𝕮𝖆𝖕𝖎𝖙𝖔𝖑𝖔 44 (Nicholas)
"𝔉𝔦𝔯𝔰𝔱 𝔦𝔱 𝔥𝔲𝔯𝔱𝔰, 𝔱𝔥𝔢𝔫
𝔦𝔱 𝔠𝔥𝔞𝔫𝔤𝔢𝔰 𝔶𝔬𝔲"
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Quando riemersi dalle tenebre, mi accorsi subito che c'era qualcosa che non andava.
Mi sentivo la testa stranamente leggera e il corpo non obbediva ai miei comandi. Ero sdraiato su un morbido materasso, le lenzuola appiccicate alla mia pelle madida di sudore. Il silenzio era scacciato da un russare famigliare, accompagnato dai versi gracchianti dei corvi.
Dischiusi appena le palpebre con un mugolio. Avevo la gola così secca che mi bruciava ogni volta che ingoiavo. I miei occhi impiegarono qualche secondo ad abituarsi alla luce dorata che inondava la camera, finché finalmente le ombre si dissiparono e i colori tornarono a popolare il mio mondo.
Seth era spaparanzato in una posa scomposta su una sedia accanto al letto. La sua mano giaceva inerte a pochi centimetri dalla mia, tanto che mi sfiorava la punta delle dita. Aveva un livido nero su mezza faccia e un cerotto sulla tempia. Qualcuno gli aveva gettato addosso una coperta, che adesso pendeva in gran parte sul pavimento. Nonostante la distanza, fiutai la puzza di fumo che emanava.
Abbassai lo sguardo sul mio corpo, coperto fino alla vita. La parte inferiore del busto era avvolto da una garza e ne avevo un'altra attorno alla spalla, ma a farmi davvero male era il petto. Un dolore sordo e costante che mi si annidava proprio al centro. Tentai di sollevare il braccio, per poi lasciarlo ricadere subito dopo. Sembrava pesare una tonnellata.
I miei ricordi erano confusi e sfocati, come un sogno di cui a poco a poco si rimuovevano tutti i dettagli e restavano solo dei contorni indefiniti. La piscina, il temporale, lo sparo, le grida disperate di Callum, io che sfondavo la testa di August con una pietra, mia sorella che spirava tenendomi tra le sue braccia.
«Kath» farfugliai con voce roca.
Percepivo la sua assenza, ecco cosa c'era di sbagliato. Non solo in senso metaforico, ma anche fisico, allo stesso modo in cui si avvertiva un arto mancante dopo aver subito un'amputazione. Non se ne sarebbe mai andato, lo sapevo.
Seth sobbalzò, destandosi di colpo. «Nik». Scattò in avanti e si accasciò sulla sponda del materasso, che si piegò sotto il suo peso. «Non sforzarti. Hai perso molto sangue. Per un secondo abbiamo persino pensato che tu...» La voce gli si spense.
Mi passai la lingua sulle labbra screpolate e deglutii a fatica. Lui si accorse dello sforzo, si girò per prendere il bicchiere d'acqua sul comodino e mi tenne la testa sollevata, aiutandomi a ingerirla a piccoli sorsi. Sul vassoio c'erano anche dei donuts con le praline.
Ma dato che buttar giù nel mio stomaco in subbuglio dei cibi solidi era impensabile, dovetti accontentarmi di un patetico brodino che mi avevano portato per pranzo. Pur raffreddato, aveva ancora un buon sapore e ciò mi provocò un senso di fastidio alquanto bizzarro. Avrei preferito una delle terribili cioccolate calde con più zucchero che cacao di mia sorella.
Non capivo come potessi essere ancora vivo. Non era nemmeno giusto che lo fossi, non quando lei era morta per colpa mia. Avrei dovuto esserci io al suo posto. Anche i miei fratelli probabilmente lo pensavano.
«Arya ti ha salvato» mi spiegò Seth, dopo aver finito di imboccarmi. Ripose la ciotola vuota sul comodino e mi sfiorò delicatamente la guancia con l'indice, quasi temesse che la morte mi reclamasse da un momento all'altro. «Cioè, non so cosa sia successo in realtà. Vi siete sentiti tutti male, dopo che Kath è...»
I suoi occhi lucidi tremolarono, ancora gonfi di pianto. «Tu sei svenuto. Il tuo cuore, Nik, giuro che stava per fermarsi. Poi Arya ti ha preso la mano e se l'è messa sulla pancia. C'è stata una specie di luce bianca tra di voi, le tue ferite hanno smesso di sanguinare e sei tornato a respirare».
Il legame. Non era la prima volta che il vincolo tra di noi mi curava. Era già successo nel bosco in seguito all'attacco di Alfa, o Keegan, o chiunque fosse quella creatura infernale.
