𝕮𝖆𝖕𝖎𝖙𝖔𝖑𝖔 36 (Arya)

"𝔓𝔬𝔠𝔥𝔢 𝔠𝔬𝔰𝔢 𝔣𝔢𝔯𝔦𝔰𝔠𝔬𝔫𝔬
𝔭𝔦𝔲̀ 𝔡𝔢𝔩𝔩'𝔞𝔪𝔬𝔯𝔢"

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Ondate di calore mi investivano il viso, mentre osservavo le fiamme che danzavano nella notte. I miei fratelli stavano discutendo attorno al falò. Tre, Quattro e Cinque litigavano sulla cottura dei dolcetti gommosi dal nome strano, mentre Due cercava di riappacificarli e Otto li fissava come se fossero gli esseri più stupidi del mondo.

Forse lo erano, non potevo saperlo. Il mondo non l'avevo mai visto.

Sette sonnecchiava appoggiata alla mia spalla, i suoi capelli biondi che mi solleticavano la pelle. Mi facevano venire da starnutire, ma non volevo disturbarla.

Uno era seduto vicino a Sei, che strappava ciuffetti d'erba dal terreno. Sembrava imbronciato, il fuoco che gli gettava un alone cupo sul viso. A lui quei dolcetti che si appiccicavano ai denti proprio non piacevano, e neanche gli insetti fastidiosi che infestavano l'aria. In realtà, avevo l'impressione che non sopportasse quelle uscite in generale, nonostante si ostinasse ad accompagnarci comunque.

Io le adoravo, invece. Era bello poter ammirare quei puntini luminosi, che avevo imparato che si chiamassero stelle, e quella palla oggi cicciottella che era la luna. Avevo notato che cambiava forma, anche se non ne avevo ben chiaro il motivo. Me lo sarei fatto spiegare, prima o poi.

Scoccai un'occhiata verso il lago. Una figura alta si stagliava sul molo poco distante, di spalle, e lanciava ogni tanto le pietre nell'acqua facendole rimbalzare sulla superficie. Provai una fitta al cuore. Mi ero accorto che era triste e avrei voluto aiutarlo a stare meglio, solo che avevo un po' paura. Quello che faceva bene a lui, di solito faceva tanto male a me.

Ma forse glielo dovevo, forse mi stavo comportando da ingrato. Era gentile, dopotutto. Ci proteggeva quando i nostri genitori esageravano con le punizioni o con i test, ci dava le caramelle, ci diceva che eravamo speciali e si prendeva cura di noi. Ci amava, amava me. I giochi da adulti si fanno con chi si ama, mi ripeteva sempre.

«Zero?» mi chiamò una vocetta assonnata.

«Mmh?»
«Mi stai stritolando».

Girai il capo e mi resi conto che la stavo stringendo così forte a me da sbiancarmi le unghie. Lasciai la presa, lasciando ricadere il braccio con cui la cingevo. «Scusa» farfugliai imbarazzato.

Sette mi sorrise e si stropicciò gli occhi con i pugnetti. Erano ancora lucidi per il pianto che aveva fatto in segreto, nascosta nella sua cameretta, perché mancavano soltanto un paio di giorni al nostro ritorno in laboratorio.

L'avevo sentita per caso e mi aveva pregato di non dirlo agli altri, perché era già la più piccola e non voleva che pensassero che fosse anche la più debole. Glielo avevo promesso per farla contenta, sebbene non fossi per niente d'accordo. Non immaginavo come qualcuno avrebbe mai potuto credere una cosa del genere.

Lei era la nostra sorellina, era un sole che brillava solo per noi. E sebbene quello vero lo avessi visto di rado, ero sicuro che non fosse luminoso neanche la metà.

Mi tirai in piedi. «Torno subito».

«Dove vai?» chiese Uno, drizzandosi di scatto.

Gli feci un cenno rassicurante e mi incamminai verso il molo. Lucius era troppo assorto per accorgersi del mio arrivo, finché non trovai il coraggio di sfiorargli il dorso della mano. L'uomo sussultò, per poi rilassarsi appena il suo sguardo si posò su di me. Le labbra gli si incurvarono all'insù, infondendomi una stilla di orgoglio.

Ciondolai sui piedi. «Che cos'hai?»

«Problemi con la tua mamma. Nulla di cui tu debba preoccuparti, Zero».

La mia attenzione venne attratta dal livido nero sulla sua guancia e aggrottai la fronte. «Ti ha sgridato?»

«A modo suo». Lucius sospirò e mi accarezzò i capelli, facendomi irrigidire. Era un gesto dolce, eppure facevo fatica persino a respirare. «Considera queste pause dagli esperimenti delle perdite di tempo e non apprezza le concessioni che l'ho convinta a farvi. La palestra, queste serate... Mi ha accusato di aver perso di vista il nostro obiettivo».

«Obiettivo?» ripetei confuso.

Lucius si riscosse e parve sorpreso di aver parlato a voce alta. «Lascia stare, piccolo». Si chinò e mi prese in braccio, strofinando la punta del naso contro il mio. Lo stomaco mi si attorcigliò. «Ti stai divertendo? Mi avevi detto che ci tenevi fare un altro falò, prima che lasciassimo il castello».

Annuii.

«Bene. Se tu sei felice, sono felice anch'io». Delle grida ci interruppero e Lucius si voltò in direzione dei miei fratelli. Il suo sorriso si allargò. «Ma che stanno combinando?»

Mi sforzai di deglutire. Avevo la gola secca. «Non sanno cuocere i mammellows».

Lui scoppiò in una risata divertita, e quel suono limpido sciolse leggermente il nodo che avvertivo allo stomaco. «Tesoro, non si chiamano...» Ci ripensò e fece una smorfia buffa. «Anzi, sai che c'è? Mammellows è più carino».

