𝕮𝖆𝖕𝖎𝖙𝖔𝖑𝖔 30 (Arya)
"𝔖𝔬𝔲𝔩𝔪𝔞𝔱𝔢𝔰 𝔞𝔯𝔢𝔫'𝔱
𝔧𝔲𝔰𝔱 𝔩𝔬𝔳𝔢𝔯𝔰"
꧁꧂
Soffiava un vento freddo nel parco. Avvertivo la spiacevole sensazione dei pantaloni appiccicati alla panchina bagnata di rugiada, mentre mi stringevo nel giubbotto pesante chiuso fino alla gola. Nonostante il sole che splendeva nel cielo pallido, non mi arrivava un minimo di calore.
«Allora, hai intenzione di tenerlo o...?» chiese Ethan, lanciando per l'ennesima volta la pallina. Balto subito si lanciò al suo inseguimento con un versetto gioioso.
Era mattina presto di domenica, quindi non c'era quasi nessuno in giro. Lo avevo svegliato poco dopo l'alba e gli avevo proposto di fare una passeggiata, avendo un disperato bisogno di una boccata d'aria. Doveva volermi davvero bene per non avermi mandato a quel paese.
Ne avevo così approfittato per raccontargli della gravidanza. Era l'unico con cui ne avevo parlato finora, anche se in realtà lo aveva già intuito. Aveva preferito lasciarmi i miei tempi e aspettare che fossi io ad affrontare l'argomento, pur senza farmi mai mancare il suo sostegno.
«Non lo so». Abbassai lo sguardo sulla mia pancia. Ci sarebbero volute settimane prima che cominciasse a notarsi, eppure quando mi guardavo allo specchio mi vedevo diversa. Forse perché era stranissimo pensare di avere una minuscola vita che mi cresceva dentro, una vita che sarebbe dipesa interamente da me. «Non credo che sarei una brava madre».
«Non puoi saperlo».
«Sì, invece! Sono un disastro ambulante!» esclamai con foga. «Non so neanche badare a me stessa. Come potrei prendermi cura di un bambino da sola?»
Ethan mi rivolse un sorriso dolce. «Non saresti da sola».
Rabbrividii e mi sfregai le mani infilate nei guanti. «Non posso chiedere alla mamma di fare altri sacrifici. Lavora tutto il giorno per mantenere noi quattro e Rhys è ancora piccolo. Sarebbe da egoisti smollarle anche un neonato».
Era uno dei motivi per cui non volevo dirle di essere incinta. Sapevo che mi avrebbe aiutata, che sarebbe rimasta al mio fianco e non mi avrebbe mai rinfacciato nulla. Stavolta però non lo meritavo. Non potevo cacciarmi nei guai e pretendere che lei ne pagasse le conseguenze. Ero stanca di deluderla.
Balto ritornò scodinzolante e depositò la pallina ai piedi di Ethan, scalpitando per l'impazienza. Lui la raccolse, poi la tirò di nuovo. «Beh, ci sono i De'Ath».
«Che fortuna». Sollevai la manica del giubbotto per scoprirmi il polso. I segni delle dita di Nicholas mi marchiavano ancora la pelle e, con un tremito, ricordai lo sguardo feroce che aveva distorto il suo bellissimo volto. Per un attimo, mi era sembrato quasi un animale. Mi aveva fatto paura, non potevo negarlo. «Mi consolerebbe di più, se il padre non fosse un bastardo».
«Ma i suoi fratelli potrebbero prenderla meglio. In quel caso, tuo figlio avrebbe così tanti fantastici zii a viziarlo che non ne sentirebbe nemmeno la mancanza». Ethan si puntò entrambi i pollici al petto. «Eccone uno, a proposito!»
Feci una risatina mesta, osservando Balto che si rotolava allegro nell'erba. «Mi sembra di capire che dovrei tenerlo, secondo te».
Si accigliò. «Mi hai frainteso. Non voglio convincerti a fare nulla». Si sedette accanto a me sulla panchina, il ciuffo castano agitato dal vento. «È una tua decisione, Arya. Solo tua. Ma ti sto dicendo di non farti guidare dalla paura, nel prenderla, perché un domani potresti pentirtene. I genitori migliori spesso sono quelli che hanno paura di non esserlo».
Esitai. «E se non fossi pronta?»