Increspai le sopracciglia. «Quanto ho dormito?»
«Mezza giornata. Deve essere un record di rigenerazione più lunga del mondo». Seth abbozzò un sorriso, che però si affievolì fino a scomparire. Chinò il capo. «Mi dispiace. Per Kath. Nessuno lo dice, ma in parte è come se avessi aiutato vostro padre a ucciderla».
Ignorando le fitte lancinanti alla spalla fasciata, allungai la mano verso il suo viso e gli accarezzai i ricci arruffati. Notai un taglietto orizzontale sotto il suo orecchio, inciso con fin troppa precisione. «Non lo hai fatto». Lasciai ricadere il braccio, esausto. «So che non ci hai traditi. L'ho capito ancora prima di vederti legato a quella sedia».
«È come se lo avessi fatto. Mi avevano impiantato un microchip, a Las Vegas. Will ha trovato il modo di rilevarlo e Callum me lo ha rimosso». Un singhiozzo gli scosse il corpo. «Ma non ne avevo idea, Nik. Non gli avrei mai detto niente contro di voi, neanche se mi avesse torturato. Piuttosto mi sarei fatto ammazzare. Credimi, ti prego».
Posò la fronte sul mio torace, proprio nel punto in cui sentivo pulsare ciò che restava della mia anima dilaniata. Forse mi sbagliavo, eppure avevo l'impressione che la sua vicinanza ricucisse un po' lo squarcio che mi si era aperto dentro.
«Ti credo». Esalai un sospiro profondo e chiusi gli occhi. Li riaprii un istante dopo. Non volevo ferirlo, tantomeno adesso che era a pezzi quanto me, ma avevo bisogno di conoscere la verità. «Thomas Stone. Lo hai mai incontrato?»
I muscoli di Seth si tesero. Rizzò la schiena con un movimento lento e mi scrutò, il nero delle sue iridi che si mescolava al blu delle mie. Anche se la sua espressione contrita non mi lasciava dubbi, non era sufficiente. Non mi sarei rassegnato finché non lo avesse ammesso.
Infine, annuì. «L'ho incrociato per caso in città. Ci conoscevamo a malapena ancora e io non significavo ancora nulla per te, ma tu per me eri già tutto. Avevo paura che mi avresti abbandonato, che lo avresti seguito in Europa con i tuoi fratelli o che lui ti portasse via e non ti avrei mai più rivisto. Così ho pensato di aspettare, solo per trascorrere un ultimo giorno insieme. Te lo avrei detto, Nik. Sul serio».
Le lacrime cominciarono a rigargli il volto e dovetti combattere l'istinto di asciugargliele, di raccoglierle a una a una. Malgrado ciò che aveva fatto, non sopportavo di vederlo soffrire. «Un minuto. Ho esitato per un minuto. Sessanta secondi in cui lui è salito in macchina ed è partito. Sono stato un fottuto egoista, anzi sono un fottuto egoista, e non puoi nemmeno immaginare quanto io mi odi per questo».
Girai la testa dall'altra parte, svuotato di qualsiasi emozione. Il cuore mi si contorceva con violenza contro le costole, tanto che avrei voluto strapparmelo via. Ormai era diventato un organo inutile comunque. Avevo perso tutto.
I miei fratelli non mi avrebbero mai perdonato per la morte di Kath, né meritavo che lo facessero. Se fossi stato meno impulsivo, se non avessi dato retta alle voci nella mia testa e avessi rispettato il piano di Callum, di sicuro saremmo ancora in nove. Non in otto.
E Seth mi aveva mentito. Il Seth che mi aveva promesso di non farmi mai del male. Il mio Seth. La ragione per cui ero stato lontano dalla mia famiglia per sei anni. Sei anni in più che avrei potuto passare con mia sorella.
Seth mi catturò il mento tra le dita e mi costrinse a incrociare il suo sguardo implorante. «Di' qualcosa, ti supplico. Qualsiasi cosa».
Era chino su di me. Una lacrima gli scivolò dal mento e cadde sulle mie labbra. Ne assaggiai il sapore salato, poi buttai fuori un fiotto d'aria dalle narici. «Voglio stare da solo».
«Nik...»
«Da solo» ripetei categorico.
Seth fece un cenno d'assenso, lanciò un'occhiata fugace alla mia bocca e mi depositò un bacio umido e leggero come un fiocco di neve. Avrei voluto catturare quel momento e racchiuderlo nello stesso scrigno in cui custodivo il ricordo delle carezze di Kath. «Avvertirò gli altri che sei sveglio, ma che vuoi restare per conto tuo per un po'».
Non risposi. Il solo pensiero di dover affrontare Callum e gli altri mi faceva venire la nausea. Seth si alzò, accese la televisione a un volume basso affinché mi facesse compagnia e si incamminò verso la porta. Si bloccò con la mano sulla maniglia. «Avevo quindici anni ed eri tutta la mia vita, Nik» mormorò, prima di uscire senza darmi il tempo di replicare.
