𝕮𝖆𝖕𝖎𝖙𝖔𝖑𝖔 4 (Callum)

"ℑ𝔫 𝔤𝔲𝔢𝔯𝔯𝔞 𝔫𝔢𝔰𝔰𝔲𝔫𝔬 𝔳𝔲𝔬𝔩𝔢 𝔲𝔠𝔠𝔦𝔡𝔢𝔯𝔢,
𝔪𝔞 𝔱𝔲𝔱𝔱𝔦 𝔥𝔞𝔫𝔫𝔬 𝔭𝔞𝔲𝔯𝔞 𝔠𝔥𝔢
𝔩'𝔞𝔩𝔱𝔯𝔬 𝔰𝔭𝔞𝔯𝔦 𝔭𝔢𝔯 𝔭𝔯𝔦𝔪𝔬"

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L'ufficio di Vivianne De'Ath era identico all'ultima volta che c'ero stato, eccetto per gli strati di polvere che il tempo aveva depositato sui mobili antichi e sugli scaffali.

Nonostante avessero i vetri opachi e crepati, le specchiere piazzate in punti strategici alle pareti creavano un gioco di riflessi da far girare la testa a chi non fosse abituato. Di giorno, lo ricordavo, l'effetto era un caleidoscopio accecante di luci e colori, ma in quel momento c'era soltanto il tenue chiarore della luna.

Non avevo neanche provato ad accendere il candelabro elettrico; non era un gesto scontato, o spontaneo, quando possedevi occhi che si adattavano al buio meglio di un predatore notturno.

Da ragazzino, essere convocato in quella stanza mi terrorizzata. Era buffo tornarci a distanza di anni e scoprire che mi suscitava ancora la stessa sensazione, la stessa graffiante paura, malgrado la consapevolezza che mia madre fosse morta.

Peccato che non si fosse portata con sé tutto ciò che aveva creato.

Con le narici che mi pizzicavano per l'aria stantia, spalancai la finestra affacciata sul terrazzo. La notte era immobile e fredda, con miriadi di schegge luminose che ammiccavano nel cielo nero. Girandomi, mi avvicinai alla scrivania di mogano. Notai che le dodici statuette in alabastro, ciascuna raffigurante una divinità greca, erano leggermente storte e le riallineai.

Dopo aver scansato la poltrona dallo schienale rigido, sollevai il monitor del portatile e premetti il tasto per accenderlo, ma mi bloccai quando apparve la schermata che richiedeva la password.

«Immagino che tu non abbia trovato nulla nel laboratorio».

Sollevai la testa. La figura sottile di Kath si stagliava sulla soglia, con un ciuffo ramato che le ricadeva sulla parte destra del volto, dove i capelli erano più lunghi rispetto a sinistra. Le lentiggini scintillavano sulla sua carnagione chiara.

Feci un cenno d'assenso. «Inizio a credere che avessimo ragione. Lui è l'unico che avrebbe potuto cancellare ogni traccia del Progetto».

Kath si staccò dallo stipite della porta contro cui era appoggiata. «Se Nik scoprisse che potrebbe essere vivo...»

«Non serve che lo sappia. E neanche gli altri».

«Callum». Mi rivolse un'espressione carica di disapprovazione. «Meritano la verità sulla ragione per cui siamo tornati qui. Noi li proteggiamo, ma non per questo possiamo trattarli come bambini».

L'angolo della bocca mi si curvò all'insù. «Detto da te è ironico».

Mi accucciai a terra con le ginocchia piegate e aprii il cassetto in alto della scrivania. Anche se era chiuso a chiave, a malapena mi accorsi della resistenza della serratura prima che si rompesse senza il minimo sforzo. Era pieno di fascicoli e documenti, ma non era quello che cercavo.

Presi a frugare tra i fogli e i muscoli mi si irrigidirono quando sfiorai la custodia di cuoio camosciato che ricordavo fin troppo bene. Ritrassi il braccio di scatto, quasi scottato da quel contatto.

Ripetei l'operazione con lo scomparto in basso, dove trovai una bottiglia di liquore ancora chiusa e una coppia di pugnali dal manico d'osso di ottima fattura, oltre a delle minuscole matrioske di legno dipinte in sembianze mostruose.

«Sei arrabbiato perché ieri non ho impedito a Nik di uscire, vero?» sospirò Kath, avvicinandosi.

«Non sono arrabbiato». Mi raddrizzai e mi lisciai le grinze sulla giacca del mio completo scuro. «E non è una sorpresa che il nostro fratellino non sia facile da gestire».

