Si faceva rifornire da un criminale, un certo Ronald Bailey. La maggior parte di noi, però, non è più cannibale. Il dottor Stone ci ha progressivamente abituati a passare a una dieta animale e ci ha educati a reprimere i nostri istinti, anche se per alcuni è stato più facile che per altri. Per questo Isaac è vegetariano. La carne, di qualsiasi tipo, gli fa perdere il controllo».

Ingoiai un groppo incastrato in gola. «E tu? Hai mai...» Non riuscii a terminare la frase.

«Sì, ho ucciso. E dovrò rifarlo, che mi piaccia o meno». La sua voce era intrisa di un'amara tristezza. «Potrei dirti che era perlopiù gente che se lo meritava. Tuttavia, non penso che lo renda meno crudele o ingiusto. Il dottor Stone ci ha insegnato che l'omicidio è sempre sbagliato, a meno che non sia per legittima difesa. Ma per quanto io provi a trattenermi, la fame prevale sempre prima o poi».

Perlopiù. Significava che aveva ucciso anche degli innocenti? Non ero sicura di essere pronta a conoscere la risposta, così tacqui.

«Odio ciò che sono, Arya. Ciò che mi hanno imposto di essere. Lo detesto più di quanto immagini, ma non sono in grado di cambiare la mia natura. Tutto quello che posso fare è giurarti che non farò mai del male a te».

Increspai le sopracciglia. Mi scostai per guardarlo in faccia e gli passai un dito lungo la mascella. Studiai la dolcezza dei suoi lineamenti, il ciuffo scuro che gli si arricciava dietro l'orecchio e le iridi lucide da cui trapelava tutta la sua paura. Pur sapendo cosa si celasse dietro la sua maschera, continuavo a fidarmi di lui.

Non è colpa sua, ricordai a me stessa, non è colpa di nessuno di loro.

«Non hai nulla di cui scusarti». Appoggiai una mano sul suo torace per tenermi in equilibrio e gli soffiai un bacio sulle labbra. Un altro dubbio fece capolino nella mia mente. «Al cinema. Che cos'è successo davvero?»

Remiel espirò bruscamente, investendomi con un fiotto d'aria calda. «Io sono particolarmente sensibile, diciamo, rispetto ai miei fratelli. Quel film era ricco d'azione e di violenza. C'erano troppi stimoli e mi sono... ehm, sovreccitato».

«Sovreccitato?» ripetei perplessa.

Un acceso rossore gli colorò le guance. «Per frenare i nostri impulsi, ci sono due modi. Nutrirci. Oppure sfogarci, ecco». Colse il mio sguardo interrogativo e, assumendo una sfumatura violacea, aggiunse: «Fare sesso, Arya».

Spalancai la bocca a formare un perfetto ovale. «Cioè farlo per voi è come... uccidere?» balbettai, sempre più scioccata.

Ormai Remiel era talmente paonazzo che sulla sua faccia si sarebbe potuta fare una grigliata. «No, cioè sì, all'incirca. Non nutre, ma l'effetto è molto simile e ne dà l'illusione. Ci aiuta a controllarci, in breve». Si schiarì la gola. «O così mi hanno raccontato i miei fratelli. Non saprei».

Dato che fargli una battuta in proposito avrebbe potuto essergli fatale, per quanto era in imbarazzo, decisi di non insistere.

Trascorremmo un'altra mezz'ora a chiacchierare e, su mia richiesta, Remiel mi riferì delle buffe curiosità legate alla sua razza. Scoprii che i demoni avevano un metabolismo così veloce da far fatica a ingrassare o ubriacarsi, che soffrivano particolarmente il solletico, che qualsiasi parte del loro corpo era in grado di rigenerarsi ma il processo era sfiancante e che non potevano pronunciare il nome di Dio né toccare oggetti sacri senza scottarsi.