Facendo una smorfia, mi sporsi per afferrare il telecomando che aveva lasciato sul comodino e schiacciai il tasto di spegnimento. Il silenzio mi piombò addosso, stridendomi nelle orecchie. L'assenza di rumori mi faceva impazzire. Era come ritrovarsi di nuovo in isolamento, quando da bambino avevo crisi di rabbia o sbalzi d'umore e mi rinchiudevano da solo in cella per giorni interi.
A volte capivo perché Callum sentiva l'esigenza di farsi del male. Entrambi punivamo le parti di noi che disprezzavamo di più: lui, il suo corpo; io, la mia mente. Forse era il motivo per cui eravamo sempre stati in perfetta sintonia, arrivando a confidarci a vicenda segreti che nessun altro avrebbe compreso.
Lucius si materializzò sulla sedia vicino al letto. L'angolo della sua bocca era piegato in un mezzo sorriso, una caviglia appoggiata sul ginocchio. «Sai che è colpa tua, vero? Lei sarebbe viva, se non ti fossi lanciato in una solitaria missione suicida».
Un fremito mi attraversò la spina dorsale. «Mi hai detto tu di farlo».
La sua risata amara mi fece trasalire. «Sono un prodotto della tua immaginazione, Zero. Stai litigando con te stesso. Ultimamente te ne dimentichi spesso, ti pare?»
Mi puntellai su un gomito e, con una spinta, mi capovolsi sulla pancia. Tutte le mie ossa protestarono per il movimento brusco e un bruciore mi esplose nel fianco. Rabbrividii, quando percepii la sua presenza che mi sovrastava e il petto che aderiva alla mia schiena. Seppellii la testa sotto il cuscino per scacciarlo, ma la sua voce riuscii a raggiungermi comunque.
«Seth ha fatto la cosa giusta a non dirti di Thomas Stone. Sono stati meglio senza di te, Zero. Chiunque starebbe meglio». Lucius mi depositò un bacio tra le scapole, in corrispondenza del marchio tatuato sulla mia pelle. Un monito di ciò che ero sempre stato, e che ero tuttora: una proprietà dell'Olympus, una cavia che giocava a essere una persona. «Non saresti mai dovuto tornare da loro. Distruggi tutto ciò che tocchi, persino la tua stessa famiglia».
Mi aggrappai al cuscino e lo strinsi attorno al cranio con le poche energie che possedevo, affondando i canini nel labbro per reprimere un urlo. Il sapore ferroso del sangue mi impastò la bocca. Volevo che smettesse. Volevo che il dolore finisse.
Volevo solo un po' di pace.
«Nicholas?»
Mi resi conto di essermi addormentato di nuovo solo nel momento in cui mi risvegliai. Ero rannicchiato contro la spalla di qualcuno, che mi stava scuotendo con cautela. Per un attimo mi paralizzai, poi riconobbi il profumo di ribes che emanava e i miei muscoli si distesero. Doveva essere lì da parecchio. Per questo non avevo fatto incubi.
D'istinto mi tastai il petto. «Fa male anche a te?»
Callum annuì. «Lo sentiamo tutti. Passerà».
Era evidente che non ci credeva, e neanch'io. Quel vuoto non sarebbe mai più stato colmato. Il massimo a cui potevamo aspirare era imparare a convincerci.
Non ero ancora pronto a staccarmi, perciò tenni gli occhi chiusi e mi concessi qualche altro minuto per restare accoccolato a lui. Callum mi strinse nella sua maniera un po' rigida e impacciata, in paziente attesa.
Per quanto detestassi mostrarmi vulnerabile, i rari abbracci di mio fratello erano speciali. Sapevano del padre che non avevo mai avuto, dell'affetto che avevo sempre agognato. Erano l'unico brandello di casa che avevo trovato persino nell'oscurità del laboratorio in cui ero nato.
Forse mi sbagliavo. Forse anche dal male poteva sbocciare qualcosa di bello, dopotutto.
Restammo immobili, in silenzio, così a lungo che alla fine non avrei saputo dire chi dei due stesse guarendo le ferite dell'altro. Poi lui appoggiò il capo contro la mia nuca e bisbigliò, il suo alito caldo che si insinuava tra i miei capelli: «Dobbiamo salutare nostra sorella. Te la senti?»
Mi ritrassi, incrociando il suo sguardo. Degli aloni violacei gli segnavano il volto, da cui non trapelava nessuna traccia d'emozione. «No. Tu?»
«No». Callum sospirò e aprì la mano tra di noi. Sul palmo c'era il ciondolo del corvo appollaiato sul teschio che era appartenuto a Kath. «Ma lo faremo comunque».
