𝕮𝖆𝖕𝖎𝖙𝖔𝖑𝖔 40 (Callum)
“𝔄 𝔠𝔥𝔦 𝔠𝔞𝔡𝔢 𝔰𝔢𝔫𝔷𝔞 𝔣𝔞𝔯 𝔯𝔲𝔪𝔬𝔯𝔢
𝔢 𝔥𝔞 𝔞𝔡𝔡𝔦𝔯𝔦𝔱𝔱𝔲𝔯𝔞 𝔩𝔞 𝔣𝔬𝔯𝔷𝔞
𝔡𝔦 𝔰𝔬𝔯𝔯𝔢𝔤𝔤𝔢𝔯𝔢 𝔤𝔩𝔦 𝔞𝔩𝔱𝔯𝔦”
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L'enorme schema si dispiegava di fronte a me. Durante la notte avevo riassunto su una lavagna gli indizi raccolti dal nostro arrivo a Notturn Hall, scritti secondo un preciso ordine con un pennarello, nella speranza di riuscire a trovare un filo conduttore. Da una parte c'erano le briciole di pane lasciate da Lucius: l'indovinello, Typhous, la frase in latino. Dovevo anche capire come si fosse introdotto nel castello, dato che con i lavori di ristrutturazione avevo fatto cambiare tutte le serrature.
Dall'altra c'era Uranus con il suo esercito di soldati, la sua spia e le taglie che aveva imposto sulle nostre teste. Senza dimenticare Keegan e il Soggetto Alfa, ammesso che non si trattasse della stessa persona. Avevo aggiunto anche un ultimo tassello, ovvero la misteriosa morte di Charles Black. Iniziavo a dubitare che fosse opera dell'Olympus: perché mai avrebbero ucciso l'unico che sapeva dove Thomas Stone ci teneva nascosti?
No, non era il loro modo di agire. Prima lo avrebbero costretto a parlare, minacciando la sua famiglia e i suoi amici, e solo in seguito – una volta accertata la veridicità delle sue parole – si sarebbero sbarazzati di lui.
La porta dell'ufficio di spalancò. Kath si bloccò sulla soglia, una mano posata sulla maniglia. Il suo sguardo indugiò sull'enorme lavagna addossata alla parete, poi si spostò su di me. «Disturbo?»
«Mai».
Lei entrò e richiuse la porta dietro di sé. Malgrado l'espressione preoccupata, un sorriso radioso le aleggiava sul viso. Sospettavo che c'entrasse l'hacker con cui usciva ogni tanto, Will. Le stava persino insegnando a cucinare bene. «Dobbiamo discutere di Arya».
Rilasciai un sospiro profondo. Annuii e mi appoggiai sul bordo della scrivania, le braccia incrociate sul petto. «Nicholas non avrebbe dovuto rivelarle il nostro segreto con tanta superficialità».
«Ormai lo aveva visto. E lo avrebbe scoperto comunque, prima o poi». Kath si sedette sulla poltrona, portandosi una ciocca ramata dietro l'orecchio. «Anche se avrei preferito che succedesse in maniera un po' meno... traumatica».
Inarcai un sopracciglio. «È una frecciatina?»
«No, ma avremmo dovuto dirglielo dal momento in cui abbiamo saputo che era incinta. È stato sleale». Si strinse nelle spalle esili. «Almeno adesso può decidere se vuole proseguire o meno la gravidanza, nonostante ciò che siamo. Ciò che sarà anche suo figlio».
Il cuore mi si contrasse in uno spasmo doloroso. Ovviamente avevo considerato l'ipotesi che la nostra natura potesse spingere Arya a rivalutare l'idea dell'aborto, ma mi rifiutavo anche solo di pensarci.
Era crudele negare a un innocente la possibilità di vivere per qualcosa di cui non aveva colpa. Nostro nipote meritava almeno l'occasione di poter essere migliore, di dimostrare che noi De'Ath non eravamo condannati all'oscurità. Avevo bisogno di credere che fosse stato il nostro passato ad avvelenarci, non il nostro sangue.
Scossi il capo. «Dobbiamo convincerla a tenerlo».
«Non è una scelta nostra, Callum. Non possiamo obbligarla a passare il resto della sua vita in fuga». La sua voce era intrisa di dolcezza, eppure vibrava di determinazione. «Quel bambino è una specie di miracolo genetico. È il primo a essere concepito già con la mutazione, per quanto ne sappiamo. Immagina che cosa farebbe l'Olympus pur di studiarlo...»
«Allora proponiamole di affidarlo a noi» replicai, rizzandomi di scatto. «Restare qui per altri sette mesi è rischioso, lo ammetto, ma possiamo farlo».
Kath corrugò la fronte. «Vuoi davvero che cresca senza una madre? Cosa pensi che diventerà seguendo il nostro esempio?»
Mi ammutolii. Puntai gli occhi grigi sul nome che campeggiava al centro della lavagna, il fulcro di ogni nostro problema. Nei sei anni in cui eravamo stati separati, Nicholas aveva dato la caccia e massacrato gli scienziati che avevano partecipato al nostro Progetto. Ma non era abbastanza, non più. «Dobbiamo distruggere l'Olympus».
«Non sei stato tu a dire a Nik che è una guerra che non possiamo vincere?»