«Ho pensato che una festa lo avrebbe aiutato a distrarsi. Sta prendendo la separazione da Seth peggio di quanto mi aspettassi».

Colsi il messaggio velato dietro alla sua frecciatina. «Non torneremo sulla questione» commentai categorico, richiudendo il portatile.

Ero consapevole che fosse inutile provare a indovinare la password. Mia madre era una donna troppo geniale perché un tentativo fatto alla cieca potesse funzionare; se aveva nascosto qualcosa nel suo computer, non sarebbe stato di certo facile da scovare.

No, avrei dovuto ricorrere a espedienti più ingegnosi. Un esperto informatico sarebbe stato perfetto, se ne avessi conosciuto uno di cui mi fidassi.

Kath aggirò la scrivania e si piazzò davanti a me. La luce argentea delle stelle le faceva brillare gli occhi. Erano grigi come i miei, ma di una tonalità più calda che dava al suo sguardo una sorta di dolcezza che io non possedevo. «Per quale motivo lo detesti tanto?»

«Non lo detesto».

Uscii sul terrazzo, restando qualche secondo in silenzio a osservare il paesaggio da dietro la balaustra. Le sagome degli alberi si ergevano contorte e imponenti in giardino, il lago era un'uniforme distesa scintillante e un gatto dormiva sulla barchetta ormeggiata al molo. La quiete era assoluta, interrotta ogni tanto solo dal bubolare di qualche gufo.

«Non possiamo essere così legati a qualcuno che non fa parte della famiglia. È pericoloso».

«Essere legato alla nostra famiglia è più pericoloso per Seth che per noi». Kath mi affiancò. Malgrado la temperatura rasentasse lo zero, non le importava di indossare solo una maglietta dei Jefferson Airplane e infatti non rabbrividì nemmeno. Un altro vantaggio di non essere umani. «Eppure hai dovuto ricattarlo per costringerlo ad andarsene».

«Ho fatto quello che...»

Uno scalpiccio frenetico si levò dal corridoio e trassi un respiro rassegnato, pronto a dover risolvere l'ennesima crisi dei miei fratelli. E poi Kath si lamentava che li considerassi dei bambini.

Poco dopo, Joel irruppe sbattendo la porta. «Che cazzo significa che vuoi mandarci a scuola?»

«Ehi! Il linguaggio!» lo sgridò Kath.

Le scoccai un'occhiata divertita mentre entrambi rientravamo nell'ufficio. Con tutte le azioni orribili che ognuno di noi aveva commesso, era abbastanza buffo che si preoccupasse delle parolacce.

Segretamente però apprezzavo quei gesti, quei piccoli assaggi della normalità che non avevamo mai avuto.

«Noi studiamo sempre in casa!» Joel si passò una mano nei capelli biondo cenere. Erano così arruffati che ero quasi convinto che la minaccia più efficace per calmarlo sarebbe stata quella di pettinarlo. «Da quando andiamo a scuola?»

«Domani andrò a iscrivervi, quindi dovreste cominciare nei prossimi giorni». Scrollai le spalle. «Remiel e Isaac ne sono stati entusiasti, anche Gabriel. Persino a Sky non è dispiaciuto».

«Per quanto mi riguarda, possono anche fondare il club dei secchioni in soggiorno. Per me le torture sono finite assieme alla nostra infanzia, grazie».

Aggrottai la fronte. «Spero di non aver dato l'impressione che la mia fosse una richiesta. Perché è una decisione: andrete a scuola e basta».

Scioccato, Joel si voltò a fissare Kath in cerca di sostegno. «Potrebbe farvi bene» suggerì quest'ultima in tono incerto. «È un ambiente educativo in cui starete con altri ragazzi della vostra età e avrete delle regole da rispettare, cosa che non è proprio il vostro forte».

«Non è giusto!» protestò lui, dardeggiando le sue iridi eterocrome da uno all'altra. «Nik disobbedisce e la passa sempre liscia, io me ne sto buono e devo sorbirmi ore e ore di tipi che blaterano cose noiose».

«Sopravviverai».

Joel mosse qualche passo verso di me con fare di sfida. Aveva la schiena inarcata come un felino in procinto di balzare, il corpo agile e scattante che fremeva dal desiderio di attaccarmi. «E se mi comportassi male?»

Quella fu la conferma di essere giunto a un buon compromesso.

Non potevo permettere che si sfogassero a modo loro, rischiando di attirare l'attenzione su Notturn Hall con troppe morti sospette. D'altro canto, tenerli confinati nel castello li stava rendendo irrequieti, suscettibili e sempre più smaniosi di libertà.