Gli permisi di aiutarmi a mettermi a sedere. Una miriade di luci esplosero nel mio campo visivo e le vertigini mi assalirono. Mio fratello mi scortò fino al bagno, dove feci una doccia rapidissima, poi mi depose di nuovo sul letto e mi cambiò le bende.
Mentre ripuliva l'area attorno alla ferite con del disinfettante, sollevò il capo e mi lanciò un'occhiata stupita. «Neanche una lamentela. Stai proprio male allora».
Arricciai il naso. «Carino il tuo nuovo buzz cut» commentai ironico, accennando col mento ai suoi capelli rasati.
Callum sbuffò. Finito di fasciarmi anche il ginocchio, mi tirò in piedi e mi passò una pila di vestiti. Siccome la testa mi girava come se fossi appena sceso da una giostra, dovetti appoggiarmi alla sua spalla mentre mi infilavo i pantaloni. Mi fece scivolare le braccia dentro le maniche della camicia nera e presi ad allacciarmi i bottoni, o quantomeno ci provai perché continuavo a mancare il foro o a inserirlo in quello sbagliato.
Mi innervosii ben presto. «Fanculo. Non ho mai mancato un buco in vita mia».
«Stai buono. Faccio io» mi rimproverò Callum, scacciandomi le mani tremanti.
Lo studiai con attenzione. Malgrado la maschera che si era costruito fosse impeccabile, un turbamento profondo e viscerale filtrava le sue crepe. Non sembrava arrabbiato. Confuso, piuttosto. Ripensai alle parole che aveva pronunciato, mentre cullava una Kath morente sotto la pioggia.
«Non sei da solo. So di non essere un granché rispetto a lei, ma non ti lascerò affrontare tutto questo da solo. Ora è una nostra responsabilità tenerli al sicuro. Dammi solo il tempo di rimettermi in sesto» conclusi con l'abbozzo di un sorriso.
Callum sbatté più volte le palpebre, il petto che si alzava e si abbassava a un ritmo irregolare. Mosse il capo in segno affermativo.
Appena ebbe finito, mi lisciò il colletto della camicia e mi fece indossare la giacca. Aveva già in mano la cravatta, quando si accorse che ero sbiancato e si bloccò. La gettò in disparte. «Perché non mi hai detto di ciò che ti ha fatto Ronald Bailey?»
Mi voltai verso lo specchio. Tra il pallore cadaverico, le labbra bianche e i capelli arruffati, dovevo ammettere che non avevo un bell'aspetto. Ricalcai con la punta dell'indice una delle tante cicatrici sulla mia gola, risvegliando la sensazione del metallo freddo attorno al collo e degli spuntoni conficcati nella carne.
Feci un verso sarcastico. «Cioè, che mi ha tenuto in una gabbia per mesi e usato per sbranare la gente nei suoi combattimenti clandestini? È stato già abbastanza umiliante essere il suo animaletto domestico, senza doverlo anche raccontare in giro».
Era una mezza verità. Mi vergognavo a parlargli di quel periodo, certo, ma soprattutto avevo paura. Era così idiota che di certo si sarebbe addossato la colpa di non essere stato lì a proteggermi e non volevo che si assumesse altre responsabilità che non gli appartenevano. Ne aveva già troppe.
«Non è solo questo».
Liquidai l'argomento con una scrollata di spalle. Una scarica di dolore mi investì e imprecai. «Tu come lo hai scoperto?»
Il riflesso di Callum apparve dietro di me nello specchio, mentre era intento a controllare le pieghe sul suo completo scuro. Aveva un'espressione cupa. «Non io, Kath. Grazie a Will. A proposito ho invitato anche lui oggi. Mi sembrava giusto...»
Non sollevai obiezioni, troppo attanagliato dall'ansia. Era giunto il momento di confrontarmi con la realtà. «Mi odiano? I nostri fratelli».
Callum inarcò un sopracciglio, sorpreso. «Perché mai dovrebbero?»
Chinai il capo, mordicchiandomi l'interno della guancia. Lui mi fece girare, mi prese il volto tra le mani e posò la fronte contro la mia. «Non è colpa tua. Non devi neanche pensarlo. È August che ha premuto il grilletto, Nicholas. Nostro padre ce l'ha portata via, non tu».
Non ero d'accordo. Se non mi fossi lasciato accecare dalla rabbia, se avessimo attaccato tutti insieme seguendo il suo piano, forse Kath sarebbe stata ancora viva. Ma tutto ciò che dissi fu: «Farò qualsiasi cosa per farmi perdonare, ma non odiarmi. Non posso perdere anche te».