Contrassi la mascella, voltandomi di nuovo verso la mia gemella. «Forse aveva ragione. La nostra famiglia è rimasta in difesa per troppo tempo. Adesso basta scappare, cambiamo le regole di questo gioco. A partire da Uranus».
Kath si alzò. «Che hai in mente?» Mi puntò contro l'indice, accigliata. «E non mentirmi, perché lo capisco sempre».
«Non ti piacerà». Un lampo d'incertezza le guizzò sul volto e l'angolo della mia bocca si piegò all'insù. «Ti fidi di me?»
«Non quando me lo chiedi così, no». Con mia sorpresa mi strinse in un abbraccio, il mento affondato nell'incavo del mio collo. Non ricordavo neanche quando era stata l'ultima volta che ne avevo ricevuto uno. Era una sensazione piacevole, malgrado il contatto fisico mi facesse sentire a disagio. «Promettimi che non morirà nessuno».
La ricambiai, cingendola a mia volta con un certo impaccio. Era più bassa di me di qualche spanna e appariva fragile nella mia presa. La mia sorellina. «Non morirà nessuno».
Ancora non sapevo che fosse una bugia.
Fase I: Esca
Callum:
“Ti va un drink?”
Seduto in disparte a un tavolino, continuai ad aprire e chiudere le dita della mano mentre controllavo lo schermo ogni cinque minuti. Avevo cercato di distrarmi contando il numero di finestre del bistrot e memorizzando le facce e le ordinazioni dei pochi clienti presenti, invano. Ero ancora in tensione.
Non avevo modo di verificare che le mie teorie fossero giuste, quindi avevo dovuto considerare un margine d'errore non indifferente, ma mi restava comunque un vantaggio: conoscevo i miei nemici più di quanto loro conoscessero me. Dovevo solo portarli esattamente dove volevo io, senza che capissero che non fossero loro a manovrare i fili dello spettacolo.
La porta del Grumpy si aprì con un tintinnio ed esalai un lungo respiro, riponendo il telefono. Si va in scena.
«C'è un vento del diavolo fuori. Brrr» esclamò Seth, sfregandosi le mani intirizzite sulle braccia. I ricci erano arruffati e aveva le guance arrossate per il freddo. «Perché hai voluto incontrarci qui, testone?»
«Ho le mie ragioni». Accennai alla sedia di fronte a me. «Prego».
Lui ciondolò sui talloni, esitante, poi si sedette. Mi rivolse un cipiglio serio, la mascella contratta. «D'accordo, ma ti avverto: non azzardarti a ricattarmi di nuovo. Dovrai uccidermi per allontanarmi da Nik stavolta, oppure dirgli la verità. Anzi, mi sorprende che tu non lo abbia già fatto».
Scrollai le spalle. «Il nostro accordo stabiliva che non glielo avrei detto, se te ne fossi andato. Lo hai fatto e lui ti ha riportato indietro. Sto onorando la mia parte».
Era ironico che ancora mi credesse capace di compiere un'azione che avrebbe potuto nuocere inutilmente a Nicholas. Non mi sorprendeva. Persino nella mia famiglia pensavano che sarei stato davvero in grado di rinchiudere uno dei miei fratelli in cella per punizione, o che le mie restrizioni su di loro fossero dettate da chissà quale mania del controllo.
Ma andava bene così. Era il ruolo che mi era stato dato da interpretare, e fintantoché fosse servito a proteggerli nient'altro contava per me.
Seth si abbandonò contro lo schienale, guardingo. «Allora che vuoi?»
«L'uomo di Uranus che avevamo catturato, Albert Morrison, te lo ricordi?»
Annuì.
«Beh, non è stato completamente inutile. Ho mentito a riguardo». Tamburellai le dita sul tavolo. «Prima che lo uccidessi, mi ha rivelato che Uranus utilizzava una cappella nei dintorni della città come quartier generale. Anche se ormai lo avranno smantellato, voglio andare a controllare».
«Ha senso. I luoghi sacri vi indeboliscono». Un'espressione confusa gli si dipinse sul volto. «Però non capisco. Per quale motivo lo stai dicendo a me?»
«Ho bisogno del tuo aiuto per trovare quella cappella. Hai vissuto per un po' a Notturn Hall, giusto? Magari ti è capitato di vederla». Presi a spazzolarmi la manica della giacca, rimuovendo i pelucchi scuri lasciati dal gatto. «Deve essere vecchia, ma non troppo rovinata. Spaziosa, con una cripta, abbastanza isolata da non attirare l'attenzione. Ti dice niente?»
Seth assunse una smorfia assorta e si grattò il naso, dove spiccava ancora un taglietto per lo scontro nel bosco. «C'è una chiesetta, in aperta campagna. Posso mandarti la posizione. Io e Nik ci abbiamo dormito una notte, quando stavamo scappando da... ehm, lascia stare».
Arcuai un sopracciglio, ma non feci domande. Lanciai un'occhiata al mio orologio da polso, provando un senso di sollievo per la fine di quella messinscena. Non mi aveva detto nulla che non sapessi già.
Al contrario di Lucius, che era troppo furbo per poter essere manipolato tanto facilmente, ero sicuro che Uranus avrebbe abboccato. Era così egocentrico che ai suoi occhi continuavamo ad apparire come animali mossi dal puro istinto, come cavie che seguivano un percorso prestabilito nel labirinto in cui erano intrappolate.