«No, uffa, lo hai bruciato!» strillò Cinque, colpendo Quattro con il forchettone.

«Meglio che vada ad aiutarli, o si ammazzeranno». Lucius mi depose a terra e si inginocchiò di fronte a me, premendo la bocca sulla mia per un istante abbastanza lungo da farmi salire un conato. «Ti va di giocare a scacchi dopo? Mi tireresti davvero su di morale».

Non udii la risposta del bambino.

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Quando scrissi ai miei amici di incontrarci quel pomeriggio, non ero ancora riuscita a scrollarmi di dosso l'inquietudine del sogno che avevo fatto. Era talmente realistico che non ero neanche certa che fosse davvero un sogno.

Avevo già sognato Nicholas in precedenza, ma stavolta era diverso. Mi sembrava di essere lui, di vivere in prima persona il ricordo di qualcosa che non era accaduto a me. Potevo percepire i suoi pensieri, le sue paure, le sue emozioni, anche se la maggior parte erano svaniti al mio risveglio. Ne erano rimaste solo le sagome, delle ombre astratte che scivolavano ai margini della mia coscienza, impossibili da trattenere come il fumo.

Rammentavo gli accenni a un laboratorio, dei numeri, un falò, i mammellows. Lucius.

Mi massaggiai le tempie, continuando a camminare. Mi esplodeva la testa e, malgrado non ne avessi nessuna ragione, mi sentivo nervosa. Molto nervosa. Avevo quasi l'assurda sensazione che quello stato d'animo non fosse mio, non me lo sapevo spiegare.

Ethan mi diede una spintarella. «Sei ancora sulla terra, hermana

«Sì, scusa» replicai, destandomi di colpo dai miei pensieri. «Ho dormito malissimo».

«Ti succede spesso, ultimamente. Pensi che sia per la gravidanza?»

Mi strinsi nel giubbotto, mentre insieme raggiungevamo il casolare che si ergeva sul crinale di una collinetta. Era un piccolo edificio bianco circondato dai vigneti, con le rifiniture sbiadite e la vernice scrostata. Il tetto spiovente ne innalzava la struttura, dandole un'eleganza che veniva smentita dagli spazi vuoti tra le assicelle di cedro. La notte prima avevamo approfittato dell'assenza dei genitori dei gemelli per trasferire Keegan lì.

Era una casa in campagna che mio padre aveva ereditato alla morte dei miei nonni e che mia madre non si era mai decisa a vendere, nonostante la nostra difficile situazione economica. Un tempo doveva essere stata graziosa, adesso era solo abbandonata a sé stessa, poiché non avevamo i soldi per mantenerla.

Avrei preferito un nascondiglio più vicino alla città, e più lontano da Crystal Lake, ma la reclusione in mansarda stava diventando intollerabile sia per Keegan che per me. Non lo avevo salvato dalla cella solo per rinchiuderlo in una soffitta.

Giunti sotto il portico coperto, Ethan mi prese il gomito per fermarmi e mi rivolse un'espressione premurosa. «Parla del bambino solo se sei pronta, okay? Non sei obbligata».

Aprii la bocca per rispondere, ma la porta si spalancò e Deena si affacciò sulla soglia. «Eccovi, finalmente. Dove eravate finiti?»

«Ce la siamo fatta a piedi. Non abbiamo una macchina noi» spiegai in un tono più scontroso di quanto avrei voluto.

Deena si scambiò un'occhiata con Ethan, che scrollò le spalle. «È fumantina, oggi».

Sbuffai ed entrai nel soggiorno, scansando la mia amica. Le pareti erano di pietra grigia e un soffice tappeto grigio rivestiva il parquet in quasi tutta la stanza. Layla era seduta sul divano di velluto e stava dando delle pacche affettuose sulla schiena a Mac, che se ne stava disteso con la faccia affondata tra i cuscini ricamati e le braccia sollevate sopra la testa.

Aggrottai la fronte, sfilandomi il cappotto. «Che cos'ha?»

«Niente. Fa il melodrammatico» commentò Deena, richiudendo la porta.

Layla accarezzò i capelli scuri del ragazzo. «Problemi di cuore».

«Ho fatto una cavolata». La voce di Mac era attutita dal tessuto dei cuscini. «Anzi, peggio. Ho fatto un'Aryata».

«Impossibile!» Ethan si appollaiò sul bracciolo del divano e gli diede un buffetto sulla nuca. «Non può essere peggio di andare a letto con Nicholas De'Ath, prendersi una cotta per il fratello e stringere un'alleanza segreta con un altro fratello ancora».

Lo fulminai, gonfiando il petto indignata. «Ehi!»

«O far scappare un potenziale criminale ricercato da degli squilibrati» rincarò Deena.

Stavo per protestare, ma mi accorsi di un dettaglio e cominciai a guardarmi attorno con una punta d'ansia. Layla mi venne subito in soccorso, con un sorriso bonario. «È in giardino, sul retro. Adora stare all'aria aperta».

Mac si rovesciò sulla schiena, lo sguardo perso nel vuoto. «Credo che vivrò latitante insieme a Keegan fino alla fine dei miei giorni».

Deena roteò gli occhi. «Quanto la fai lunga per un messaggio».

«Che messaggio?» chiesi incuriosita.

Mac sospirò, prese il telefono dalla tasca e fece per passarmelo. Ma Ethan lo intercettò, scuotendo il capo. «Faccio io. Questa è roba da uomini».

Feci una smorfia sarcastica. «Se tralasciamo che non hai mai avuto una relazione in vita tua».

«Nella mia mente sono stato fidanzato centinaia di volte».