L'angolo della sua bocca ebbe un guizzo. «Non ti odio. Non odierei mai nessuno di voi. Siete le uniche parti di me che amo incondizionatamente. Chiaro?» Tacqui. Mi diede una piccola sberla e ribadì: «Dimmi che ti è chiaro, fratellino».
«Chiaro» farfugliai, massaggiandomi la guancia. «Lo schiaffo era necessario?»
«Con la testa dura che ti ritrovi, ringrazia che non ti abbia mollato un pugno».
Zoppicai fino alla sala comune, attraversai una serie di corridoi e raggiunsi le scale. Scesi i gradini uno per volta, con Callum che mi tallonava come un segugio per acchiapparmi nel caso fossi caduto. Nonostante il ginocchio mi bruciasse in maniera atroce, non mi fermai a riprendere fiato neanche sul pianerottolo.
Trovai il resto della mia famiglia radunata in soggiorno. Erano tutti vestiti eleganti, ammantati di nero, eccetto Gabriel che stonava nel suo completo giallo canarino e Joel che aveva optato per una camicia bianca.
Arya, Seth e Will si tenevano leggermente in disparte, quasi non si sentissero in diritto di condividere il loro dolore con il nostro. Regnava una quiete spettrale, interrotta solo dai singhiozzi sommessi di Isaac curvo su una poltroncina.
«Sempre a farti aspettare, eh, Nik» commentò Joel. Malgrado il tono pregno di sarcasmo, non c'era niente del suo solito ghigno.
«Sapete che ho delle manie di protagonismo». Mi accigliai, dardeggiando gli occhi da uno all'altro dei presenti. «Dov'è Sky?»
Alexander raccolse Loki da terra e lo mise in braccio ad Isaac. Il gatto cominciò subito a strusciargli il musetto sulla faccia, facendolo ridacchiare appena. Provai un moto di simpatia per quella palla di lardo. «Sul molo. Ethan è andato da lei».
Gabriel si soffiò il naso con un fazzoletto sbrindellato. «È stata una scena toccante».
La mia sorellina che non voleva mai piangere davanti a noi. Colsi l'occhiata d'avvertimento che mi scoccò Remiel, ma non era necessaria. Sebbene non mi fidassi ancora dell'idiota ispanico, ero sollevato che non fosse da sola.
Callum si fermò al mio fianco. «Chiamiamoli. È il momento di dire addio».
Mentre tutti sciamavano fuori, trattenni Arya per il gomito. «Mi è stato riferito che mi hai salvato la vita, tesoro».
Lei si strinse nelle spalle. «In tutta onestà non so neanche come io abbia fatto».
«Beh, rimango comunque in vantaggio». Mi scoccò un'occhiata esasperata, alla quale risposi con un mezzo sorriso. Tentennai, posando lo sguardo sulla sua pancia. «Come state?»
Un lampo perplesso le balenò sul volto. Poi le sue labbra si incresparono all'insù e replicò: «Staremo bene». Annuii e feci per allontanarmi, ma mi richiamò. «Nicholas?»
«Sì, angioletto?»
«Grazie».
Eravamo allineati uno accanto all'altro sulla riva del lago. Senza accorgercene, ci eravamo disposti nell'ordine dei nostri numeri. Con alcuni intrusi. Ethan e Arya colmavano lo spazio vuoto tra Callum e Remiel, Seth apriva la fila alla mia sinistra e Will la chiudeva alla destra di Alexander.
La luce del crepuscolo gettava riflessi infuocati sulla sua superficie limpida, mentre il sole morente calava a poco a poco dietro il profilo dentellato dell'orizzonte. Il cielo era striato di stralci di nuvole rosate, ma già stavano facendo capolino le prime stelle simili a cicatrici bianche.
Il funerale al tramonto era una tradizione dei De'Ath. La morte era figlia delle tenebre, perciò i cari defunti si dovevano salutare durante il passaggio tra il giorno e la notte.
Il rito originale prevedeva una processione in cui i famigliari trasportavano la bara fino al mausoleo, ma Kath meritava di meglio che marcire sottoterra insieme a quella strega di nostra madre. Inoltre, se fossimo dovuti scappare da Notturn Hall, lasciare le sue spoglie in una tomba era pericoloso. L'Olympus non avrebbe esitato a profanarla pur di impossessarsi dei suoi resti e avere qualcosa per mandare avanti la loro ricerca.
Will mosse un passo avanti. Tra le mani stringeva l'urna nera dalle rifiniture dorate, con intarsi di uccelli e teschi in rilievo. I corvi gracchiavano così forte che dovette attendere per iniziare a parlare. «Io e Kath non ci conoscevamo da molto» esordì, dopo essersi schiarito la gola. «Sembra stupido dire che è stato un colpo di fulmine, ma in realtà penso che lei fosse quel tipo di persona che ti piace e basta. È inevitabile. Perché non era solo una ragazza bellissima, la più bella che io avessi mai incontrato in effetti, e non sto esagerando...»