Dato che iniziavo ad avere freddo, tornammo alla nostra barchetta e Remiel mi trasportò a remi fino alla sponda opposta del lago. Fu un viaggio breve e comodo, grazie alla sua forza sovrumana e alla montagna di coperte che avevamo steso sul fondo. Attraccammo al molo e ci incamminammo verso il castello.

Dal giardino proveniva un gran schiamazzo. Ethan era vicino a una quercia e stava urlando contro Joel e Gabriel, mentre Sky e Layla confabulavano tra di loro a poca distanza. Isaac era seduto sul gradino del portico con un libro sulle ginocchia. Mac leggeva da sopra la sua spalla, anche se i suoi occhi guizzavano spesso sul viso del ragazzo.

«Che succede?» chiesi, accostandomi ai due piccioncini.

Mac ridacchiò. «Ethan sta cercando di insegnare ai De'Ath a giocare a "Un, due, tre, stella!", ma continuano a barare sfruttando la supervelocità».

«Non è giusto! Hai detto che potevamo correre!» protestò Joel. Gabriel annuì con vigore per dargli manforte, i ricci tinti di giallo che ballonzolavano.

«SÌ, MA NON CORRERE ALLA FLASH!»

Gabriel si accigliò. «Chi è Flash?»

Joel indicò la sorella. «Lo ha fatto anche Sky prima e non le hai detto niente!»

«Davvero? Non me n'ero accorto» mentì Ethan, liquidandolo con un gesto noncurante. «Comunque, cambio di regole: potete solo camminare. Mooolto lentamente».

«Ma quindi chi è questo Flash?»

Sky pestò un piede a terra. «Possiamo riprendere adesso? Mi sto annoiando».

«Subito, hermosa

Si rimisero nelle posizioni di partenza. Ethan si girò con la faccia rivolta verso il tronco e prese a contare. Quando ebbe finito, le ragazze avevano fatto pochi passi, Joel era a metà strada e Gabriel era in equilibrio su una gamba sola con le braccia divaricate. «Sbrigati, sbrigati che sto cadendo!» strepitava, oscillando avanti e indietro.

Remiel scosse il capo, divertito. «Che deficienti». Mi lanciò un'occhiata. «Sono nella serra, se mi cerchi».

«Potrei venire con...»

«No no. Devo solo cambiare il terriccio. Ti sporcheresti».

Annuii e lo osservai allontanarsi in direzione dell'enorme padiglione di vetro sormontato da un tetto spiovente. «Voi sapete che cosa nasconde in quella serra? Ultimamente non mi ci fa nemmeno mettere piede».

«No, ehm, perché dovremmo?» replicò Isaac in un tono tutt'altro che convincente. Lo scrutai sospettosa e si fece piccolo piccolo. «Sapevate che il gioco si chiamerebbe "Un, due, tre, stai là!", e non "stella"?»

Gli puntai l'indice contro. «Ho ragione, allora. Di che si tratta?»

«Lascialo stare. Dubito che Remi ti stia tradendo con una delle sue piante, comunque» intervenne Mac protettivo, cingendo Isaac con un braccio. Quest'ultimo affondò il naso tra le pagine, probabilmente per nascondere di essere arrossito.

Li scavalcai e infilai la chiave nella serratura del portone, provando il solito moto di soddisfazione. Callum me ne aveva data una copia in modo da permettermi di entrare e uscire dal castello a mio piacimento.

Nei giorni seguenti alla morte di Kath, io ed Ethan non volevamo lasciare i De'Ath da soli e avevamo chiesto alla mamma il permesso di dormire da loro. Quando mi ero presentata davanti al maggiore dei fratelli per accertarmi che non fosse un problema, si era limitato a consegnarmi la chiave, accompagnata da un laconico: «La casa è grande».

Nel varcare la soglia del soggiorno mi venne da starnutire, a causa dell'acre aroma di tè che aleggiava nell'aria. Nicholas era stravaccato sul divano, con la guancia appoggiata al pugno chiuso e un broncio tetro. La televisione era accesa e trasmetteva un film che, ancora una volta, riconobbi essere "Mary Poppins".