Non erano stupidi; si sarebbero cacciati nei guai a scuola, era ovvio, ma sapevo che avrebbero almeno tentato di controllarsi. Al contrario, se l'inerzia li avesse fatti esplodere, le conseguenze sarebbero state imprevedibili.

Con delicata fermezza gli premetti un dito sul torace e lo spinsi indietro per rimetterlo a una giusta distanza, e per fargli capire che non ero affatto intimorito. Inoltre, l'odore di sigaretta che permeava il suo giacchetto mi infastidiva. «In tal caso, abbiamo delle confortevoli celle di sotto».

«Non lo faresti». La voce gli scaturì dalla gola accompagnata da un ringhio.

«Mettimi alla prova».

Joel mi fissò per un lungo istante in cui, sul suo viso, scorsi lo scontro che infuriava tra la sua parte razionale e quella istintiva. Alla fine, si girò e lasciò la stanza mugugnando qualche insulto che non mi premurai di ascoltare.

Kath mi diede una gomitata al fianco, guardandomi torva. «Non lo faresti».

«Non saprei. A volte mi fanno rivalutare certi metodi educativi dei nostri genitori...»

«Bugiardo».

Sollevai la manica e sbirciai l'orologio che portavo al polso. Segnava le nove e un quarto, perciò erano le nove in punto; lo tenevo sempre quindici minuti in avanti, sebbene non mi servisse davvero per essere puntuale. «Devo andare».

«Sicuro che non vuoi che venga con te?» mi chiese preoccupata.

«Meglio di no. Due di noi lo farebbero sentire minacciato». Le schioccai un bacio sulla guancia e aggiunsi con un sorriso: «E poi devi badare i bambini».

Mi sedetti sulla panchina solo dopo aver fatto uno scrupoloso sopralluogo. Per questo preferivo arrivare in anticipo, così potevo prendere confidenza con il posto fissato per l'incontro e riducevo le probabilità di venire colto alla sprovvista.

Non c'era nulla che odiassi di più di non essere pronto a qualsiasi evenienza, di dover sottostare alle condizioni altrui, anziché loro alle mie.

Le responsabilità che avevo nei confronti della mia famiglia comportavano non potermi permettere determinati lussi, tra cui quello di sbagliare. Era successo, non ero infallibile e l'avevo accettato, anche se a prezzo di rimorsi che mi si erano ormai cuciti addosso. Ma cercavo comunque di limitare i danni, per quanto possibile.

Mi guardai attorno, aprendo il colletto del trench nero.

Il parco era piuttosto grande, ben illuminato dai lampioni e punteggiato dalle costruzioni dei giochi per bambini. Nonostante fosse deserto, riuscivo quasi a udirli mentre strillavano sulle altalene o sugli scivoli, per poi correre tra le braccia dei genitori con il suono contagioso delle loro risate.

Provai a immaginare me e i miei fratelli da piccoli fare lo stesso, ma avevo esaurito la fantasia. Nel nostro passato non c'erano state né giostrine né abbracci, e ormai eravamo troppo grandi per le prime e troppo corrotti per meritare i secondi.

«Finalmente ho l'onore di ammirare una delle creaturine di Vivianne».

Mi alzai dalla panchina, corrucciato.

Una donna procedeva lungo il viale di ghiaia, avvolta in uno scialle di lana verde bottiglia che -a mio parere- non si abbinava affatto al soprabito color avorio. Camminava ritta, con calcolata lentezza. Una treccia castana le ricadeva sulla spalla, non priva di una certa eleganza.

Malgrado ci separassero ancora diversi metri, il mio olfatto sovrasviluppato captò il suo accattivante profumo cipriato misto a un'abbondante dose di arroganza.

«Accidenti» esclamò. Le labbra su cui risaltava un rossetto viola si incresparono. «Confesso che mi aspettavo un mostro più spaventoso e meno attraente».

«Spiacente di deludere le aspettative».

Rallentò a poco a poco fino a fermarsi, gli occhi scuri che mi squadravano dalla testa ai piedi. Un lampo soddisfatto le guizzò sulla faccia. «Oh no. Questa versione è molto meglio».

Dei movimenti mi fecero rizzare le orecchie. Perlustrai i dintorni con lo sguardo finché individuai due sagome appostate dietro alle siepi che circondavano il parco; strizzando le palpebre, misi a fuoco un uomo robusto dall'espressione arcigna e un altro più giovane che tremava per il freddo.

Indicai con il mento nella loro direzione. «Hai portato compagnia» constatai con voce pacata.