Mi avvicinai e mi sporsi da sopra la sua spalla. Sullo schermo del cellulare era aperta la chat con Isaac, che aveva inviato le foto dei suoi appunti a Mac, il quale lo aveva ringraziato e aveva aggiunto "Comunque hai una bellissima grafia" con un cuore rosso accanto. Il messaggio era stato visualizzato, senza nessuna risposta.

Mi voltai verso Mac. «Tutto qui?»

Deena si gettò su una poltroncina imbottita bianca, attorno al tavolino di legno circolare. «L'ho detto che stava esagerando».

«Voi non capite. Gli ho mandato un cuore». Mac si coprì il viso con le mani. «Adesso penserà che sono gay e che ci sto provando con lui».

Ethan sbatté le palpebre. «Ma tu sei gay e ci stai provando con lui».

«Non è vero. Non ci sto provando».

Layla si accigliò. «Se ti servivano gli appunti, perché non hai chiesto a tua sorella? O a uno di noi?»

«Deena scrive in geroglifici e voi è già tanto se non dormite durante le lezioni». Mac ci sbirciò attraverso le fessure delle dita, intanto che lo squadravamo con aria inquisitoria, e farfugliò: «Okay, sì, ci sto provando. Era una scusa per sentirlo».

Ethan si girò e mi porse il pugno chiuso, contro cui scontrai il mio. «Ho vinto io. Ti aspetta una maratona di horror» esclamai trionfante.

«Speravo ci mettesse di meno».

Mac abbassò le mani e si tirò a sedere, ignorandoci. «Non importa. Tanto è sicuramente etero».

«Non puoi saperlo. Al Torneo dell'Amore ha detto di non aver mai baciato nessuno» obiettò Layla fiduciosa.

Ethan si riavviò il ciuffo castano che gli ricadeva sulla fronte. «Infatti. E se proprio va male, puoi sempre ripiegare su Nicholas». Mi avvolse con un braccio e recitò solenne: «Un fratello vale l'altro, nobile insegnamento di Arya Black».

Gli rifilai una sonora sberla, strappandogli un gemito di dolore. «Dubito che abbia chance con Nicholas, a giudicare da quanto è sottone per Seth. Al luna park sembrava pronto a sfondare lo stand per prendergli un pupazzo».

Mac fece una risatina. «Ammetto che è un gran figo, ma non mi interessa». Recuperò il berretto e se lo ficcò in testa. Poi sussultò, come colpito da un'idea, e mi guardò con le sopracciglia increspate. «Non puoi cercare di scoprirlo tu? Stasera esci con Remi, no?»

La richiesta mi colse alla sprovvista. «Esattamente come dovrei entrare nell'argomento "orientamento sessuale di Isaac"?»

«Potresti buttarlo a caso in un momento di magra della conversazione» suggerì Ethan.

«Che idioti, santo cielo». Mac rilasciò un respiro stizzito. «Intendevo che potresti tastare un po' il terreno. Magari ha avuto delle cotte in passato».

Deena batté le mani, richiamando la nostra attenzione. «Non per fare la guastafeste, ma Arya voleva vederci per discutere di qualcosa di serio. O sbaglio?»

Tutti gli sguardi si puntarono su di me e un senso di disagio mi assalì. Attraversai il salotto e mi affacciai alla finestra, nascosta dalle tende color panna che lambivano il pavimento. Keegan era sdraiato nell'erba, sotto il sole, le mani incrociate dietro la testa. Mi sorprese che non stesse nemmeno tremando, considerato che era una giornata gelida e lui indossava solo una felpa.

Tornai a fronteggiare i miei amici, che erano in attesa. «Okay, non so come dirvelo, quindi...» Mi avvolsi il corpo con le braccia. «Sono incinta. È di Nicholas. E, contro ogni ragione logica, sto pensando di tenerlo».

Quella che seguì fu l'ora più lunga ed estenuante della mia vita. Raccontai loro del test di gravidanza, della disastrosa conversazione che avevo avuto con Nicholas al night club, di come Alexander aveva promesso di non lasciarmi sola e di come Remiel mi aveva assicurato che avrei avuto il loro aiuto.

Ebbero tutti le reazioni che avevo previsto. Mac era talmente scioccato che era rimasto imbambolato per qualche minuto e aveva dovuto bere un bicchiere di latte per riprendersi. Layla mi aveva abbracciata. Deena mi aveva tartassata di domande che, col senno di poi, erano anche piuttosto intelligenti del tipo "Ma non avete usato il preservativo?" o "Perché diavolo non hai preso la pillola del giorno dopo, se temevi di aver avuto un rapporto non protetto?"

Le mie risposte, non altrettanto brillanti, erano state rispettivamente: «A quanto pare no» e «Non ci ho pensato».

Come mi aspettavo, però, nessuno di loro esitò a offrirmi il proprio sostegno a qualsiasi mia decisione. Alla fine, arrivammo ai tasti dolenti: l'Olympus e mia madre. In tutta onestà, l'organizzazione governativa che perseguitava chiunque avesse il gene dei De'Ath in quel momento non mi terrorizzava neanche la metà di Linda Black.

«Devi dirglielo». Layla intrecciò le dita alle mie, dandomi una stretta affettuosa. «Tua mamma è meravigliosa. Sarà dalla tua parte, ne sono sicura».

«Sì, lo so. Ma non me la sento. Non ancora».

«Non capisco. Perché non vuoi abortire?» commentò Deena incredula. «Alexander ti ha detto che potresti essere un bersaglio dell'Olympus per colpa di quel bambino. Tenerlo non è una scelta un po' azzardata?»

Mi posai il palmo sul ventre in un gesto istintivo di protezione. L'idea che qualcuno minacciasse la minuscola vita che stava crescendo dentro di me mi turbava più profondamente di quanto credessi possibile. «Non ho intenzione di rinunciare a mio figlio perché degli scienziati pazzi sono convinti che i De'Ath siano dei mutanti o chissà cosa».