«Ti accompagnerei ovunque si vada per queste cose e starei lì a tenerti la mano fino alla fine». Come per dimostrare la veridicità delle sue parole, intrecciò le dita alle mie e le strinse.
Gli sorrisi e mi rannicchiai contro la sua spalla, cullandomi nel tepore fraterno del suo abbraccio. «È stato stupido da parte mia sperare che Nicholas reagisse diversamente» sussurrai, gli occhi che bruciavano per l'aria fredda. «È che mi rende triste pensare che lui, o lei, non avrà un papà meraviglioso come quello che ho avuto io. Ho visto quanto Rhys soffre per averlo conosciuto a malapena, pur avendo John... avrei voluto di meglio per mio figlio».
«Magari cambierà idea. Immagino che sia una situazione abbastanza difficile anche per lui». La sua voce suonava poco convinta. «Anche se non lo giustifica per essere un huevonazo».
«Che significa?»
«Coglionazzo».
Ridacchiai di nuovo. Ethan si staccò da me e mi fissò con uno sguardo carico di tenerezza. «Non dovresti preoccuparti di questo, sai? Prendi me, ad esempio. Sono nato in una famiglia che fa schifo, ma ne ho trovata una che mi ama in un modo che i miei genitori biologici non sono mai riusciti a fare». Fece spallucce. «Il sangue è inutile, se non c'è l'amore».
La sua espressione avvilita era più dolorosa di una pugnalata. Gli passai un braccio dietro le spalle e lo attirai a me. Balto ci venne incontro con la pallina in bocca e me la gettò in grembo, inzuppandomi i vestiti di bava. Gli diedi una grattata dietro le orecchie, poi afferrai il giochino e lo scagliai lontano con forza.
«Hai ragione. Posso sempre dargliene un altro, di padre».
Ethan mi rifilò una gomitata scherzosa. «I pretendenti non mancano, eh».
Una morsa dolorosa mi attanagliò il cuore. Mi sforzai di non pensare a Remiel, di non chiedermi come dovesse sentirsi. Ero stata tentata di chiamarlo o scrivergli un messaggio, ma non ero sicura che volesse sentirmi. Aspettavo un figlio da suo fratello. Probabilmente era abbastanza per farsi passare la cotta che aveva per me, se si poteva definire in quel modo.
Dopo aver rimesso il guinzaglio a Balto, ci indirizzammo verso casa. Mentre procedevamo lungo il marciapiede, notai subito una figura in piedi in fondo alla strada, stagliata davanti al nostro cortile. Ancora prima di essere abbastanza vicina da distinguerne con chiarezza i contorni, capii che era un De'Ath. Era bizzarro, eppure lo percepivo.
«Dobbiamo parlare» esordì Alexander, con il bacino appoggiato allo steccato del mio giardino. Teneva un ginocchio sollevato e le mani nascoste nelle tasche, i capelli biondo platino che spuntavano dal cappuccio della felpa scura.
Ethan lo guardò stranito. «Buongiorno anche a te».
Ma il ragazzo non parve nemmeno accorgersi della sua presenza. I suoi occhi, fissi su di me, mi facevano accapponare la pelle; non riuscivo ad abituarmi a quell'azzurro innaturale, trasparente come una lastra di ghiaccio. Quando spostò lo sguardo, fu solo per posarlo su Balto, che aveva preso a ringhiare piano. Le sue labbra si incresparono nell'abbozzo di un sorriso.
Aggrottai la fronte, rafforzando la presa sul guinzaglio. «Parlare? Non credevo che avessi questa capacità».
«È evidente che stai indagando sulla mia famiglia. Se vuoi delle risposte, vieni».
«L'invito è valido anche per me?» chiese Ethan.
«No».
Senza aggiungere altro, Alexander si scostò dalla staccionata. Si fermò un istante per dare un buffetto sul muso a Balto, poi cominciò ad allontanarsi con un'andatura studiatamente lenta. Non si voltò neanche a controllare che lo stessi seguendo.
Ethan mi scoccò un'occhiata preoccupata. «Non vuoi andarci sul serio, vero? Perché nella lista di De'Ath inquietanti, quello si colloca al primo posto».