Tossicchiò, strofinandosi una manica sulla guancia. «Ma aveva anche un cuore enorme. Ne ho avuto la conferma quando si è presentata di primo mattino alla mia porta per accertarsi che i suoi brownies fossero buoni, perché ci teneva davvero a non deludere i suoi fratelli. Avrei tanto voluto avere il tempo di conoscerla meglio». Prese una piccola manciata delle ceneri e le lasciò disperdere nell'aria. «La mia nonnina ti avrebbe adorata».
Dopodiché, l'urna passò ad Alexander. Non disse niente. Aveva sempre preferito i gesti alle parole. Posò appena le labbra contro la pietra, poi allungò il pugno chiuso verso l'acqua e liberò i granelli poco alla volta in un lento addio.
Venne il turno di Sky. Avanzò fino a immergere le caviglie nel lago, tirò fuori la mano dall'urna e la tenne ben chiusa davanti a sé. «Grazie per essere la migliore sorella che si potesse desiderare». La voce le si incrinò. Il suo sguardo cercò il mio, e come sempre lo trovò. «Grazie per essere stata la cosa più vicina a una madre che abbiamo mai avuto».
Un soffio di vento ci avvolse proprio mentre liberava le ceneri, dolce e delicato come una sua carezza. La gola mi si serrò. Mi massaggiai il petto e dischiusi le labbra, cercando di immettere aria nei polmoni.
Forse Isaac stava dicendo qualcosa tra le lacrime, ma me ne accorsi a malapena. Il dolore mi stava soffocando. Del genere peggiore, quello che le cicatrici le lasciava nell'anima. Squarci profondi e sanguinanti che nessun potere e nessuna vendetta poteva rimarginare.
Poi la sentii. La mano fredda di Seth che avvolgeva la mia nella tasca, le sue dita che si incastravano alle mie e scioglievano la morsa in cui le tenevo serrate. Tornai a respirare.
Da qualche parte, dentro di me, ero ancora arrabbiato e deluso per le sue bugie. Ma ora potevo soltanto fissarlo e ringraziarlo per essere il mio ossigeno in un mondo che continuava ad affogarmi.
Joel si rigirò l'urna tra le mani, quasi non sapesse cosa farsene. Rimase in silenzio per così tanto tempo che chiunque avrebbe pensato che si fosse imbambolato, io invece sapevo che cosa stava facendo: combatteva contro la sua fragilità, determinata a riemergere dagli strati di sarcasmo e indifferenza sotto cui la teneva sepolta.
«Per sempre insieme... lo avevamo promesso». Abbozzò un sorriso triste. «Ma immagino che i per sempre non esistano neanche per noi. Spero che in Paradiso ti mettano ai fornelli, mamma chioccia, così magari gli angeli ti rispediscono a casa».
Ci fu una debole risatina. Joel diede una carezza all'urna, poi ci ficcò dentro la mano e sparpagliò altre ceneri. La consegnò quindi a Gabriel, che tirò rumorosamente su con il naso prima di esordire col suo discorso. «Se dovessi scegliere una metafora a cui paragonare nostra sorella, direi che era luce allo stato puro». Esitò, girandosi verso Isaac. «Questa è una metafora, vero?»
Deficiente. Scossi la testa, senza riuscire a reprimere uno sbuffo divertito.
«Comunque, eri la nostra luce e, adesso che sei nell'oscurità, brilli ancora più intensamente. Per questo oggi mi sono vestito di giallo e per questo avevo proposto una playlist dei Chase Atlantis come colonna sonora. So che vorresti vederci felici, anche...» Gabriel scoppiò a piangere. «Non ce la faccio, scusate».
Remiel gli diede una pacca e prese l'urna, dopo che anche lui ebbe ripetuto lo stesso gesto degli altri. Lanciò un'occhiata ad Arya, che gli fece un sorriso d'incoraggiamento, poi camminò fino alla riva.
Gettò nell'acqua un tulipano bianco. «Non mi piace pensare che questo sia un addio, né un arrivederci. Ogni saluto presuppone che l'altra persona se ne sia andata, ma tu non ci hai lasciati e non lo farai mai. Siamo una famiglia, uniti da un legame molto più forte di sangue e ossa. Lo saremo per l'eternità».
Quando tornò indietro e porse l'urna, Arya si voltò verso Callum per accertarsi di avere la sua approvazione. A un cenno del capo, la afferrò con fare esitante. «Kath è stata la prima a cui ho detto della gravidanza. Non riuscivo ad ammetterlo a mia madre, a Ethan e nemmeno a me stessa, ma a lei sì. Una perfetta estranea, o quasi. Sentivo di potermi fidare e avevo così tanta paura di essere giudicata da non rendermi conto che mi aveva accettata in questa famiglia prima ancora che io volessi farne parte».