Si creò un silenzio carico di tensione. Non volevo essere così aggressiva , ma ero un fascio di nervi e stavo lottando contro i conati. Anche se mi ero rassegnata alla nausea, avevo il sospetto che il motivo principale fosse quella strana agitazione che mi attanagliava lo stomaco.

Ethan si schiarì la gola. «È meglio tornare a casa».

Mac annuì con foga. «Molto meglio».

«Prima devo salutare Keegan» annunciai, recuperando il giubbotto.

Uscii in giardino e avanzai in direzione del ragazzo. Essere finalmente all'aria aperta era liberatorio, mi faceva sentire più leggera. Ritrovai un barlume di buonumore. «Non ti sei unito a noi».

Keegan non sussultò. Ruotò il viso verso di me, le palpebre socchiuse e l'ombra di un sorriso sereno che gli piegava l'angolo della bocca. Era pallido, la cicatrice simile a una crepa nel marmo levigato dei suoi lineamenti. «Ho scoperto che mi piace la solitudine».

«Forse ci sei solo abituato».

«Può darsi». Batté una mano sul terreno. «Dai, vieni qui».

Gli sorrisi ironica. «Non preferisci la solitudine?»

«Ho detto che mi piace, non che la preferisco a te».

Lo raggiunsi e mi sedetti a gambe incrociate sull'erba. Keegan rimase disteso, anche se si ritrasse un poco per evitare qualsiasi contatto fisico. Il bordo della sua felpa era sollevato sulla pancia e gli lasciava scoperta una striscia di pelle fin sopra all'ombelico, permettendomi di intravedere le incisioni bianche che la scalfivano. Avrei voluto studiare meglio le sue cicatrici, cercare di capirne la natura, ma si fidava ancora troppo poco per essere disposto a mostrarmele.

«È bellissimo, vero?»

Lanciai un'occhiata a Keegan, avvampando al pensiero che potesse essersi accorto che lo stavo fissando. Mi rilassai nel constatare che il suo sguardo era rivolto al cielo, una distesa azzurra su cui erano sparse una manciata di nuvole lievi come fiocchi di cotone. Per me era una cosa banale, per lui uno spettacolo a cui stentava ad abituarsi. «Sì, molto».

L'addome di Keegan si alzò e si abbassò in un sospiro prolungato. Malgrado la luce del pomeriggio, nelle sue iridi c'era un nero senza fine. «Credo di non averlo visto per tanto tempo».

«Il cielo?»

Fece un mugolio d'assenso. «Non ricordo ancora niente, ma ho questa sensazione». Mi adocchiò di sbieco. «Mi insegni qualcosa?»

Mi lasciai ricadere all'indietro sui gomiti, raccogliendomi i capelli scuri sulla spalla per non farli sporcare di terra. «Qualcosa di che tipo?»

«Quello che vuoi. Hai l'imbarazzo della scelta».

Era vero. Keegan era una pagina bianca di un libro tutto da scrivere, e mi spaventava sapere che ero io ad avere in mano la penna.

Con l'esperienza avrebbe maturato una sua visione del mondo, certo, ma per ora non poteva che filtrarlo attraverso le mie parole e le mie opinioni. Anche se non era un bambino, non aveva ancora la facoltà di mettere in discussione ciò che gli veniva insegnato.

Scacciai quelle riflessioni e presi a snocciolare qualche nozione basilare. «Vediamo, allora. Lo vedi quello? È il sole. È una palla di fuoco enorme attorno a cui ruotano tutti i pianeti del sistema solare, che a loro volta girano su sé stessi. Il nostro si chiama Terra». Spiegare argomenti tanto semplici mi faceva sentire un po' idiota, eppure Keegan pendeva dalle mie labbra come se gli stessi rivelando i segreti dell'universo. «Quelle bianche invece sono le nuvole. Vapore acqueo, in pratica».

«Si possono toccare?»
«No».

Un lampo di delusione gli balenò sul volto. Notai che aveva un insetto sulla guancia e allungai la mano. Keegan si paralizzò e i suoi muscoli si irrigidirono, ma non si mosse mentre raccoglievo l'animaletto rosso e nero con la punta dell'indice. Aggrottò la fronte e si protese per guardare meglio, affascinato.

«È una coccinella» gli spiegai, osservandola volare via. «Si dice che porti fortuna».

Keegan mi fissò intensamente, incatenando gli occhi ai miei. I capelli gli stavano ricrescendo piuttosto in fretta e una rada peluria gli era già spuntata sul mento e sulla mascella. La indicai. «Dovrai imparare anche a raderti. A meno che tu non preferisca tenerla, ovvio».

Lui se la accarezzò, storcendo poi il naso. «No, non mi piace molto. Pizzica».

«D'accordo. Chiederò a Ethan di insegnarti».

«Non puoi farlo tu? Non ce l'hai, quindi sei capace».

Soffocai a stento una risata. Avevo capito che Keegan era abbastanza permaloso e si immusoniva quando aveva il presentimento di essere preso in giro. «Le ragazze non hanno la barba, ma aiutavo mio padre a farsela. In teoria, dovrei ricordarmi come si faccia».

«Per questo tu hai quelle e io no? Perché sei una ragazza?» chiese, accennando al mio seno.

Premetti un pugno sulla bocca. Impedirmi di ridere stava diventando un'impresa sempre più complicata. «Sì, Keegan. E hai pure un'ossatura più robusta, anche questo è perché sei maschio».

«Ci sono altre differenze?»

Arrossii e mi grattai il collo. «Ne riparleremo un'altra volta». Oppure mai. «Ora devo andare. Ti abbiamo lasciato dei sandwich nel frigo e anche delle barrette proteiche, visto che adori il cioccolato».