«Secondo. Callum lo è molto di più». Gli porsi il guinzaglio, fissandolo implorante. «Ti prometto che non ci metterò molto. E poi abbiamo passato un sacco di tempo insieme a scuola, in punizione. Se fosse uno psicopatico omicida, mi avrebbe già uccisa per farmi stare zitta».
Ethan si incamminò con riluttanza in direzione del portone d'ingresso, trascinando con sé un altrettanto recalcitrante Balto. Io invece corsi dietro ad Alexander. Le folate di vento mi scompigliavano la chioma corvina e dovevo avere le guance arrossate per il freddo. Mi sentivo la punta del naso congelata.
«Okay». Lo affiancai, il respiro affannato. «Ci sono».
Alexander mi sbirciò di traverso. «Non dovresti affaticarti» mi ammonì.
«Non sono mica malata».
Lui mi esaminò con l'attenzione che si dedicherebbe a un prezioso reperto storico, mettendomi a disagio. Durante il breve tragitto fino al Grumpy, tra di noi regnò il silenzio. Siccome non volevo infastidirlo e rischiare di sprecare questa occasione, non osai aprire bocca.
Mi limitai ad occhiarlo di tanto in tanto, cogliendo sempre nuovi particolari del suo viso. Aveva i lineamenti affilati, taglienti come rasoi, con zigomi ben definiti. Le sopracciglia erano sottili e scure, il suo colore naturale probabilmente, e il labbro superiore era più carnoso rispetto a quello inferiore.
Per l'ennesima volta, mi ritrovai a pensare che la bellezza dei De'Ath aveva qualcosa di irreale, quasi oscuro. Come se il loro fascino fosse stato creato apposta per abbindolare le prede in una trappola fatale.
Giunti di fronte al bistrot, salimmo i tre bassi gradini che conducevano all'ingresso. Erano scivolosi e rischiai di perdere l'equilibrio, ma Alexander mi afferrò il gomito per impedirmi di cadere. Sussultai al contatto con le sue dita, dure e rigide, come se fossero fatte di metallo. Osservai la sua mano destra, quella che tendeva a usare di meno, malgrado non fosse mancino.
«Hai una protesi» mi lasciai sfuggire sbalordita. Era realizzata talmente bene che non capivo nemmeno se a mancargli fosse l'arto intero o meno.
Alexander mi mollò con uno sbuffo. «Perspicace».
Mi morsi la lingua per costringermi a non insultarlo. Entrammo e occupammo un tavolo nell'angolo, accompagnati da sguardi indiscreti e sussurri sommessi.
Era inevitabile. Che lo volessero o meno, a Notturn Hall la brutta reputazione dei De'Ath era leggendaria e gli ultimi eventi – un ragazzo scomparso, la comparsa di Keegan, l'incendio alla scuola... – non avevano fatto altro che alimentare quella sinistra fama.
Alexander si gettò sulla panca. I suoi movimenti non avevano né la sensualità di Nicholas, né la delicatezza di Remiel, anzi erano quasi svogliati. Trasmettevano però tutta la sua sicurezza, la quale formava un interessante connubio con il suo carattere chiuso e apatico, ma non arrogante.
«I tuoi fratelli non si arrabbieranno per questo?» gli chiesi, sedendomi dirimpetto a lui.
«Può darsi».
Mi accigliai. «Allora perché vuoi dirmi la verità? Fino a pochi giorni fa, eri piuttosto chiaro sul fatto che dovevo farmi gli affari miei».
Alexander si tirò giù il cappuccio con un gesto brusco e si appiattì i capelli arruffati. «Ora sono anche affari tuoi, mi pare. No?»
«Sì, ma...»
«Dovresti iniziare a farmi le domande che ti premono davvero, Arya». Roteò il polso sinistro per mettere in mostra l'orologio. «Il tempo scorre».
Non aveva torto, perciò non obiettai. «Mio padre, Charles Black, faceva il poliziotto. Era lo sceriffo che ha indagato sull'omicidio di tua madre e del suo...» Avvampai per l'imbarazzo. «Cioè, di Lucius».
Alexander rimase impassibile, tranne per il muscolo che guizzò sulla sua mascella quando pronunciai quel nome. «Quale sarebbe la domanda?»
«Poco dopo aver chiuso il vostro caso, è stato investito. Un incidente, o così lo hanno fatto passare. Non può essere una coincidenza». Conficcai gli occhi nei suoi, serrando i pugni sulle ginocchia. «Tu sai cosa gli è successo?»