Apprendere che i suoi piccoli mostri avevano la straordinaria abilità di ragionare sarebbe stata un'amara delusione.
Seth fece per alzarsi. «Se abbiamo finito...»
«Non così in fretta, Septimus».
«Toglimi questo dubbio. Lo fai apposta o sei solo un coglione?»
Lo afferrai per il polso e lo costrinsi a rimettersi al suo posto. Tornai composto, aggiustandomi i polsini della camicia. «Vorrei che tu parlassi con Arya a proposito della nostra natura».
Mi fissò incredulo. «Io?»
«Tu» confermai in tono pacato. «Sei l'unico umano che sa cosa siamo e, nonostante ciò, non hai paura di noi...»
«Di te ne ho. Parecchia».
Lo fulminai lo sguardo. «Al momento Arya è spaventata. I miei fratelli non riescono ad avvicinarla nemmeno a scuola, e forzarla sarebbe controproducente. Ma dobbiamo farle capire che non siamo un pericolo per lei o per suo figlio. Proteggeremo nostro nipote a qualsiasi costo, se ce ne darà l'opportunità». Il mio telefono cominciò a vibrare e lo tirai fuori dalla tasca. «È questo che vorrei che le spiegassi. Dei dettagli tecnici ce ne occuperemo in futuro».
Seth increspò la fronte. «Con "dettagli tecnici" intendi la vostra particolare e affatto raccapricciante dieta alimentare?»
Emisi un mugolio d'assenso, intanto che cliccavo sulla notifica del messaggio appena ricevuto. Un calore mi si propagò sulle guance e la morsa dell'ansia tornò ad attanagliarmi il petto come un abbraccio infernale. Facevo fatica a respirare, tanto che dovetti allargarmi il colletto.
Rosalie: “I bimbi ti hanno
rubato di nuovo il telefono,
pezzo di ghiaccio?”
Le mani presero a tremarmi, rendendo digitare la risposta un'operazione piuttosto complicata.
Callum: “Divertente.
Ho un debito, no?”
Deglutii, tentando di ricacciare giù il groppo incastrato in gola. Era solo una recita, una stupida recita. Fingere di cedere alle sue avances era un pretesto, una necessità per far funzionare il piano. Lo facevo per la mia famiglia. Non ero innamorato, al contrario di quanto sostenevano i miei fratelli. A me non succedeva.
Rosalie: “Purtroppo non
sono nelle condizioni di uscire”
Mi corrucciai. Non era nelle condizioni, strana scelta di parole. Stava male? Le era successo qualcosa? Non avrebbe dovuto interessarmi, ma era pur sempre mia socia in affari. Avevamo un accordo e finché non lo avesse violato, cioè presto, era mio compito preoccuparmi per lei. Inoltre, avevo bisogno che recitasse la sua parte.
Callum: “Vengo io allora”
Una risatina mi fece trasalire. «Sei proprio cotto a puntino».
Sollevai lo sguardo su Seth, che nel frattempo aveva ordinato una fetta di torta di mele e mi stava scrutando con un largo sorriso. Era sempre così allegro da farmi venire la nausea. «Non è vero» bofonchiai, mettendo via il telefono. «È un rapporto strettamente professionale».
«Dovresti vedere la tua faccia, giuro. È rossa come un pomodoro».
Espirai bruscamente un fiotto d'aria dalle narici. «Non capisco come faccia mio fratello a sopportarti».
Seth sogghignò e divorò un altro pezzo di torta, masticando con foga. Il mio stomaco si ribaltò. Ero affamato, ma di un tipo completamente diverso di appetito. Mi affrettai a guardarmi attorno, dolorosamente consapevole di essere circondato da ventidue esseri umani. Ventidue cuori pulsanti che mi richiamavano con i loro battiti.
Fin da piccolo avevo un rapporto difficile col cibo normale; quando ero nervoso o sotto pressione, non riuscivo a ingerire nulla. Il problema era che meno mangiavo e più il bisogno di nutrirmi di anime diventava irrefrenabile, per sopperire alla mancanza.
Mi tirai in piedi, ignorando le due ragazze al tavolo accanto che mi indicavano con dei risolini. Dopo essersi quasi strozzato con l'ultimo boccone, Seth diede la mancia alla cameriera e mi seguì verso l'uscita.
Per sbaglio andò a sbattere a un uomo che si stava dirigendo verso il bancone e mi accorsi solo in seguito che gli aveva rubato qualcosa. Era un grosso anello d'argento, con una stella incisa sulla parte superiore piatta e una piccola pietra nera al centro. A discapito dei miei riflessi, era riuscito a sfilarglielo senza che neanche lo notassi.
«Sul serio?» obiettai, fermo in mezzo al marciapiede.
Seth si strinse nella felpa, nascondendo il bottino nei pantaloni. «Ehi, io non giudico mica le vostre passioni».
Scrollai le spalle. Le folate di vento erano talmente forti da flettere le fronde degli alberi quasi fino a terra, anche se ero più preoccupato per lo stato in cui si sarebbero ridotti i miei capelli. Osservai il turbinio di nubi che mulinavano nel cielo grigio, divorando la luce del pomeriggio.
Era in arrivo l'ennesimo temporale.
Fase II: Trappola
Mi allontanai a piedi senza salutare Seth e mi recai all'indirizzo che mi aveva mandato Rosalie. Arrivai di fronte a un gigantesco palazzo, affacciato sulla piazza, con un atrio di marmo ricoperto di tappeti pregiati e un grosso lampadario di cristallo che pendeva dal soffitto.