«Ma...» protestò Keegan confuso.

«A domani». Feci per alzarmi, poi mi resi conto che avevo dimenticato la vera ragione per cui ero venuta da lui. Frugai nella tasca del giubbotto. «Ah, tieni. Se dovessi aver bisogno o ti sentissi troppo solo, chiamami con questo. O chiama uno dei miei amici. I numeri sono già tutti in memoria».

Keegan prese il telefono a conchiglia che gli stavo porgendo e lo tenne in mano con fare impacciato, quasi non sapesse da quale parte reggerlo. Mi guardò di sottecchi. «Tu sai che non ho idea di come si usi, vero?»

Era difficile capacitarsi che potesse esistere un mio coetaneo totalmente a digiuno dalla tecnologia. Mi abbandonai di nuovo accanto a lui, sollevai lo schermo del cellulare e cominciai a spiegargli il minimo indispensabile riguardo al suo utilizzo.

Keegan mi ascoltava, con un misto di concentrazione e di stupore nello sguardo. Quando ebbi terminato, rimase in silenzio per un lungo momento, forse per processare la mole di informazioni che gli avevo riversato addosso. «Perciò, se clicco sul tuo nome e poi qui, possiamo comunicare a distanza?»

«Esattamente».

Premette il tasto con l'icona verde. Presi il mio telefono, che stava vibrando, e la accettai, portandomelo all'orecchio. Lui mi imitò, titubante. «Ciao» dissi con un sorriso.

Keegan sobbalzò per la sorpresa e allontanò di scatto l'apparecchio, poi lo riavvicinò lentamente. «Mi senti anche tu da quella scatoletta?»

«Forte e chiaro».

La sua bocca si spalancò in una perfetta O. Ridacchiai e richiusi la chiamata. «È incredibile» commentò lui, mentre riponevo il mio smartphone nei pantaloni. «Com'è possibile?»

Scrollai le spalle. «Il potere del progresso».

«Sì, ma come funziona?»

Mi bloccai, corrucciata. «Oh, ehm, c'entrano le onde elettromagnetiche tipo. Non è facile da capire...»

Keegan piegò la testa di lato, divertito. «Non lo sai».

«Certo che lo so».
«Non credo proprio».

«Beh, so comunque più cose di te» replicai sulla difensiva.

Un broncio infantile si dipinse sul suo viso. «Paragone ingiusto. Io sono al mondo da...»

Andai in suo soccorso. «Un mese».

«Ecco, un mese. Qualsiasi cosa significhi».

Ci guardammo per un secondo, poi lui scoppiò a ridere. Era un suono delicato e piacevole, che mi colse alla sprovvista. Ne rimasi rapita. Per la prima volta mi sembrava davvero spensierato, se non addirittura felice. Per la prima volta mi sembrava un ragazzo e basta.

Ero immobile davanti allo specchio. Avevo passato l'ultima ora a cambiarmi, inviando foto di ciascun outfit alle mie amiche per capire quale fosse il più adatto a un primo appuntamento.

La mia relazione con Josh era durata circa tre anni, a fasi alterne tra continui tira e molla, quindi ero abbastanza fuori allenamento. Alla fine, su consiglio di Layla, avevo optato per un abito nero cosparso di brillanti con l'orlatura di pizzo e una gonna svasata lunga fino al ginocchio. La scollatura non era esagerata e non era attillato, ma avevo comunque il terrore che fosse troppo.

Quando lo avevo confidato a Ethan, dopo che era entrato in camera per vedere se avevo compiuto la mia "missione", il suo giudizio era stato: «Approfittane ora. Tra non molto avrai il pancione e non ti starà più nulla, hermana».

Molto meglio, grazie.

Sospirai e mi raccolsi i capelli, lucidi e ancora umidi per la doccia, in una coda di cavallo. Li sciolsi subito, non convinta. Avevo un nodo doloroso allo stomaco e mi sentivo esausta, ciò che temevo di più però era la nausea.

Portai una mano alla pancia, osservando il mio riflesso. «Fai il bravo tu stasera, eh. O la brava».

Ero stata così occupata a piangermi addosso che non mi ero mai fermata a riflettere sul sesso del bambino. Anche se mi era indifferente, dovevo ammettere che un po' speravo in una femminuccia. Sia perché l'idea di un baby Nicholas mi spaventava, sia perché mi piaceva immaginare i suoi tanti zii che la trattavano da principessa come il mio papà aveva fatto con me e con Eryn. Era un luogo comune forse, ma accarezzare quella fantasia mi confortava.

Un picchiettare sul vetro mi fece voltare di scatto. Balto aveva già sollevato il muso, le orecchie ritte. Il cuore mi schizzò in gola quando riconobbi il profilo di una figura accasciata sul davanzale. Mi avvicinai e scostai la tenda, restando sbalordita nel ritrovarmi di fronte ad Alexander, con un ginocchio sollevato e il cappuccio tirato sulla testa.

Spalancai la finestra. «Che cavolo ci fai qui?»

«Mi hai scritto di aver scoperto qualcosa» replicò lui, facendo ciondolare una gamba nel vuoto. Doveva essersi arrampicato da uno degli alberi in giardino, eppure non aveva nemmeno il fiatone.

«Ti ho anche scritto di venire domani».

«Allora mi sono perso il domani. Mi fai entrare? Non è proprio una posizione comoda».

Fui tentata di spingerlo giù. «Come sei salito? I rami sono lontani. Dimmi che non sei stato così idiota da saltare».

Alexander sbuffò. Mi piazzò le mani sulle spalle e mi scansò senza tanti complimenti, per poi scivolare dentro la mia camera. Si abbassò il cappuccio e crollò all'indietro sul letto, le scarpe sospese oltre il bordo del materasso. Balto gli appoggiò il muso sulle ginocchia e lui cominciò ad accarezzarlo.