«No». Fece una lunga pausa di riflessione, soppesando con cura ogni parola. «Ma è molto probabile che lo abbiano ucciso».
Era una conclusione a cui ero già arrivata da sola, ma averne la conferma mi provocò comunque un moto di nausea. Mi schiarii la gola per ricacciare giù il conato. «Ti riferisci all'Olympus?»
Non fu abbastanza veloce a nascondere il lampo di sorpresa che gli balenò sulla faccia, solo per un attimo. Rimase ammutolito per un po' con aria assorta, poi si riscosse. «Certo, hai visto il tatuaggio di Nicholas».
«Soggetto Zero. Proprietà esclusiva dell'Olympus» recitai a memoria. «Che significa? Fate parte di una specie di setta?»
Alexander scrollò le spalle. «È un'organizzazione che ce l'ha con la mia famiglia. Non posso dirti altro». A giudicare dall'espressione ostile, era tornato sulla difensiva. «Tuo padre sapeva che l'Olympus ci avrebbe cercati, così ci ha affidati al dottor Thomas Stone per permetterci di sparire».
«È morto perché vi ha protetti».
Annuì con fare serio. «Questo dovrebbe darti un'idea del pericolo che stai correndo».
Mi sfiorai il ventre attraverso il giubbotto. «Ho l'impressione che tu stia cercando di spaventarmi». E ci stai anche riuscendo, aggiunsi tra me e me.
«Non voglio spaventarti» protestò lui con una sfumatura indignata. «Ma sarebbe un bene se avessi paura. La paura è utile. È un meccanismo di difesa alla base della sopravvivenza, che possiedono anche le forme di vita più elementari. Senza di essa, la razza umana si sarebbe già estinta».
Non sembravano parole sue, piuttosto era come se stesse ripetendo un discorso che gli era stato fatto in passato.
«E Thomas Stone? Dove si trova ora?» lo incalzai.
«Non saprei».
E non me lo diresti, in ogni caso.
Una cameriera ci si avvicinò, pallida e nervosa. Il suo sguardo saettò al ciondolo che pendeva sul petto di Alexander e deglutì, poi mi fece un sorriso incerto. «Ciao, Arya. Ti porto qualcosa?»
La ricambiai. Maggie era una ragazza adorabile, sui vent'anni, con una cotta intramontabile per Mac. Mi dispiaceva parecchio per lei, ma non stava a me dirle che non aveva nessuna chance con il mio amico.
Anche se avevo lo stomaco troppo in subbuglio per mangiare, avevo pur sempre le voglie. «Solo una cioccolata calda, per favore».
«Per me niente» la anticipò Alexander scorbutico. Maggie tremò appena e si defilò dietro al bancone.
Mi drizzai sulla sedia, impettita. «Potevi essere più gentile».
«Noi De'Ath di rado lo siamo».
«Remi lo è sempre».
Alexander mugugnò contrariato. «Hai altre domande o vuoi continuare a tessere le lodi del mio fratello perfettino?»
Mi morsi il labbro. «Ne avrei una» risposi infine con cautela. «Tu hai una protesi. Nicholas delle cicatrici sul collo e sulla schiena». Pensai alla frusta che avevo trovato nella scrivania, al castello, e inorridii. Lo tenni per me, però. «Chi vi ha fatto del male?»
Lui si irrigidì e nascose la mano destra sotto il tavolo. Un'ombra gli aleggiò nelle iridi cristalline. «Ecco, questo sì che non deve interessarti».
«Anche Keegan ha delle cicatrici. Le ho viste». Attesi che Maggie si allontanasse, dopo avermi consegnato la cioccolata calda. «Che cosa c'entra con voi?»
«Non hai ancora capito perché sono qui, allora». Alexander si sporse in avanti, portando il viso a un soffio di distanza dal mio. Il suo respiro mi solleticava la pelle. Ridusse la voce a un bisbiglio e proseguì: «Se l'Olympus scopre che tuo figlio è un De'Ath, finirete entrambi nel suo mirino. Per questo devi stare alla larga dalla mia famiglia, Arya. E anche da Keegan. Conosci le storie che circolano su di noi, no?»
Increspai le sopracciglia. «Che siete pazzi e perseguitati da un'antica maledizione? Non credo a quelle stupidaggini».