«Canzoncine del cazzo. Quali idioti si metterebbero a fare un balletto sui tetti? Patetici» bofonchiava tra sé, tra un sorso di birra e l'altro.

Trattenni una risata per evitare di infastidirlo. Ancora non comprendevo come fosse possibile che lui e Seth si fossero lasciati, né tantomeno la ragione per cui quest'ultimo si fosse trasferito in un appartamento in città. Tra questo, la morte di Kath e gli incubi continui, non mi stupiva che Nicholas fosse persino più irascibile del solito.

I suoi fratelli avevano notato che lasciava il castello tutte le notti, al calar del buio, per poi rientrare all'alba con aria stremata. Sebbene nessuno sapesse con esattezza cosa faceva, Remiel sospettava che andasse a ubriacarsi o a divertirsi chissà dove. Io, però, non ne ero convinta.

Mi tolsi il giubbotto e lo attaccai all'appendiabiti. «Dov'è Callum? Mi aveva detto di avvisarlo al nostro ritorno».

Nicholas non staccò lo sguardo dallo schermo. «Non sono il suo segretario» borbottò scontroso.

«Sempre di buonumore, eh».

Emise un sibilo minaccioso. «È l'ennesima giornata di merda di una vita di merda. Vai a rompere i coglioni a qualcun altro».

Mi protesi oltre lo schienale del divano e gli diedi un colpetto sul braccio. «Che hai combinato ieri sera?»

«Ho scopato. Che te ne frega?» ribatté lui con una smorfia irritata.

Mi strinsi nelle spalle. «Perché percepisco tutto ciò che provi e ho avuto l'impressione che tu fossi...» Terrorizzato, pensai tra me. «Insomma, che ci fosse qualcosa che non andava. Se era sul serio una sveltina, non deve esserti piaciuta molto».

Nicholas accartocciò la lattina nel pugno, ammutolito. «Quello che faccio non è affar tuo». Prima che potessi aprire bocca, aggiunse: «Callum è in palestra. Adesso sparisci».

Sollevai le mani in segno di resa e partii alla ricerca della palestra. Malgrado ormai avessi imparato a orientarmi piuttosto bene in quel dedalo di corridoi e passaggi, non avevo la minima idea di dove si trovasse. Dopo aver svoltato un angolo, proprio mentre iniziavo a pensare a quanto sarebbe stato umiliante se i De'Ath avessero dovuto venire a cercarmi per casa fiutando il mio odore come dei segugi, inciampai su un grosso ammasso nero e Loki soffiò risentito.

«Oh, scusa». Mi chinai, ma il gatto schivò la mia carezza e balzò sulla finestra. Non riuscì a raggiungere il davanzale e restò appeso al bordo di pietra con gli artigli, miagolando disperato. Impietosita, gli diedi una spintarella per farlo salire. «Che cavolo ti danno da mangiare? Sei enorme».

Loki mi fissò con supponenza e cominciò a lisciarsi il pelo. Stavo per rimettermi in marcia, quando il rumore di una motosega attirò la mia attenzione. Impiegai una manciata di secondi a capire che proveniva dal fondo di una scalinata. Mi avvicinai di soppiatto, scesi i gradini e sbirciai dalla porta socchiusa.

Alexander, vestito con una canotta impolverata, stava tagliando delle tavole di legno con una troncatrice. Attorno a lui nel seminterrato erano sparpagliati pezzi di compensato, travi e asticelle, set di cacciaviti, trapani e altri strumenti, persino dei materassini. Al centro c'era un pannello che doveva essere la base per qualsiasi cosa intendesse costruire.

Rimasi immobile, le dita che sfrigolavano dalla frenesia. Era dalla morte di papà che non impugnavo qualche attrezzo, che non vedevo un oggetto plasmarsi tra le mie mani. Mi mancava da morire. Prima che potessi bussare per annunciare la mia presenza, la voce di Alexander mi fece trasalire. «Ti rendi conto che ti sento?»