Il suo sguardo vagò sui trucchi e i gioielli sparpagliati sul mobile da toeletta e tornò a posarsi su di me, percorrendomi dalla testa ai piedi. Se apprezzava o meno il modo in cui mi ero vestita, lo nascondeva alla perfezione.

«Prego, come se fossi a casa tua» bofonchiai, richiudendo la finestra. La presa delle sue dita metalliche mi aveva fatto rabbrividire. Mi scordavo sempre della protesi. «Sbrighiamoci, però. Devo uscire con tuo fratello tra una decina di minuti».

«Lo so. Ha rotto le scatole tutto il pomeriggio con le sue paranoie».

Mi venne da sorridere. Era rassicurante avere la conferma di non essere l'unica in fibrillazione. Mi chinai e aprii il cassetto del comodino. Gli occhi azzurri di Alexander individuarono il foglio ripiegato del disegno che mi aveva regalato e l'angolo della sua bocca ebbe un guizzo. Sembrava soddisfatto.

Ignorai il calore sulle mie gote, presi l'album della signora Wurstel e mi sedetti al suo fianco. Iniziai a sfogliarlo in fretta. «Stavo dando un'occhiata a questo e ho notato...»

Alexander aggrottò la fronte, lasciando che Balto gli leccasse il mento per richiamare la sua attenzione. «Perché ci sono le foto di Vivianne e dei suoi fratelli?»

«Apparteneva all'ex governante del vostro castello, ai tempi in cui tua madre era giovane. È morta e mia madre ha ereditato le sue cose, dato che non aveva parenti».

«E quando pensavi di dirmi che hai un album della mia famiglia?» C'era una sfumatura risentita nella sua voce.

Provai un moto di fastidio. «Perché tu invece sei stato completamente sincero con me su tutti gli oscuri segreti dei De'Ath, scommetto» ribattei, serrando i denti.

L'espressione di Alexander rimase impassibile, anche se mi parve di scorgere un'ombra nelle sue iridi di ghiaccio. Mi fece cenno di proseguire. Arrivai alla copertina sul fondo e tirai fuori la fotografia infilata nella rilegatura rovinata. Mi ero accorta per caso che c'era un angolo sporgente, come una pagina incollata così bene da aderire in maniera quasi impeccabile.

La passai ad Alexander, che la studiò con attenzione. L'immagine era sbiadita e presentava qualche macchia, ma i soggetti erano ancora riconoscibili.

Una ragazza giovanissima con un sorriso spento, che teneva un neonato tra le braccia. Sebbene sulla torta di compleanno davanti a loro fosse accesa una candelina, il piccolo non dimostrava più di pochi mesi. Non somigliava molto alla madre a parte per gli stessi occhi blu, anche se i suoi erano stranamente incavati. Aveva i capelli castani e le orecchie grandi, il cranio schiacciato ai lati. Fissava Vivianne con la boccuccia aperta, lo sguardo affettuoso ma assente.

Mi alzai. La vista di quel bambino mi faceva male, perché era evidente dal suo aspetto insolito che doveva essere malato.

Alexander girò la foto e lesse la scritta sul retro. «Vivianne e Jayson De'Ath».

Mi infilai gli orecchini e mi accertai di avere attorno al polso il braccialetto con i petali cristallizzati. «Chi è Jayson?» domandai, mettendomi gli stivali che avevo preparato alla base della scarpiera. «Vostra madre ha avuto altri figli, prima di Nicholas?»

«Non che io sappia. Ci sono altre foto di lui?»

Mi raddrizzai sulla sedia e scossi il capo. «Quella è l'unica ed era imboscata, come se qualcuno non volesse che fosse trovata». Diedi una rapida spazzolata finale ai capelli e mi controllai allo specchio, intanto che mi spruzzavo il profumo sul collo. «Non è segnata la data, ma Vivianne doveva avere pressappoco la mia età, forse poco di più. Quindi adesso Jayson sarebbe all'incirca sui venticinque anni, giusto?»

«Se è vivo». La schiettezza di Alexander mi fece trasalire, ma non parve accorgersene. Rimise la foto nell'album e lo depositò sul comodino. «Guarderò nel mausoleo di famiglia. Non credo che sia importante, comunque».

«Allora perché nasconderla?»

Com'era prevedibile, lui non rispose e riprese ad accarezzare il cane. Un sorriso tenero gli sbocciò sul viso. «Come si chiama?»

«Balto. Lo abbiamo scelto perché era il cartone preferito di mio padre». Mi voltai e allargai le braccia, facendo una mezza piroetta. «Renditi utile, già che ci sei. Come sto?»

Alexander esitò, gli occhi che esploravano il mio corpo. Il suo pomo d'Adamo fece su e giù. «Come tutti i giorni».

«Wow, grazie mille. Avresti potuto dire almeno "Sei carina"».

«Appunto. Lo sei tutti i giorni, e molto più che carina» borbottò, facendo spallucce.

Le sue parole mi provocarono un fremito lungo la spina dorsale. Lo fissai incredula. «Scusa, era un complimento?»

«No, una constatazione».

Sentii il suono del campanello, poi il rumore del portone che veniva aperto. «Arya, tesoro, è arrivato Remiel» mi chiamò mia madre.

Scoccai un'occhiata ad Alexander. «Devi andartene».

Lui scrollò le spalle, diede una grattatina dietro le orecchie a Balto e si indirizzò verso la porta. Lo bloccai, piazzandomi di fronte a braccia conserte. «No, Remi non deve vederti. Esci dalla finestra».

«Come dovrei fare?»
«Come sei salito, ma al contrario».