«Forse dovresti» replicò, dopo avermi scrutato per un istante.
Quando si ritrasse, mi resi conto che stavo trattenendo il fiato. Lo rilasciai, traendo dei respiri profondi. Il profumo della cioccolata era rilassante. Ne bevvi un sorso e mi pulii la bocca con un tovagliolo. «Mi stai consigliando di sbarazzarmi di... tu-sai-cosa?»
Alexander sbiancò di colpo. Per la prima volta, mi apparì in difficoltà. «No. Cioè, se lo vuoi sì, ma non intendevo quello. Non sta a me».
«Giusto. Tanto è un mio problema, vero? Nicholas è stato categorico a riguardo» lo incalzai stizzita, toccandomi i lividi sul polso.
Lui lo notò e il suo sguardo divenne glaciale. «È stato mio fratello?»
«Tu che dici?»
«Dico che è un coglione vigliacco che non sa prendersi le sue responsabilità. E che io non sono lui». Alexander si alzò, gettando un'ultima occhiata agli aloni scuri che mi cerchiavano la pelle. Passandomi accanto, si chinò e mi sussurrò all'orecchio: «Puoi pensare quello che vuoi di me, ma non abbandonerò mai una ragazzina incinta. Non ti lascerò da sola. È l'unica promessa che posso farti».
«Delle tante idee di merda che hai avuto negli anni, Arya, questa le batte tutte» commentò Mac, spegnendo il motore del furgone.
Eravamo imboscati in una strada secondaria che fiancheggiava la stazione di polizia, attorniati dalle ombre gettate dalla luce dei lampioni. Ethan sedeva sul lato del passeggero e giocherellava con il piccolo orsacchiotto di peluche appeso allo specchietto.
Io e Layla invece eravamo dietro. Avevamo deciso di non coinvolgere Deena, come facevamo la maggior parte delle volte in cui c'erano alte probabilità di metterci nei guai. E stavolta toccavano picchi sorprendenti persino per i miei standard.
«Non sono d'accordo». Ethan si tirò indietro il ciuffo castano. «Ti sei dimenticato di quando ha voluto creare una bomba chimica nel tuo garage?»
«Ancora ringrazio che l'auto di mio padre fosse un catorcio, all'epoca ».
«Ehi, il tutorial su YouTube lo faceva sembrare facile» protestai imbronciata. «E non dovrei arrivare a tanto se John non mi vietasse di vedere Keegan. Non so neanche con quali prove lo stiano trattenendo».
Layla si strofinò i palmi sudati sui pantaloni. «Siete sicuri che questa cosa sia legale, vero?»
«Per niente» rispose Ethan allegro. «Che figata. Siamo ufficialmente dei delinquenti».
Gli scoccai un'occhiataccia. «Non dovete preoccuparvi, d'accordo? Conosco tutti i poliziotti della città. Mio zio è lo sceriffo. Non mi arresterebbero per una minuscola e insignificante infrazione».
Mac si tolse il berretto, rivelando una massa attorcigliata di capelli scuri. «Lo spero. Ho una salute cagionevole e sono mezzo sordo, in prigione non avrei vita facile».
«Tranquilo, amigo». Ethan gli diede un colpetto sul braccio. «Ho guardato Prison Break un mucchio di volte. So come evadere».
«È arrivato il Michael Scofield dei poveri».
Mi sporsi verso Layla, che si stava torturando le mani per l'ansia. Gliele presi con delicatezza. «Non sei obbligata a restare. Sei ancora in tempo per andartene» la rassicurai.
Lei abbozzò un sorriso tremolante. «No. Faresti lo stesso per me». Mi rivolse uno sguardo indagatore, come in cerca di conferma.
Annuii, anche se non riuscivo a immaginare una situazione plausibile in cui avrei dovuto infrangere la legge per aiutarla. Layla ci copriva e si faceva un po' trascinare, certo, ma non era idiota quanto noi tre. Non combinava mai casini, semplicemente ci finiva in mezzo per colpa nostra.
«Sono le nove in punto. È ora». La voce di Mac mi distolse dai miei pensieri. «Ti aspettiamo qui. Fai in fretta».
«Sì, voglio solo parlarci. Dieci minuti e torno» risposi, aprendo lo sportello.