Scivolai attraverso l'apertura della porta e la richiusi dietro di me. «Sì, ovvio. Non ti stavo spiando». Mi guardai attorno, corrucciata. «Che stai facendo?»

Alexander spense la troncatrice e si raddrizzò. Scansò con un gesto secco la ciocca argentea che gli ricadeva sugli occhi di un azzurro quasi trasparente. «Una cuccia per Loki».

«Un po' grande come cuccia». Accennai al supporto rettangolare sul pavimento. «Anche per un gatto oversize».

«Loki non è oversize» sbuffò indignato.

Feci una risatina. «Potrei aiutarti. Sono brava con queste cose».

«Lo so».

Gli rivolsi uno sguardo interrogativo. Ero certa di non avergli mai confidato di quella mia passione. Alexander scrollò le spalle, i muscoli lucidi di sudore che brillavano alla luce soffusa della lampada a neon sul soffitto. «Tuo padre. Mi aveva detto di avere una figlia che andava matta per i lavoretti fai da te e in camera tua ho visto il mobile con le vostre iniziali».

Un brivido mi scese lungo la schiena. Raccolsi una delle lunghe sbarre di legno da terra e ne scrutai la superficie perfettamente livellata, senza neanche una scheggia sporgente. «A volte dimentico che lo avete conosciuto».

«Non molto. È rimasto con noi giusto il tempo di accertarsi che fossimo al sicuro». I suoi occhi di ghiaccio seguivano ogni mio movimento. «Non sembrava male».

Abbozzai un sorriso mesto. «Era fantastico. Segreti a parte, certo».

«Ha contribuito a salvarci e voleva fermare l'Olympus. I suoi segreti erano a fin di bene». Alexander ridusse la distanza tra di noi e prese la stanga di legno, ributtandola nel mucchio insieme alle altre. «Eravate la sua famiglia. Non puoi biasimarlo perché ha mentito per proteggervi».

Mi pinzai il labbro inferiore con i denti. «Però era anche amico di Thomas Stone. So che si è pentito e preso cura di voi, ma era comunque un membro del Progetto. Per non parlare di John...» Una fitta mi trapassò il petto.

Non avevo notizie di mio zio dallo scontro nel laboratorio e, pur sapendo del voltafaccia che stava pianificando con Maya, non lo avevo ancora perdonato per la sua alleanza con August. Anche della donna non c'era traccia, malgrado Callum fosse certo che fosse stata lei a rubare il diapason e questo annoverava entrambi tra i potenziali nemici della loro famiglia. Anzi, della nostra.

Qualcosa mutò nell'espressione di Alexander. I suoi lineamenti parvero ammorbidirsi e il pallore gelido delle sue iridi si sciolse un poco. «Posso dimostrarti che ti sbagli. Ma devi darmi il tuo consenso prima».

Rizzai il capo, incuriosita. «Per cosa?»

«Vorrei mostrarti un mio ricordo». Lo stupore sul mio volto doveva essere evidente, a giudicare da come l'angolo della sua bocca si incurvò. «Abbiamo anche poteri telepatici. Non lo sapevi?»

«Sì, ma avevo capito che fossero difficili da usare» obiettai sbigottita.

«È difficile entrare nella mente altrui. Quello per ora riesce bene solo a Nicholas, e anche Sky se la cava». Alexander si girò verso la porta, tendendo le orecchie, poi tornò a fissarmi. «Io voglio far entrare te nella mia».

Esitai. Suonava piuttosto intimo, fin troppo, ma la prospettiva di rivedere mio padre era allettante. Inoltre, non poteva essere peggio del legame empatico che collegava me e Nicholas.

«D'accordo». Appena fece per muovere il braccio, arretrai di un passo. «Aspetta. Come funziona? Farà male?»