«E se cado e mi faccio male?»
«Cercherò di non ridere».

Alexander roteò gli occhi e tornò indietro. Balzò sul davanzale, si mise con le gambe a penzoloni e, con un movimento sciolto, si diede una spinta. Sgranai gli occhi e corsi ad affacciarmi alla finestra.

Ero convinta che dovesse essersi almeno slogato una caviglia, invece Alexander atterrò in piedi con eleganza e si spolverò i pantaloni, guardando verso l'alto. La luce della sera gli tingeva i capelli platinati di una sfumatura argentea. «Il mio santo fratello aspetta, rompiscatole».

Aveva ragione. Presi al volo la borsetta e il soprabito e mi precipitai al piano di sotto. Remiel chiacchierava con mia madre sull'uscio. Era pallido, i capelli scuri pettinati di lato e il ciondolo della sua famiglia nascosto sotto la camicia azzurra. Continuava a strusciarsi la mano libera sulla giacca, mentre l'altra stringeva un mazzo di rose rosse. Appena mi vide, riacquistò un po' di colorito, che svanì quando notò Balto che mi trotterellava dietro.

«Ciao» lo salutai.

«Ti ho portato dei fiori. Non sapendo i tuoi gusti, sono andato sul classico».

Li annusai, inalandone la fragranza. «Sono bellissimi».

«Li metto io in un vaso» si offrì mia madre, prendendo il mazzo di rose. «Voi andate pure, ragazzi. E divertitevi».

Remiel si agitò sul posto, ricambiando lo sguardo di Balto che lo fissava guardingo. «Grazie, signora Black».

«Chiamami Linda, caro. Mi fate così tanta tenerezza...»

«A più tardi» gridai, trascinando il ragazzo fuori dalla porta. Fargli sapere che mia madre considerava gli orfani De'Ath al pari di cuccioli bisognosi d'amore e di protezione non mi sembrava un buona tattica per metterlo a suo agio.

Sul ciglio della strada era parcheggiata la lussuosa Audi blu notte con cui mi aveva riaccompagnata a casa, la mattina che mi ero svegliata in una delle stanze degli ospiti del castello. Fui investita da un moto d'imbarazzo al pensiero che avevo vomitato sul tappetino. Dentro di me pregai di non ripetere la figuraccia.

«Hai paura dei cani?» chiesi, varcando il cancello.

«Solo di quelli che mi guardano come se fossi una bistecca».

Ridacchiai. «Non ha mai morso nessuno, tranquillo».

Remiel accelerò il passo e mi aprì lo sportello. Prima che potessi ringraziarlo, la sua attenzione venne attirata dalla sagoma che camminava lungo il marciapiede, nella direzione opposta alla nostra. Si accigliò. «Alexander?»

Lui si girò. «Ti avviso, Remi. Oggi è più antipatica del solito» commentò, facendomi una smorfia.

Lo osservai allontanarsi, in bilico tra lasciar perdere o andare a mollargli un ceffone come avevo fatto con Nicholas.

Remiel mi rivolse un'espressione stranita. «Che ci faceva da te?»

«Studiamo insieme ogni tanto». Di solito ero più brava a mentire, ma in quel momento non riuscivo a inventare nulla di meglio.

«Alexander studia?»

«Scioccante, vero?». Mi tuffai sul sedile del passeggero, senza dargli il tempo di ribattere.

Remiel rimase imbambolato per un attimo, quindi entrò a sua volta in macchina e mi rivolse un sorriso timido. «Sei stupenda, comunque».

Prendi appunti, Alexander.

Gli sorrisi in risposta. «Grazie».

Nell'istante in cui mise in moto, il rumore di una notifica segnalò l'arrivo di un messaggio. Presi il telefono e illuminai lo schermo.

Alexander:
Iniziare l'appuntamento
con una bugia.
Molto male

Arya: 🖕🏻”

«Ti va bene andare al cinema? Possiamo cambiare programma, se hai altre preferenze».

«È perfetto». Sollevai lo sguardo sul suo volto, fisso verso la strada. Mi mordicchiai l'interno della guancia. Tanto valeva togliersi subito il dente. «So che non è quello che i ragazzi vorrebbero sentire al primo appuntamento, ma ti andrebbe domani di venire con me per l'ecografia? Ethan ha un impegno e i miei amici devono ancora metabolizzarlo».

Remiel picchiettò le dita sul volante, restando in silenzio così a lungo che credetti che non avrebbe risposto. «Certo».

«Se non vuoi, ti basta dirmelo». Rimasi sorpresa dal tono scorbutico con cui mi era uscita quella frase. Era tutto il giorno che avevo i nervi a fior di pelle. «Cioè, non sei obbligato».

«Lo so. Lo faccio volentieri. Solo che...» Remiel tentennò. «Non avevo capito che fossi ormai sicura di volerlo tenere».

«Non voglio abortire. Non fraintendermi, non c'è nulla di male, ma mi conosco abbastanza da sapere che non riuscirei a vivere il resto della mia vita chiedendomi se fosse la scelta giusta o l'ennesima Aryata».

Il suo sorriso si allargò. «Aryata?»

«Eh già. Faccio così tante stupidaggini che hanno pure un nome». Mi afflosciai contro lo schienale, guardando fuori dal finestrino. «Stavo considerando la possibilità di darlo in adozione. Non dirlo a nessuno, per ora è solo un'idea».

«Essere adottati non significa necessariamente finire in una buona famiglia. Parlo per esperienza».

«Hai trovato i tuoi fratelli» obiettai.

«Anche i miei genitori». Remiel si rabbuiò, poi scosse la testa e posò la mano sulla mia, abbandonata sulla coscia. «Ho una proposta. Solo per stasera facciamo finta che tu non sei incinta e che io non sono un De'Ath. Siamo due normali adolescenti che si godono un bel film insieme, nient'altro. Okay?»