La donna non sembrò sorpresa di essere stata scoperta, piuttosto divertita. «Le mie guardie del corpo. Mi scortano ovunque nel caso incontrassi dei malintenzionati, non sono una minaccia per te, tranquillo».

Sarebbe stato poco educato farle notare che, anche volendo, non avrebbero potuto fare granché contro di me, perciò tacqui.

«Beh, visto che non sei molto loquace, inizio io». Sfilò una mano dalla tasca e me la porse. «Rosalie Bailey. Il piacere è tutto mio».

«Callum De'Ath». Mi chinai per depositarle un lieve bacio sul dorso del guanto e cominciammo a passeggiare uno accanto all'altra. «Non che mi lamenti, ma non sei proprio la Bailey che pensavo di incontrare».

«Mio padre ha tirato le cuoia circa quattro anni fa, quindi gli sono subentrata».

L'indifferenza con cui lo disse mi colpì. Supposi che non avessero avuto un buon rapporto, o che fosse davvero brava a dissimulare le sue emozioni. «Allora perché usi ancora il suo nome per gli affari?»

Lei fece spallucce. «Nel mondo del crimine, come in molti altri campi, il nome di un uomo ha i suoi vantaggi».

La fissai in tralice, cercando di racimolare più dettagli che potevo sul suo conto. Aveva una piccola cicatrice sulla guancia sinistra ed era più giovane di quanto mi fosse apparsa all'inizio; doveva avere al massimo venticinque anni, ma era truccata in maniera tale da camuffare la sua età. O quantomeno era l'obiettivo.

«Spero che questo non ti crei problemi. Mio padre aveva un accordo con la tua famiglia e ti assicuro che ho intenzione di onorare quanto lui la nostra... collaborazione». Sfoderò un sorrisino languido. «E sono anche più carina».

Ignorai la provocazione.

Uscimmo dal parco e Rosalie si indirizzò verso un locale dall'insegna sgargiante con una sicurezza che non mi lasciò dubbi sul fatto che lo avesse programmato. Non si voltò nemmeno a controllare che la seguissi.

Accelerai il passo per precederla e le aprii la porta, facendo allargare il sorriso malizioso che non aveva mai abbandonato il suo volto dal momento in cui mi aveva visto.

Appena entrai a mia volta, mi affrettai a esaminare il bar. Non era il posto ideale per un'imboscata: troppe finestre, un'uscita secondaria e un discreto numero di testimoni. I numerosi tavoli che occupavano la sala sarebbero stati d'intralcio e il parquet lucido di cera era piuttosto scivoloso.

Alla mia comparsa ricevetti alcune occhiate; uno degli svantaggi della mia natura era che mi impediva di passare inosservato, e in una cittadina come Notturn Hall era normale che i volti nuovi destassero diffidenza, o quantomeno interesse.

Rosalie mi guidò in un punto appartato e si accomodò sul divanetto imbottito, battendo la mano accanto a sé per invitarmi a sedermi.

Io invece mi misi di fronte. La visuale era migliore e avrei potuto sorvegliare le due guardie del corpo, che intanto avevano raggiunto il bancone dietro al quale si trovava un vecchio impegnato ad asciugare i bicchieri.

Mi rifiutavo di ammettere che mi metteva a disagio la prospettiva di starle così vicino.

«Ecco i miei termini». La donna accavallò le gambe. Mi turbava il modo in cui mi guardava, quasi fossi un raro pezzo da collezione che avrebbe con piacere esposto in un museo. «Mio padre vi mandava una fornitura a settimana, adesso però siete cresciuti e presumo che abbiate bisogno di maggiori scorte. Vi posso procurare tutto il cibo che vi serve con la massima discrezione. In cambio, a parte la mia retribuzione, pretendo che questa città non diventi il vostro banchetto personale».

«Ragionevole» commentai, slacciandomi la cintura dell'impermeabile. «Ma abbiamo cambiato alimentazione. Ora siamo in grado di pensare da soli a nutrirci, grazie».

«Devo temere un vertiginoso calo della popolazione?»

Abbozzai un sorriso amaro. «La nostra reputazione è proprio terribile, eh?»

«La vostra, e in particolare quella di...», esitò un attimo, «... della bestiola pazza che portate con voi».

«La bestiola pazza è mio fratello» replicai sferzante. «E me ne occupo io. Si comporterà bene, hai la mia parola».

Rosalie ridacchiò. «La tua parola non è retroattiva, giusto? Perché altrimenti avresti già infranto la promessa».

«Somiglia a un'accusa».