Entrai nell'ascensore e cliccai il tasto corrispondente all'ultimo piano. Mentre il cubicolo si muoveva silenzioso, cercai di rassettarmi i vestiti e mi pettinai i capelli con le dita, sperando di non avere un aspetto osceno.
Le porta si spalancarono su un breve corridoio dalla moquette rossa e i pannelli in legno alle pareti. Nel vedermi i due uomini di guardia si irrigidirono ed entrambi portarono la mano alla fondina nascosta sotto la giacca. Sapevano che non avrebbero avuto alcuna possibilità contro di me, ma avere un'arma doveva rassicurarli. Ignorando il loro disgusto, mi avvicinai e suonai il campanello.
Rosalie aprì dopo una manciata di secondi, rivolgendomi un sorriso un po' meno smagliante del solito. Aveva un grande livido violaceo sullo zigomo, un labbro spaccato e la mascella leggermente gonfia. Per una volta era struccata, nessun gioiello addosso. Indossava una semplice maglietta scollata e dei pantaloni della tuta.
Eppure, era comunque bellissima. Lo era persino di più, quando non si impegnava ad apparire tale.
Mi paralizzai. «Che ti è successo?»
«Per galanteria, avresti potuto fingere che non fossero così evidenti».
«Dovrei essere cieco».
Rosalie ridacchiò appena, sussultando per il dolore, e si scansò di lato a mo' di invito. Avanzai dentro il suo attico, le mani che fremevano nelle tasche. Ero talmente furioso che non mi soffermai nemmeno ad apprezzare l'eleganza dell'ampio soggiorno. Volevo scoprire chi le avesse fatto del male e ammazzarlo.
Mi voltai. «Dunque?»
Rosalie richiuse la porta e andò ad afflosciarsi su un divano componibile di pelle bianca, tenendo una mano premuta su un fianco. Aveva le nocche rovinate. «Un incontro di boxe. Può stupirti, ma ogni tanto le prendo anch'io». Con un mugolio, si protese verso il tavolino scuro dagli intagli d'argento.
La anticipai di scatto. Presi la busta del ghiaccio prima che lo facesse lei, mi inginocchiai al suo cospetto e gliela posai contro la guancia coperta dall'ematoma. Avevo paura di farle male, quindi esercitai una pressione minima. «Dovresti stare più attenta» la ammonii, fissandola dal basso.
Rosalie mi avvolse la mano con la sua, piccola e calda, e mi fece premere più forte il ghiaccio. Quel contatto sembrò scottarmi, ma non mi sottrassi. Non avrei potuto neanche volendo, non con i suoi occhi da cerbiatto che mi soggiogavano. «Il mio avversario è messo peggio, te lo assicuro».
"Se dipendesse da me, non starebbe più respirando".
«Non ne avevo dubbi» dissi invece, spostando il peso sull'altro ginocchio. Per fortuna il pavimento resinato era talmente lucido e pulito da potercisi specchiare. Non volevo sporcarmi.
Malgrado il divano fosse spazioso, non mi azzardavo a sedermi al suo fianco. Il mio cervello diventava più inutile delle paperelle nella vasca da bagno di Gabriel, quando mi stava troppo vicino.
Odiavo il modo in cui il suo profumo mi impediva di ragionare. Non ero abituato a non avere il controllo della situazione, e con lei non ci riuscivo mai. Era frustrante.
Rosalie ruotò il busto in maniera da incastrare il mio corpo tra le sue gambe e si chinò in avanti, torreggiando su di me. Anche se immaginavo che lo avesse fatto per stare più comoda, i muscoli delle mie spalle si tesero. «Perché sei venuto?»
Le spostai il ghiaccio sulla mascella, inducendola a piegare un poco la testa. «Ho bisogno di un favore».
«È una frase che ti sento pronunciare spesso». Rosalie mi passò il dito sulla leggera barba. «Quindi non eri preoccupato?»
A disagio, feci vagare lo sguardo per il salone. Una parete era occupata da finestre alte fino al soffitto, prive di tende, che davano su un solario con degli sdrai coperti da ombrelloni e una vasca idromassaggio. Le altre erano tappezzate di opere d'arte racchiuse in cornici dorate. Una porta socchiusa conduceva a una saletta adiacente, mentre in cima a tre bassi scalini si spalancava la camera da letto.
Accanto al minibar, c'era una splendida vetrinetta che conteneva una ricca collezione di modellini d'auto da corsa, disposti in file parallele uno accanto all'altro. Feci una smorfia nel notare che alcune erano storte, rompendo la simmetria altrimenti impeccabile.
Individuai una conchiglia dipinta con colori vivaci su un pilastro, protetta da una teca di vetro, e mi sfuggì un piccolo sorriso. La indicai. «La tua sorellina?»
«L'ha fatta all'asilo, un anno fa. Me l'hanno mandata i suoi genitori adottivi».
Tornai girato verso di lei. Era turbata, lo percepivo. Riposi la borsa termica sul tavolino e incatenai le iridi alle sue, il respiro che mi si faceva pesante. «Posso fare altro?»
Il suo sorriso malizioso si allargò. «Un bacino sulla bua?»