Si mordicchiò il labbro, poi terminò: «Il suo cuore era pieno della bontà che non aveva mai ricevuto, dell'amore che non le era mai stato dato e della speranza che non aveva mai avuto ragione di avere. E sarebbe stata una zia meravigliosa».
Non avevo mai pensato molto a mio figlio. O meglio, mi sforzavo di non farlo, perché la sola idea di diventare padre era terrificante.
Ma la consapevolezza che non avrebbe mai conosciuto Kath si abbatté su di me con una violenza inaspettata. Lei, che probabilmente vedeva in quel bambino tutte le possibilità che a noi erano state negate, non l'avrebbe mai tenuto tra le braccia. I nostri genitori le avevano tolto anche questo.
Le tenebre si stavano infittendo intorno a noi, quando Ethan consegnò l'urna a Callum. Lui sembrò prenderla con un gesto meccanico e la tenne sollevata davanti a sé, all'altezza del volto. La sua espressione era impassibile, gelida.
Si sarebbe potuto credere che non provasse nulla. Eppure, riuscivo a scorgere la sofferenza nel suo sguardo, tanto palpabile che avrei voluto strappargliela e ficcarla dentro di me.
«Una volta la nostra madre biologica ci ha detto che eravamo nati a distanza di sette minuti» cominciò Callum in tono piatto, rivolto direttamente alla sua gemella. Sembrava essersi dimenticato che c'eravamo. «Avevo solo quattro anni all'epoca, ma mi rimase impresso. Non mi capacitavo di come fosse possibile che avessi vissuto sette minuti senza di te. Sei in tutti i miei ricordi, e hai reso più belli persino i peggiori».
Fece una breve pausa per riprendere fiato. Le mani gli tremavano. «Ho sempre pensato che essere nati insieme significasse che saremmo morti insieme, anche se nel profondo mi auguravo di essere io il primo. Ancor prima di giurare di proteggere i nostri fratelli, avevo giurato di proteggere te. Perché a ogni colpo che la vita ti dava trovavi il modo di rispondere con un sorriso e quel sorriso era l'unica cosa che avevo».
Chiuse gli occhi e posò un bacio sull'urna, bisbigliando: «Sei e sempre sarai la metà migliore di me, sorellina».
Appena Seth lasciò la mia mano, capii che cosa stava succedendo. Per un attimo fui tentato di girarmi e scappare via più velocemente che potevo, abbastanza lontano da potermi illudere che era solo uno dei miei incubi da cui mi sarei svegliato.
Invece, mi vidi allungare le braccia e sorreggere l'urna come se fosse l'oggetto più prezioso mai esistito. In un certo senso, lo era. Qui c'era tutto ciò che restava di mia sorella. Era polvere ormai, e presto non ne sarebbe rimasto niente. Solo uno spettro scolpito nella memoria.
Mi avvicinai al lago con un'andatura zoppicante. Quando mi fermai, l'acqua mi arrivava fino alle ginocchia. Era la mia ultima occasione per parlarle, ma c'era troppo da dire e poco tempo per farlo. Dubitavo anche di esserne in grado. Avrei dovuto ringraziarla per la sorella che era stata, scusarmi per il fratello che ero stato io e confessare quanto le volessi bene. Ma era tardi.
C'era un'unica cosa che potessi fare per dimostrare il mio pentimento.
«Avrà una storia diversa dalla nostra. Una storia migliore. Almeno un De'Ath scoprirà che cosa si prova a essere amati» sibilai a fil di voce, tenendo lo sguardo basso. «Te lo prometto, sorella».
Inclinai l'urna per rovesciarne il contenuto, ma mi paralizzai a metà. Il cratere nel mio petto si allargò. Non ce la facevo. Non potevo perderla. Com'era possibile che non l'avrei mai più rivista? Che non avrei più assaggiato qualche sua disgustosa ricetta? Che non avrei più sentito il suo odore, il suono della sua voce, il calore del suo sorriso? Era ingiusto, era sbagliato.
Seth mi affiancò e mise le mani sulle mie. Conficcai gli occhi nei suoi, mentre insieme disperdevamo nell'acqua le ceneri residue. «Requiescat in pace» recitammo in coro io e i miei fratelli.
Uscimmo dal lago e depositai a terra l'urna vuota. Nessuno si era ancora mosso. Mi allontanai per primo, da solo, inseguito dai loro sguardi che mi premevano sulla schiena. Mi diressi verso il mausoleo, scesi i ripidi gradini scavati nel terreno e mi incamminai tra le lapidi. L'ambiente era rischiarato appena dal chiarore della luna che filtrava tra le crepe.