Ethan mi imitò. «Già. Dieci minuti e torniamo».
«Posso farlo anche...»
«Scordatelo, hermana. Viviamo e moriamo insieme».
Scoppiai a ridere e mi arresi. Ci allontanammo dal furgone e ci dirigemmo di soppiatto verso l'entrata secondaria sul retro del distretto. Non c'era nessuno nei dintorni.
La notte di solito erano pochi gli agenti di turno e quello era proprio l'orario del cambio, quindi non ci avrebbero visti dalle telecamere. Ammesso che ce ne fossero alcune davvero funzionanti, non ne ero certa. Notturn Hall era una cittadina sperduta in cui non accadeva mai nulla; pertanto, la sorveglianza non era mai stata una priorità.
Ci intrufolammo all'interno e percorremmo un corridoio dal pavimento piastrellato. Era buio, ma fin da piccola quel posto era stata la mia seconda casa e riuscivo a orientarmi senza problemi. «Layla non ti sembra strana ultimamente?» sussurrai a Ethan, mentre giravamo l'angolo.
«Credo che sia normale. Andrew ha cercato di molestarla e adesso si è volatilizzato nel nulla. È comprensibile che sia agitata, no?»
Andrew era un altro grande punto interrogativo. Avevo il sospetto che i De'Ath fossero coinvolti anche nella sua scomparsa. Ripetevo a me stessa che non ne avevo parlato con Alexander perché troppo sconvolta per quello che avevo scoperto sull'Olympus e su mio padre. Forse, però, non ero nemmeno così ansiosa di sapere la verità.
Giungemmo nella sala principale con le varie postazioni. Le scrivanie erano tutte vuote, eccetto una. Spaparanzato sulla poltrona, c'era un uomo robusto in divisa –lo riconobbi, si chiamava Owen– che era concentrato sulla partita di football trasmessa in televisione. Ci dava le spalle e agitava il manganello a mezz'aria, preso dalla foga. Le imprecazioni che borbottava mi fecero dedurre che la sua squadra stava perdendo.
Io ed Ethan ci scambiammo un sorrisetto e sgattaiolammo fino all'ufficio di John. Dato che era piuttosto disordinato, dovemmo rovistare per qualche minuto prima di trovare le chiavi. Uscimmo e imboccammo il corridoio laterale che portava a un bivio. Andando dritti si arrivava agli archivi, a sinistra invece c'erano le celle di detenzione.
Gli feci un cenno. «Tu resta fuori e fai il palo».
«John ha detto che Keegan non parla con nessuno» mi fece notare Ethan. «Come pensi di fare?»
«Con me parlerà». Ne ero convinta, sebbene non avrebbe avuto alcun motivo per farlo. Dopotutto era anche colpa mia, se lo avevano arrestato.
Mi incamminai e aprii la porta sul fondo. L'ambiente era immerso nella penombra a causa del debole chiarore dei lampadari, che continuavano a sfarfallare. La cella subito di fronte a me era la sola a essere occupata, come ricordavo.
Keegan era disteso sulla brandina, con le mani intrecciate dietro la nuca e lo sguardo perso nel vuoto. Il lato destro del viso era illuminato, facendo risaltare la cicatrice che gli rigava la guancia. Indossava una maglietta bianca che gli stava parecchio abbondante, eppure mi parve rinvigorito rispetto a due settimane prima. Aveva un aspetto meno stanco ed emaciato, sebbene velato da una malinconia così intensa da farmi male.
«Ehi» esordii, muovendo un passo nella sua direzione.
Keegan mi trafisse con un'occhiata, poi tornò a fissare il soffitto. Era impossibile decifrare le sue emozioni. Era arrabbiato? Ferito?
Continuai ad avanzare e mi fermai davanti alle sbarre. Forzai un sorriso. «Ti ho portato una cosa».
Tirai fuori la barretta che avevo preso da casa e gliela porsi. Keegan non accennava a spostarsi, pur spiandomi con la coda dell'occhio, così gliela lanciai. Avevo fatto in modo che cadesse a metà strada, nella speranza di convincerlo ad avvicinarsi. All'inizio rimase immobile, poi però la curiosità ebbe la meglio e si sporse per raccoglierla da terra.
Si accasciò sul bordo del materasso e la osservò rapito. «Cos'è?»