Un vago calore mi affiorò sulle guance. Sapevo che mi stava provocando per mettermi in difficoltà, e in circostanze diverse gliel'avrei data vinta, ma al momento dovevo rimanere fedele al mio copione. Avevo promesso alla mia famiglia che avrei cercato di trarre vantaggio dalla sua attrazione nei miei confronti, perciò feci l'ultima cosa che si sarebbe aspettata.
Mi protesi in avanti e le strofinai le labbra sul livido con delicatezza. Rosalie soffocò un gemito sorpreso, agganciando le caviglie alla base della mia schiena. Rabbrividii e depositai un bacio sulla cicatrice che le segnava la guancia, per poi sussurrarle all'orecchio con voce roca: «Soddisfatta?»
Prima che potessi ritrarmi, Rosalie mi afferrò per il nodo della cravatta e mi costrinse ad avvicinarmi fino a che dovetti puntellare i gomiti sulle sue cosce, per non perdere l'equilibrio.
Avrei potuto oppormi, invece mi ritrovai ad assecondare il suo volere un idiota. Anche se mi piaceva crogiolarmi nell'illusione di avere ancora il comando, nel profondo iniziavo a credere che avrebbe potuto convincermi a fare qualsiasi cosa.
Mi portò il viso a pochi centimetri dal suo, le punte dei nostri nasi che si toccavano. I suoi ansimi, sincronizzati ai miei, mi bruciavano la pelle. Rosalie allentò la presa sulla cravatta e risalì lentamente, chiudendo le dita attorno alla mia gola senza stringere. Appena la sua bocca sfiorò la mia, mi sentii invadere dal terrore.
All'improvviso ero in una stanza disordinata.
All'improvviso ero in ginocchio davanti a un'altra persona.
All'improvviso il mio consenso non valeva più nulla.
Balzai in piedi e arretrai, tentando di riprendere fiato. Raddrizzai la cravatta e mi sistemai il colletto con dei gesti nervosi. Nessuno ti toccherà mai più, ricordai a me stesso.
«Ho un piano per risolvere la questione delle taglie» annunciai poi, le mani serrate a pugno per nasconderne i tremiti. «Per questo sono qui. Ho bisogno del tuo aiuto».
L'accenno di delusione sul viso di Rosalie scomparve, rimpiazzata dallo stupore. Si alzò con cautela. «Credevo che non ti fidassi di me».
«Non è necessario che mi fidi affinché funzioni». Le diedi le spalle e mi avvicinai alla vetrinetta, storcendo il naso. I modellini storti al suo interno mi facevano impazzire. «E poi ho capito come facesse Uranus a essere sempre un passo avanti a noi. So che non ci hai traditi, né alla scuola né alla stazione di polizia».
Ma so che lo farai.
«Cosa vuoi che faccia esattamente?»
«Tradirmi».
Seguì un lungo silenzio. Le scoccai un'occhiata e Rosalie sollevò entrambe le sopracciglia. «Per finta» puntualizzai con un sorriso. «Qualche settimana fa, mia sorella Kath ha chiesto a Will di violare il sistema di sicurezza di un cellulare. Apparteneva a un cacciatore di taglie di nome Frank Booth».
Lei fece un cenno. Si fermò davanti al mobiletto del minibar e riempì due bicchieri di whisky. Ne fece scivolare uno sul bancone, verso di me. «Lo so. Ha scoperto che comunicano con Uranus attraverso un sito criptato sul dark web. Vengono usati spesso per acquistare merci illegali o assumere sicari».
Mi sedetti su uno sgabello, feci roteare il liquore ambrato nel calice e bevvi un sorso. Tossicchiai, la gola in fiamme. «Voglio che ti metti in contatto con lui, spacciandoti per Frank Booth. Digli che hai un De'Ath da consegnare e stabilisci il punto d'incontro nella cappella fuori città, così da riscuotere l'ammontare della taglia».
Rosalie si allungò dall'altra parte del bancone e mi scansò una ciocca di capelli che mi ricadeva sulla fronte, accarezzandomi la tempia con l'unghia dell'indice. «Ho un De'Ath?» ripeté in tono seducente, inclinando la testa. «Sei mio, allora?»
Espirai bruscamente. «Non in quel senso».
«Per ora».
Fase III: Cattura
«Come sai che non ha capito che è una trappola?» La voce di Rosalie era nervosa, mentre spegneva il motore dell'auto.
Slacciai la cintura. «Lo sa. È su questo che conto».
Osservai la chiesetta che si stagliava sul pendio, circondata da una folta vegetazione. Il campanile era crollato e l'edera si arrampicava sui muri di pietra come scuri tentacoli che emergevano dalle tenebre. Nel petto mi gravava la consapevolezza, pesante quanto un macigno, di non appartenere a quel posto.
«Non per essere puntigliosa, ma sei sicuro che i tuoi fratelli non mi uccideranno?»
Ruotai il capo nella sua direzione, scrutandola con un'espressione seria. «Non ti accadrà nulla. Hai la mia parola».
Rosalie incatenò gli occhi ai miei, poi si appoggiò allo schienale del sedile e buttò fuori uno sbuffo. «Peccato. Speravo almeno di baciarti prima che ti facessi ammazzare, invece devo accontentarmi di averti visto in ginocchio per me».
La ignorai. «Resta qui».