Alexander arcuò un sopracciglio, quasi offeso. «Non farei mai niente che ti faccia male».

Annuii, rincuorata dalle sue parole. Quando mi premette il polpastrello freddo dell'indice sulla tempia, un tremolio mi fece accapponare la pelle e trattenni il fiato. Il suo viso era a pochi centimetri dal mio, i tratti resi ancora più affilati dalla penombra del seminterrato. «Chiudi gli occhi» mi bisbigliò.

Obbedii. Per un istante ebbi la sensazione di essere inghiottita in un imbuto molto stretto, per poi precipitare nel vuoto e finire sballottata in tutte le direzioni come dentro a un tornado. Barcollai in preda alle vertigini, ma le mani di Alexander mi tennero ben salda fino a che la sua presa svanì. D'istinto, spalancai gli occhi.

L'immagine di una cameretta dai contorni sfocati mi si parava davanti. Era spoglia e disadorna, eccetto per un imponente armadio, una scrivania accanto alla finestra e un letto a castello addossato alla parete. Un sole estivo splendeva nel cielo limpido, anche se non ne potevo avvertire il calore. Gli strilli concitati dei bambini che provenivano dal giardino giungevano alle mie orecchie ovattati e confusi.

Un esile ragazzino dai capelli folti e nerissimi era accucciato sulla branda in basso, con un blocco da disegno posato sulle gambe. Il suo faccino scarno era distorto in una smorfia concentrata, mentre tentava di impugnare la matita con le dita rigide della mano destra.

A differenza di quanto mi succedeva con gli incubi di Nicholas, stavolta ero un'osservatrice esterna e incorporea. Mi sembrava di assistere alla scena da uno schermo, quasi Alexander mi stesse proiettando il ricordo nel cervello. Non ero una sconosciuta che aveva fatto irruzione nella sua memoria, piuttosto una gradita ospite invitata ad accomodarsi dal padrone di casa.

Qualcuno bussò con delicatezza e la porta si aprì. Il cuore mi sprofondò nel petto, quando mio padre entrò nella stanza. Alla luce del giorno i suoi occhi verdi, identici ai miei, assumevano una sfumatura violetta.

Rivolse al piccolo Alexander un sorriso affettuoso che conoscevo benissimo. Era lo stesso che riservava a me, a Eryn, a Rhys, anche a Ethan. Un sorriso da papà. «Ciao. Posso disturbarti?» esordì in tono gentile.

Lui non lo degnò di un'occhiata. La matita sgusciò dalla sua presa e rotolò giù dal letto. Mio padre si chinò per recuperarla, prese la sedia dalla scrivania e gli si posizionò di fronte. «Mi è stato detto che non sei un gran chiacchierone e che ti rifiuti di uscire da qui. Come mai? La comunità non ti piace?»

Il ragazzino si strinse nelle spalle, scrutandolo con diffidenza. Adesso la sua postura era tesa, pronta all'attacco. Doveva avere al massimo dodici anni, eppure la serietà del suo sguardo lo faceva apparire già un adulto.

Mio padre gli porse la matita. «Alex, giusto?»

«Alexander» lo corresse freddamente.

«È un bellissimo nome. Nessuno dei tuoi fratelli ricordava il proprio. Devi tenerci parecchio». Intuendo che non l'avrebbe presa, mio padre depositò la matita sullo spigolo della scrivania e si ritrasse. «Sul tuo fascicolo ho letto che sei stato adottato all'età di cinque anni e mezzo, dopo l'arresto della tua madre biologica. So che hai chiesto di lei a Thomas».

Il piccolo Alexander gettò il blocco da disegno sul cuscino e sollevò le ginocchia nodose, cingendole con le braccia ossute lasciate scoperte dalla maglietta a maniche corte. Com'era prevedibile, non rispose.

«Ho fatto delle ricerche a riguardo» proseguì mio padre, appoggiandosi con un cigolio allo schienale della sedia. «Tua madre è uscita di prigione l'anno scorso. Se sei interessato, posso cercare di rintracciarla e provare a organizzarvi un incontro».