«Uno snack». In risposta alla sua espressione interrogativa, mi affrettai a specificare: «È da mangiare». E mimai l'atto di mettere in bocca qualcosa.
Keegan si rigirò la barretta in mano, tastando l'involucro con la fronte corrucciata. Alla fine lacerò la carta con cura e, esitante, staccò un pezzetto di cioccolato. Man mano che masticava, il cipiglio di prima veniva rimpiazzato dalla meraviglia di scoprire un sapore nuovo. «Buono» commentò estasiato.
Il mio sorriso si allargò, stavolta sincero. Il suo entusiasmo era contagioso, al pari di quello di un bambino.
Infilai la chiave corrispondente nella toppa ed entrai nella cella. Gli occhi color pece di Keegan mi seguivano a ogni movimento, vigili e diffidenti, anche se era difficile sentirmi intimidita da un ragazzo che stringeva una semplice barretta come se fosse il Sacro Graal.
Indicai la brandina. «Posso?»
Keegan mi studiò per un attimo, titubante, poi scivolò di lato per farmi spazio. Mi sedetti a distanza di sicurezza, vicino al cuscino. «So che te l'ho già detto, ma mi dispiace davvero per averti messo in questa situazione. Non capisco perché John si accanisca tanto su di te. È ovvio che non c'entri nulla con l'incendio».
«Non ho ancora capito bene neanche cosa sia un incendio» bofonchiò, dando un altro timido morsetto alla barretta.
«Ti hanno dato un avvocato, vero? È un tuo diritto avere qualcuno che ti difenda».
«Non puoi difendermi tu?»
Ridacchiai. «Non ti conviene avermi come avvocato».
«Allora non lo voglio». Keegan prese a succhiare la barretta in maniera adorabile. «Perché sei venuta?»
Inclinai la testa e mi scontrai di nuovo con le sue iridi scurissime. Non brillavano, anzi sembravano inghiottire la luce stessa nelle tenebre. «Hai mai sentito nominare l'Olympus?»
«Sì, dall'uomo che mi tiene qui. Perché?»
«John? John ti chiede dell'Olympus?» replicai incredula.
Finita la barretta, Keegan si leccò i polpastrelli e persino la carta sporca di cioccolato. «Mi fa sempre un sacco di domande che non capisco. A volte si arrabbia, ma non so che cosa dirgli». Si piegò in avanti e si cinse il capo con entrambe le mani, passando le dita tra i capelli rasati. «Non ricordo nulla».
La disperazione che gli venava la voce mi fece accartocciare lo stomaco. Avrei voluto abbracciarlo, fargli provare un po' di quel calore umano di cui doveva avere un enorme bisogno, ma non avevo dimenticato le sue parole. È brutto quando mi toccano.
Un trambusto improvviso esplose in lontananza, sovrastato da un urlo sofferente che mi strappò un sussulto. Keegan scattò in piedi con un'agilità disarmante, il suo corpo teso in un compatto fascio di nervi. Nonostante fosse ancora parecchio magro, la sua considerevole altezza unita all'ossatura robusta delle spalle lo facevano apparire quasi minaccioso.
Con il cuore in gola, uscii dalla cella. Quando Ethan sbucò di corsa, rischiando di venirmi addosso, per poco non cacciai un grido. Era bianco come un lenzuolo e tremava tutto. «No bueno, Arya. No bueno» esclamò trafelato, gesticolando. La sua faccia era il ritratto del terrore. «Dobbiamo andarcene. Ora».
Aggrottai la fronte. «Che succede?»
«Di là ci sono degli svitati con dei fucili e un'armatura in stile cloni di Star Wars. Sono fuori di melone, te lo giuro».
Riuscii a captare a stento la metà di quello che farneticava tra un ansimo e un altro, ma fu abbastanza. Mi girai verso Keegan, che era immobile al centro della cella. «Vieni anche tu».
Ethan sgranò gli occhi. «Lo facciamo evadere?» Riecheggiò uno sparo e la sua faccia perse anche quel poco di colorito rimasto. «Okay, lo facciamo evadere. Basta che ce la filiamo».
Con mia sorpresa, Keegan non oppose nessuna resistenza. Ci precipitammo fino al bivio e feci appena in tempo a intravedere una lucida figura nera, prima che Ethan mi strattonasse nella direzione opposta.