Annuii. Arrivati al centro commerciale, parcheggiammo e ci recammo davanti al cinema. Essendo sabato, era abbastanza affollato. Remiel si lasciò persuadere a malincuore a guardare un thriller, malgrado non andasse matto per le pellicole troppo cruente. Avevo tentato di andargli incontro, suggerendo una commedia romantica, ma si era rifiutato.

Prendemmo un secchiello enorme di popcorn da condividere ed entrammo in sala. Mentre ci dirigevamo verso i nostri posti, avevo la perenne sensazione di essere osservata. A discapito del nostro accordo, uscire con un De'Ath comportava sopportare occhiate indiscrete e risolini maliziosi.

Arrancando lungo la fila, calpestai per sbaglio il piede di qualcuno. «Scusi».

«Nessun problema, signorina».

Siccome la voce mi era famigliare, mi voltai. Tutto ciò che vidi fu una sagoma avvolta in un impermeabile, con un cappello e un giornale dispiegato davanti alla faccia. Mi sporsi e scoprii che anche il tizio seduto accanto indossava il medesimo travestimento.

Nel momento in cui feci per aprire bocca, nella sala calò il buio e mi sbrigai a raggiungere la mia poltrona, vicino a Remiel. Durante il film, per i primi minuti, erano soltanto i nostri gomiti a sfiorarsi. A poco a poco cominciai a far strisciare la mano verso la sua, che non si muoveva mai neanche per prendere i popcorn.

Quando gliela toccai, mi accorsi che le sue dita erano serrate attorno al bracciolo. Lo sbirciai con la coda dell'occhio. Remiel aveva la mascella contratta e, a ogni scena particolarmente violenta, rilasciava un sospiro profondo.

«Tutto okay?» gli sussurrai all'orecchio.

Lui sussultò, quasi si fosse scordato della mia presenza. I suoi occhi verdi quasi brillavano. «Sì, è che il sangue mi fa un po' impressione» farfugliò.

Aggrottai le sopracciglia. Onestamente a me sembrava più eccitato che turbato. «Vuoi che ce ne andiamo?»

«No, sto bene».

All'intervallo mi alzai per andare in bagno e passai di nuovo di fronte alla bizzarra coppietta. Si coprivano ancora con il giornale, ma sapevo benissimo chi fossero. «Gabe, ti ho riconosciuto».

«Spiacente, signorina. Non conosco nessun Nate».

«Smettila di chiamarla signorina, idiota. Così si capisce chi sei» lo rimproverò l'altro.

Incrociai le braccia sotto il seno. «Joel, l'ho già capito».

«Joel? Intendi quel gran figo dei De'Ath?»

Strappai a entrambi la rivista. Gabriel rimase immobile per un istante, poi si portò una mano al petto. «Arya, ma che coincidenza! Come va la serata? Vi state facendo le coccole?»

«Ci avete seguiti?» chiesi incredula, ignorando le sue domande.

Joel si tolse il berretto a cilindro. «Ovviamente no. Eravamo già appostati fuori dal cinema e abbiamo preso i biglietti poco dopo di voi».

«A puro scopo informativo, e non perché meditiamo di rifarlo in futuro, che cosa ci ha traditi?» Gabriel prese un serpentino dal sacchetto di caramelle e ne strappò un morso. «Seth aveva consigliato di metterci anche dei baffi finti e degli occhiali da sole. Sarebbe stato più efficace, secondo il tuo parere?»

Gli scoccai un'occhiataccia. «A proposito di Seth, mi stupisce che non sia con voi».

«Avrebbe voluto, ma aveva l'appuntamento con Nik».

«E non potevate seguire loro?»

Joel sogghignò. «Ci abbiamo pensato. Purtroppo, però, non sappiamo dove siano andati alla fine».

«E Remi non ha minacciato l'incolumità delle nostre persone» puntualizzò Gabriel.

«Adesso vado in bagno». Li indicai con fare minaccioso. «Al mio ritorno dovete essere spariti».

Mi precipitai fuori dalla sala e corsi a rinchiudermi nel primo gabinetto disponibile. Iniziavo a chiedermi perché la gravidanza venisse definita "dolce attesa", se era composta da nausee disgustose, voglie assurde e una vescica microscopica.

Dopo essermi lavata al rubinetto, rimisi la borsa in spalla e uscii dal bagno. Con mia sorpresa nel corridoio c'era un ragazzo, la schiena appoggiata al muro. Per il resto era deserto, quindi dedussi che la pausa doveva essere conclusa.

Un brivido mi fece accapponare la pelle. «Stai scherzando, Josh? Mi pedini anche?» strillai, marciando rabbiosa verso di lui.

Delle ombre comparvero ai margini del mio campo visivo, ma non potei reagire. Mi ritrovai stretta in una morsa soffocante, un panno mi venne premuto sul viso e avvertii una siringa che mi penetrava nel collo. Cercai di dibattermi, ma le mani che mi trattenevano erano troppo forti. Le gambe mi cedettero e delle braccia robuste furono costrette a sorreggermi.

«Nessuno mi lascia, puttana del cazzo. Tantomeno per farsi mettere incinta da un frocio psicopatico».

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Angolo Jedi
Questo capitolo non mi convince per niente (strano, lo so), anche perché detesto scrivere di appuntamenti. Infatti l'ho interrotto con un rapimento... ops.

Spero che si sia capito che esiste un legame tra Arya e Nicholas. Non so se sono riuscita a farlo notare, ma era un tantino nervosetta in questo capitolo💆🏻‍♀️

Ne approfitto per augurare in ritardo a tutt* un buon ritorno a scuola e vi ringrazio come sempre per continuare a leggermi. Vi voglio bene.

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