Il ragazzino si paralizzò. Le braccia gli ricaddero inermi lungo i fianchi. «P-posso rivedere la mamma?» La sua vocina era incrinata dall'emozione.

«Non sarà facile, non con l'Olympus che vi dà la caccia. E naturalmente la mia priorità al momento è trovare tuo fratello, Zero». Mio padre storse il naso. Era chiaro che detestasse doverlo chiamare con un numero. «Ma sì. Purchè tua madre sia a posto con la legge e non rappresenti un pericolo per te, potrai rivederla. È una promessa».

Le labbra del piccolo Alexander si piegarono nel vago accenno di un sorriso, ma poi assottigliò le palpebre con circospezione. «Come so che non è una bugia?»

«Dal mio battito. Lo hai sentito accelerare?»

«No».

«Allora sono stato sincero». Mio padre gli ammiccò e afferrò la matita dalla scrivania. «Vuoi che ti insegni a tenerla?»

Il piccolo Alexander approfittò della sua distrazione per strofinarsi il dorso della mano sulla guancia, dove una lacrima furtiva gli stava solcando il viso. «Non sono capace. Le rompo tutte» mugugnò.

«Nessuno è capace a fare qualcosa, prima di impararla».

L'immagine si dissipò, trascinata via in un mulinello di frammenti. In un battito di ciglia fui catapultata di nuovo nel presente, all'interno dello scantinato, immobile davanti a un Alexander cresciuto e con i capelli platinati. Lo fissai intensamente, senza riuscire a proferire parola. Per quale motivo mi aveva mostrato un ricordo così personale?

«La tua vera madre ti chiamava Alex» mormorai infine, incapace di fermarmi.

«Già». Mi superò, prese la felpa nera appallottolata sul tavolo da lavoro e se la infilò. «Sono l'unico dei miei fratelli a non essere stato abbandonato. Mia madre non aveva un soldo, viveva nei bassifondi del Bronx e l'uomo che l'aveva messa incinta era scappato come un vigliacco, ma scelse comunque di tenermi».

Mi accigliai. «Per che cosa è stata arrestata?»

«Per avermi difeso».

Il mio sguardo cadde sulla sua protesi. Aveva perso la mano prima di essere trasformato, quindi prima di diventare un De'Ath. Non osai chiedergli niente, nonostante la curiosità mi stesse divorando. «Mi dispiace» mi limitai a dire.

«Doveva andare così». Si tirò il cappuccio sul capo. Essendo di profilo, riuscivo a vedere solo uno scorcio del suo volto. «Thomas Stone non ci disse mai che tuo padre era morto. Suppongo perché, se avessimo saputo che non c'era più nessuno a cercare nostro fratello, gli sarebbe stato impossibile tenerci in comunità. Così mi sono domandato per anni la ragione per cui non avesse mantenuto la sua promessa».

Non era un'accusa, eppure mi sentii in dovere di prendere le parti di mio padre. «L'avrebbe fatto».

«Lo so».

Incrociai le braccia sotto il seno. «È per questo allora che ci tieni tanto? A me, alla gravidanza. È un modo per sdebitarti nei suoi confronti?» Feci del mio meglio per non lasciare trapelare la delusione che provavo. Non sapevo neanche il motivo.

Alexander mi scrutò con una smorfia che non riuscii a interpretare, poi fece un cenno in direzione della porta. «Andiamo, rompiscatole. C'è una riunione di famiglia che ci aspetta».

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Angolo Jedi
Chiedo scusa per questo capitolo di passaggio, forse anche un po' noioso, ma purtroppo era necessario. Mi dovrei far perdonare con il prossimo, comunque.

Fun fact: ho un debole per Charles (il padre di Arya), nonostante sia schiattato da inizio storia🤡

Ne approfitto per augurare buon Natale a voi e ai vostri cari❤️

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