Un cameriere posò sul tavolino che ci separava una bottiglia di rum e due bicchierini, ringraziò la donna per la mancia e si allontanò. Dato che non avevamo ordinato, intuii che fossero stati i suoi scagnozzi a farlo, ma non dubitavo che fosse un'altra mossa calcolata da lei.

«Ginette Wurstel. Una vecchia signora che è morta nel suo letto poco dopo il vostro arrivo, apparentemente per cause naturali». Rosalie inclinò il capo. «Ti dice niente il suo nome?»

«Dovrebbe?» chiesi impassibile.

«Stando alle mie fonti, ha lavorato come governante al servizio di tua madre» rispose, aprendo la bottiglia. «È una curiosa coincidenza».

Non mi stupiva che non la ricordassi, probabilmente non l'avevo neanche mai incrociata. Nostra madre era molto attenta a limitare i rapporti con chiunque fosse esterno al Progetto e mi sembrava assurdo che potesse aver coinvolto una semplice dipendente.

«La mia famiglia non c'entra con questa faccenda». Non ne ero certo in realtà, ma non era necessario che lo sapesse. «Soprattutto non Nicholas. Uccidere nel sonno non è il suo modus operandi».

Rosalie riempì entrambi i bicchierini e ne sospinse uno verso di me.

Non lo toccai. Alcol e droghe mi facevano effetto soltanto in quantità smodate, perciò non me ne preoccupavo, ma esistevano delle specifiche sostanze -innocue per gli umani- che erano capaci di neutralizzarmi. Anche se in pochi ne erano a conoscenza, e non la credevo tra di loro, non era nella mia indole affidarmi alla sorte.

«Allora, hai chiarito che non devo farvi la spesa» riprese lei sarcastica, sorseggiando il suo rum. «Per che cosa intendi pagarmi, allora?»

«Informazioni». Mi puntellai sui gomiti, chino in avanti. «Dovrai tenermi costantemente aggiornato su tutto quello che succede a Notturn Hall. Voglio che mi venga riferita ogni banale voce, pettegolezzo o sussurro che circola o dovesse circolare nel... come lo hai definito? Ah già, il mondo del crimine».

Rosalie si alzò con eleganza, aggirò il tavolino e prese posto accanto a me, mettendo di nuovo una gamba sopra all'altra. Si era tolta sia lo scialle che il soprabito. Il vestito la copriva fino alle ginocchia e portava dei collant in pile che sparivano sotto gli alti stivali, ma era il piede che mi strusciava contro il polpaccio a ostacolare la mia concentrazione per qualche motivo.

«Deduco che tu stia cercando qualcuno in particolare» mormorò melliflua, facendo ondeggiare il liquido ambrato.

Mi scostai di colpo e scivolai sul lato opposto del divano. Mentre mi riaggiustavo il nodo della cravatta, sebbene fosse già perfetto, notai che Rosalie stava trattenendo a stento una risata. Decisi che detestavo i suoi modi di fare.

«Ho sentito che sei la migliore nello scovare chi non vuole essere trovato».

«Sono la migliore in molte cose, Callum».

Sì, detestavo decisamente i suoi modi di fare.

«Comunque» ripresi, anche se facevo fatica a seguire il filo del discorso. «Non ti dirò la sua identità».

«Quindi vuoi che trovi una persona senza sapere chi sia? Sono brava, ma non faccio miracoli». Il suo sguardo mi esplorò, soffermandosi sui muscoli delle braccia e sulla camicia aderente al petto visibile grazie al trench aperto. E aggiunse: «Al contrario di tua madre».

Arcuai un sopracciglio. «Sei consapevole che il nostro rapporto sarà strettamente professionale, vero?»

«Ma certo».

Attesi un secondo, prima di proseguire. «Non serve che tu sappia chi sto cercando. Conosco il suo modo di agire. Devi solo darmi le informazioni che desidero e sarò io a seguire le briciole di pane».

«Come vuoi, pezzetto di ghiaccio». Si protese verso di me e accarezzò il ciondolo che pendeva all'estremità di una catenella d'argento. Un corvo appollaiato su un teschio, il simbolo dei De'Ath. «Anche così la tua è una richiesta esigente».

«Non tanto per una Bailey» replicai, sottraendomi a quel contatto.

Mi sporsi sul tavolino e sistemai meglio la bottiglia di rum, posizionandola esattamente al centro tra il punto in cui era posto il mio bicchiere intatto e quello in cui lei aveva posato il suo, vuoto. Adoravo l'ordine, la simmetria, avevano un effetto calmante su di me.

«Inoltre, ti darò il doppio di qualunque fosse la cifra concordata con mia madre».

«Tua madre era generosa».

Le concessi un mezzo sorriso. «Io di più».

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