Aprii lo sportello. Avevo appena messo una gamba fuori che la sua mano mi trattenne per il gomito, facendomi girare. Lei aprì la bocca, esitò e la richiuse. L'incertezza sembrava stonare sul suo volto, forse perché ero abituato a vederla sempre spavalda e padrona di sé. «Stai attento» disse infine, distogliendo lo sguardo.
Annuii. Mi allontanai dalla macchina, il vento che gridava nella notte. Le sue folate erano violente, rabbiose, quasi mi stessero respingendo dal luogo sacro che stavo per profanare. Presi il flaconcino dalla tasca e inghiottii una pasticca per calmarmi. Il cuore mi batteva all'impazzata. Non avevo paura di morire, non avevo mai tenuto così tanto alla vita da temere di perderla, ma non volevo che Kath dovesse convivere col rimorso di non avermi fermato nel caso qualcosa fosse andato storto.
I miei passi rimbombarono sul pavimento viscoso, intanto che avanzavo lungo la navata. Il legno delle panche era marcio, annerito dal tempo. Ogni respiro era una pugnalata ai polmoni, che si ribellavano in cerca d'aria non contaminata. I miei organi si contorcevano, un sapore acre che mi impastava la bocca.
Mi infilai in un passaggio accanto all'altare e scesi le strette scale a chiocciola, saltando i gradini più cedevoli. Spalancai un portone in ferro e giunsi nella cripta. Era un ambiente umido, con possenti arcate bianche venate di crepe a sorreggere le volte sul soffitto e dei candelabri ammuffiti coperti di ragnatele.
Cercai di acuire l'udito, ma i miei sensi rimasero sopiti. Le chiese erano schermate da un potere incompatibile con la mia natura; la reprimeva, la schiacciava, estinguendola come una fiammella intrappolata in una gabbia di vetro.
Il vento fischiava tra le fessure nei muri, sollevando granuli di cenere che mi facevano venire da starnutire. Procedetti fino all'ara sopraelevata al centro della cripta e mi chinai, analizzando i bassorilievi a tema religioso che si snodavano nella fascia inferiore.
Una lunga scritta correva in rilievo sulla pietra: “L'angelo lo gettò nel pozzo senza fondo, che poi chiuse e rinchiuse in modo che Satana non potesse più ingannare le nazioni finché i mille anni non fossero passati. In seguito deve essere rilasciato per un po'”.
«Ci rivediamo, figliolo».
Balzai in piedi. Un uomo imponente mi stava venendo incontro, vestito con una lucida armatura nera rinforzata da guarnizioni in metallo dorato dalle venature rossastre. Teneva il casco sotto l'ascella, i lineamenti del volto distorti in un sorriso beffardo che non si estendeva agli occhi azzurri, puntati su di me. Malgrado i capelli biondi fossero rasati in un taglio militare, la somiglianza con Nicholas era innegabile.
Mi irrigidii. «Ciao, papà».
«Non sembri sorpreso di vedermi».
«Non lo sono». Affondai le mani nelle tasche dei pantaloni, il sudore freddo che mi imperlava la schiena. «Ho capito che c'eri tu dietro l'identità di Uranus da quando ho scoperto che reclutava veterani e marines. Non mi sorprende che ti seguano, dopotutto sei stato un generale».
«Eppure eccoti qui, da solo. Di nuovo a prenderti anche le loro frustate» commentò August, bloccandosi a debita distanza. Le ombre nella cripta tremolarono e capii che mi stavano circondando, strisciando furtivi come serpenti. Non provai nemmeno a contarli. Erano in tanti, bastava questo. «Considerami deluso, Soggetto Uno. Mi aspettavo una trappola, non un agnello sacrificale. Ma forse ho sopravvalutato l'intelligenza di voi bestie».
Rimasi in silenzio. August indietreggiò e i soldati spuntarono dall'oscurità nelle loro divise scure, i fucili puntati verso di me. Non potevo saperlo, ma diedi per scontato che fossero caricati con munizioni in oricalco. Mi concentrai sulla figura di mio padre. Anche lui era ben rifornito d'armi, anche se ad attirare la mia attenzione fu una custodia oblunga appesa alla vita.
«È Seth la tua spia, vero?»
Un guizzo di sorpresa balenò sul viso di August, che si accigliò. «Cosa?»
«All'inizio non capivo proprio come riuscissi sempre ad anticipare le nostre mosse. Poi ho ripensato alla facilità con cui Nicholas ha liberato Seth, a Las Vegas. Mi sono chiesto che cosa avresti potuto guadagnarci dal lasciarlo andare, finché ho unito i puntini». Cominciai a camminare con un'andatura tranquilla. «Seth era presente al bistrot, quando abbiamo discusso di catturare Keegan alla scuola. Era presente anche quando ho ricevuto il messaggio di Lucius. Non c'era invece quando ho deciso di andare alla stazione di polizia, ma Gabriel e Joel potrebbero averlo detto a Seth mentre io e Nicholas eravamo in viaggio. Per questo siete riusciti a fuggire prima del nostro arrivo».
Aprii e chiusi le dita della mano destra più volte, senza interrompere il mio discorso. «Ma ammetto che la conferma l'ho avuta dall'aggressione nel bosco. Non so quale fosse il tuo obiettivo. Immagino che volessi uccidere o ferire Arya per colpire noi, così hai sfruttato il suo ex violento e hai fatto in modo che scoprisse della gravidanza. Un'informazione che avevano solo i membri stretti della nostra famiglia, tra cui Seth».