Attraversammo il corridoio e allungai il braccio per aprire la porta degli archivi, ma era bloccata. La tirai un paio di volte, in preda al panico, finché lo sguardo mi cadde sul dispositivo attaccato alla parete.
«Maledizione, mi ero scordata. Serve un pass». Lanciai un'occhiata dietro di noi. Il rumore di passi si faceva sempre più vicino. «Che facciamo?»
«Preghiamo?» suggerì Ethan.
Uno stridio metallico fece sobbalzare tutti e due. Adesso la porta era spalancata, la serratura recisa di netto. Keegan aveva ancora la mano sulla maniglia.
«Come diavolo hai fatto?» chiesi scioccata.
Lui mi fissò perplesso. «Ho spinto».
«È un gran figata, ma abbiamo altre priorità» tagliò corto Ethan, trascinandomi dentro. Keegan ci seguì all'istante.
Ci aggirammo tra le sezioni di scartoffie polverose. Essendo alti più di tre metri, i ripiani offrivano un riparo perfetto, nascosti dagli ingombranti scatoloni contenenti fascicoli e prove di indagini risalenti anche all'anteguerra probabilmente.
Rabbrividii nell'udire lo scalpiccio di una moltitudine di persone che si riversava nella stanza degli archivi, prima che potessimo raggiungere una delle finestre. Ci accucciammo, protetti dagli scaffali. Non mi azzardavo neanche a respirare.
«Keegan». Era una voce femminile, stridula e dal timbro melenso. «So che la tua memoria è compromessa, ma fai un piccolo sforzo. Io e te ci conosciamo. Siamo amici».
Mi voltai. Keegan mi guardò e scosse la testa, con il viso contratto in una smorfia pensierosa. Ethan mi sfiorò il gomito per attirare la mia attenzione e articolò un "Via" con le labbra. Tenendoci bassi, cominciammo a strisciare in punta di piedi tra gli scaffali.
Non potevo vederli, ma sentivo la loro presenza. Si erano sparpagliati e perlustravano ogni corsia, riempiendo il silenzio con il lieve fruscio delle loro falcate e con lo sbatacchiare delle armi. Erano ovunque, o così mi pareva.
«Non devi aver paura di noi, Keegan. Vogliamo solo riportarti a casa, dove sarai al sicuro» riprese la voce con fare stucchevole. «Fino a quando non sarai guarito, sei vulnerabile. I De'Ath ti faranno del male, lo capisci? Noi possiamo proteggerti».
Scorsi una sagoma scura che scivolava vicinissima a noi, furtiva come un'ombra, e ci tuffammo verso una delle finestre. Al mio fianco, Keegan iniziò a barcollare; avrei voluto aiutarlo, ma sapevo che non me lo avrebbe permesso. Nell'aria si stava espandendo un odore strano, pungente, che somigliava all'incenso. Anzi, era incenso. La mia teoria su una qualche setta satanica stava prendendo forma.
Mi ero già rassegnata al fatto che non avessimo nessuna possibilità di uscire senza essere beccati. Poi però la donna parlò di nuovo, ora rivolta alla sua squadra, e diede l'ultimo ordine che mi sarei aspettata. «Dobbiamo ritirarci». C'era una nota d'urgenza nel suo tono.
Ethan aprì con cautela la finestra e lasciò che mi arrampicassi fuori per prima, poi mi imitò e infine fu il turno di Keegan. Quest'ultimo ci rincorse lungo la stradina, ma si bloccò nel momento in cui si rese conto che ci stavamo dirigendo verso il furgone. Baciata dalla luna, la cicatrice era una linea argentea che scalfiva la sua espressione cupa. Si guardò attorno, quasi fosse in bilico tra venire con noi o andarsene per conto suo.
Tornai indietro e tentai di prenderlo per mano. Si ritrasse, guardingo. «Fidati di me» lo implorai.
«L'ultima volta che l'ho fatto, mi hanno rinchiuso».
«Mi serve il tuo aiuto, e a te serve il mio». Feci un gesto vago con la mano. «Ma se vuoi gironzolare da solo per un mondo di cui non sai niente, prego».
Keegan sospirò sconfitto e annuì. Anche se non disse una parola, il suo sguardo sembrava supplicarmi di non deluderlo.
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top