Mi fermai davanti alla tomba di mia madre. Sfiorai con un dito le lettere dell'epitaffio in rilievo sul granito: "Hodie mibi, cras tibi". Oggi a me, domani a te. Aveva avuto ragione, alla fine. Come sempre.
«Scommetto che te la stai ridendo laggiù all'inferno, mamma». Potevo quasi udirne il suono, acido e sprezzante.
Assalito dalla rabbia, caricai un pugno con le poche energie a mia disposizione e la colpii. Una ragnatela di crepe comparve sulla lastra. Gliene sferrai un altro, ignorando i crampi che si arrampicavano su per il braccio. Si aggiunsero altre spaccature. Rigagnoli di sangue sgorgavano dalle nocche frantumate. Barcollai, la stanchezza che mi gravava addosso come una cappa. Un altro e avrebbe ceduto.
Uno scalpiccio riecheggiò lugubre nella caverna fredda e umida. «Che cazzo fai?» Seth mi agguantò per i fianchi e mi tirò indietro con tale foga che rischiai di inciampare. «Non ti hanno fatto già abbastanza male? Devi fartene anche tu?»
Mi sottrassi alla sua presa, ondeggiando un poco. Era il momento di fare ciò che era necessario. Era meglio per entrambi, per tutti. Non potevo permettermi debolezze d'ora in poi. «Mi hai mentito su qualcos'altro?»
Seth si inchiodò sul posto, rabbuiandosi. «Hai appena detto addio a tua sorella. Non credo che dovremmo parlarne ora».
Mi appoggiai a una grossa lapide, intanto che una risata amara mi scaturiva dalla gola. Sputai un grumo di sangue. «Già. Avremmo dovuto parlarne circa sette anni fa, se solo ti fossi fidato abbastanza di me da essere sincero».
«Mi dispiace».
La sua voce era così piena di rimorso che mi trafisse come una pugnalata. Contrassi la mascella. «Dopo tutto ciò che abbiamo passato, era davvero così difficile dirmi la verità?»
Lo sguardo di Seth brillava nel buio come un cielo stellato. Ridusse la distanza tra i nostri corpi, pur senza sfiorarmi. «Avevo paura».
Lo stomaco mi si contrasse. «Di me?»
«Paura di perderti» specificò Seth, quasi fosse la cosa più scontata al mondo. Non lo era. Non valevo così tanto da dover temere di perdermi, ma lo lasciai proseguire. «Eri tutto ciò che avevo, Nik. A nessuno era mai importato niente di me, prima che le nostre strade si incrociassero. Grazie a te svegliarsi alla mattina non è più stata una condanna, grazie a te non mi sentivo più invisibile. Non volevo tornare a essere solo».
Un groppo mi si incastrò in gola. Ancora mi stupiva quanto fossimo simili, io e lui. Dall'istante in cui eravamo nati le nostre esistenze erano state una guerra per la sopravvivenza, e Kath era la conferma che non avremmo vinto tutte le battaglie.
Proprio perché eravamo danneggiati allo stesso modo era meglio che stessimo alla larga uno dall'altro. Aveva già il peso del suo passato da sopportare, senza che gli caricassi anche il mio sulle spalle.
Dovetti ricorrere a tutta la mia forza di volontà per costringermi a pronunciare le parole successive. «Qualsiasi cosa ci fosse tra di noi è finita. Non avremmo dovuto neanche cominciarla. Non mi perderai mai, a prescindere da quanto male tu mi faccia, ma non possiamo stare insieme». Socchiusi le palpebre per scacciare la foschia che mi appannava la vista. «Non sono fatto per amare, Seth, né tantomeno per essere amato. Questa ne è l'ennesima prova».
Prima che potessi andarmene, mi prese per il polso e mi attirò verso di sé. Le sue labbra erano a pochi centimetri dalle mie, il suo cuore così vicino che sembrava battere nel mio petto. «Ti prego, dimmi solo che mi perdonerai. Che sia tra un mese, un anno o una vita intera, non importa. Dimmi solo che un giorno potrai perdonarmi». Una lacrima gli solcò la guancia. «Perché anche se resterò ad aspettarti fino al mio ultimo respiro, il pensiero che tu possa odiarmi mi distrugge».
Un minuscolo sorriso mi affiorò sul viso e ringraziai che non potesse vedermi. L'illuminazione era troppo scarsa per un essere umano. Aprii la bocca per rispondere, ma poi la mia attenzione venne catturato dalla lapide che mi stava di fronte, vicina a quella di mia madre. Scansai Seth con delicatezza, corrucciato.
Il nome del defunto era Jayson De'Ath. Tuttavia, era stata la frase in latino che vi era riportata a destare il mio interesse. Qualis pater talis filius.
"Non era una minaccia o una provocazione" intuii all'improvviso. "Era un indizio".
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