Man mano che parlavo, il sorriso si era ritirato dalle labbra di August. Un senso di trionfo mi invase. A prescindere da come fosse finita, forse adesso si sarebbe reso conto che le sue stupide piccole cavie erano cresciute. Non eravamo più dei bambini terrorizzati.
«Confesso che non ho la minima idea di come tu stia usando Seth». Non era la verità, ma era ciò che dovevo fargli credere. «Comunque, te l'ho ritorto contro. Oggi pomeriggio ho confidato a Seth di essere venuto a conoscenza di questa cappella, nella quale organizzavi i raduni con i tuoi seguaci. Poi mi sono messo in contatto con il fatidico Uranus e ho stabilito qui il punto d'incontro, con la scusa di voler riscuotere una taglia. Ero certo che avresti intuito che si trattava di una trappola e supponevo che avresti portato con te un vero e proprio esercito. Cosa che hai fatto».
La risata graffiante di August mi provocò un fremito lungo la spina dorsale. Confinai in un angolo della mente i ricordi che lottavano per riemergere, il sibilo della frusta che mi riecheggiava nelle orecchie. «Ciò non cambia che sei stato prevedibile, Soggetto Uno. Non avresti mai messo in pericolo i tuoi preziosi fratelli con un piano così avventato. Arrogante da parte tua pensare di poterci sconfiggere tutti, perlopiù in una chiesa».
«Sei tu l'arrogante, papà. Non io» replicai gelido, affrontando il suo sguardo. Tirai fuori una scatola di fiammiferi e ne accesi uno. «Lo sapevi che mia madre ha creato una particolare variante del fuoco greco? Ne dubito, perché non ti è mai importato nulla del suo lavoro. L'ho trovato tra le innumerevoli sostanze di sua invenzione. Questa versione è una sorta di bomba liquida, altamente infiammabile. Brucia persino sotto l'acqua, pensa un po'. Prima ancora di parlare con Seth, mi sono preso il disturbo di cospargerne questo posto e non si è ancora asciugato del tutto. Avete notato quanto è appiccicoso?»
August abbassò la testa, staccando una scarpa da terra. La suola, che aveva aderito alla pietra, scricchiolò. Mi guardai attorno, godendomi il brusio irrequieto che stava percorrendo le file nemiche.
«È un bluff» ringhiò mio padre, arretrando appena. I soldati intanto avevano cominciato a ritirarsi.
Abbozzai un mezzo sorriso. «Grazie agli esperimenti di Vivianne, so di poter sopravvivere. Di voi non posso dire altrettanto, temo». E lasciai cadere il fiammifero.
Il boato fu assordante.
L'onda d'urto mi scaraventò contro il muro con tale veemenza da frantumarmi la spina dorsale. Il soffitto della cripta crollò, sgretolandosi in una cascata di polvere e macerie. Il calore dell'incendio mi investì, atroce e asfissiante. Non riuscivo a muovermi, il dolore che pervadeva tutto il mio corpo. I miei respiri erano dei rantoli strozzati e le lacrime mi bruciavano nelle palpebre. Avendo i timpani fracassati, udivo a malapena le urla agonizzanti che riempivano l'aria insieme agli ululati del vento.
Poi le percepii.
Le anime si riversarono dentro di me una dopo l'altra, attirate come una calamita. La barriera sacra collassò, vinta dal profano, allo stesso modo in cui un fiume in piena dilaga da una diga. La fame che mi artigliava lo stomaco si placò, mentre ondate di potere mi investivano fino a togliermi il fiato. Le ustioni guarirono, le ferite si rimarginarono, le ossa si risanarono.
In un attimo scattai in piedi, l'eccitazione che mi ribolliva nelle vene. Mi passai una mano nei capelli e sbuffai, osservando la mia camicia sbrindellata. A giudicare dai danni, la detonazione era stata meno devastante del previsto, ma era stata sufficiente a decimare l'esercito di mio padre.
Abbandonai i freni inibitori e mi lasciai guidare da quella sensazione d'euforia che non sperimentavo da tempo. Mi gettai su uno dei superstiti e gli spezzai il collo, poi passai a quello successivo. Afferrai una pistola e sparai a un altro ancora, che tentava di strisciare lontano dal cadavere carbonizzato del compagno.
Un soldato mi puntò contro la sua arma, incespicando tra le rovine, ma gli strappai il fucile di mano e gli conficcai la canna nel torace. Lo estrassi, presi la mira attraverso la cortina di fumo e premetti il grilletto, centrando alla nuca la sagoma che correva verso ciò che restava delle scale.
Passai accanto a un uomo che arrancava a fatica, con un lato della faccia interamente bruciato. Lo ribaltai con un calcio e gli sparai in fronte. Dopo essermi accertato che fossero tutti morti, lasciai la cripta e tornai con un guizzo agile nella chiesetta.
L'abside era stato spazzato via, riversandosi sull'altare. Gli scheletri scarni delle travi pendevano dall'alto, le colonne si ergevano come lame spezzate e le poche panche intatte erano annerite e bruciacchiate. Lingue di fuoco continuavano a divampare ovunque, facendomi tossire.
Mi indirizzai verso l'uscita, ansimante. Malgrado la notevole quantità di energia che avevo accumulato, iniziavo a risentire della carenza di ossigeno. Appena mi ritrovai all'esterno, inspirai una boccata d'aria pulita. Dense spirali di volute nere si attorcigliavano nel cielo, sferzate da raffiche implacabili.
Nonostante la confusione, colsi il battito frenetico della persona che si stava avvicinando alle mie spalle.
«Non male, Soggetto Uno. Te lo concedo». La voce rauca di mio padre mi fece girare di scatto. Zoppicava e aveva una scottatura sul volto, ma per il resto l'oricalco dell'armatura gli aveva permesso di uscire quasi indenne dall'esplosione. Impugnava uno strano oggetto di metallo, con uno stelo robusto a cui era collegata un'asta piegata a formare due rebbi. «Ma io faccio la guerra da molto prima di te. E adesso da bravo, a cuccia».
Prima che potessi attaccarlo, fece scontrare la forcella contro lo stipite della porta. Il suono stridulo parve trafiggermi il cranio e scivolai a carponi con un urlo, le vibrazioni che mi colpivano come aghi affilati. Tentai di rimettermi in piedi, ma una forza invisibile mi tenne inchiodato sul terreno.
«Vedi, Soggetto Uno, su una cosa avevi torto. Da quando mi hanno liberato, mi sono interessato molto al lavoro di mia moglie e mi sono imbattuto in questo simpatico strumento». Si accovacciò al mio fianco e me lo mostrò, battendolo sul palmo dell'altra mano per rinvigorirne la melodia infernale. L'ennesima stilettata mi trapassò il cervello. «È un diapason speciale, in oricalco. A quanto ho saputo, Vivianne ha impiegato anni per costruirlo. Ognuno di voi mostri reagisce a una frequenza diversa. Ricordi i test acustici a cui siete stati sottoposti? Ecco, le servivano per trovare le vostre. Ma in realtà lo ha creato per un altro dei suoi abomini, molto più difficile da sottomettere».
Malgrado avessi la mente annebbiata, mi costrinsi a riflettere. La magia che mi indeboliva era legata alle vibrazioni, più si disperdevano e meno era efficace. Di conseguenza, dovevo approfittare del momento subito prima del colpo. Farlo parlare era la tattica migliore per distrarlo, dilatando il più possibile l'intervallo tra una nota e l'altra.
Sputai un grumo vermiglio. Mi sembrava che quel suono mi stesse lacerando la pelle. «Alfa» gracchiai, scosso dalle convulsioni.
August emise un mugolio d'assenso. Si raddrizzò e mi spintonò con lo stivale, facendomi ribaltare sulla schiena. «Mi è dispiaciuto dover soffocare la vecchia Ginette per prendermelo, anche se credo di averle fatto un favore in fondo. Il Soggetto Alfa l'aveva fatta impazzire ormai. Purtroppo quella mostruosità mi è scappata, ma non importa. Ho te adesso».
Sollevai lo sguardo su di lui. «Che... cosa... vuoi?» chiesi debolmente, le corde vocali che mi raschiavano la gola.
«Cosa voglio? Non è ovvio?» August si sporse, accostando il viso al mio. I suoi occhi erano iniettati di odio e ribrezzo. «Zero mi ha portato via ciò che amavo di più, oltre che sei anni e mezzo della mia vita. Voglio restituirgli il favore». Mi strinse i capelli e aggiunse in tono mellifluo: «E tu sei l'arma con cui lo ucciderò».
Corrugai la fronte. «Non farò mai del male a mio fratello».
Sogghignò. Quando sollevò il braccio, pronto a picchiare lo strumento sul palmo guantato, lo afferrai per il polpaccio. I miei artigli gli penetrarono nella carne. Lo trascinai a terra e affondai i canini nel suo collo, poco sopra la gorgiera di protezione, attento a non beccare nessun punto vitale. Un bruciore intenso mi si propagò sul fianco e gemetti, lasciandolo andare col sangue che mi grondava dal mento.
August sfilò il pugnale in oricalco e mi spinse via, allungandosi per recuperare il diapason. Montai a cavalcioni su di lui e senza esitare gli sferrai un pugno in faccia, abbastanza violento da spaccargli il naso. Non volevo ucciderlo. Tesi le orecchie per verificare che fosse solo svenuto e mi alzai barcollante, una mano premuta sulla ferita sanguinante.
«Sei sexy anche così» commentò Rosalie, avvicinandosi. Nonostante il sorrisetto, la sua espressione era cupa. «E sappi che mi farò perdonare».
Prima che potessi aprire la bocca, si chinò per prendere il diapason con una smorfia sofferente e mi colpii senza tanti complimenti. Una fitta dolorosa mi attraversò la testa. Mi accasciai al suolo, sentendo un liquido caldo colarmi lungo la tempia. La vista divenne sfocata e gli occhi mi si chiusero, mentre i rumori attorno a me si affievolivano fino a spegnersi.
«Scusa, pezzo di ghiaccio» mi sussurrò, accarezzandomi la guancia.
“Fase quattro” pensai, prima di sprofondare nel buio.
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Angolo Jedi
Odio questo capitolo. È orribile e ha un sacco di difetti. Purtroppo Callum è un mezzo genio, mentre io ho un criceto morto nel cervello in stile Gabe. Abbiate pietà se il piano è venuto una schifezza. Più avanti si capirà meglio, comunque.
Ah, preparatevi perché sta per schiattare qualcuno :)
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