𝕮𝖆𝖕𝖎𝖙𝖔𝖑𝖔 28 (Nicholas)
"𝔑𝔬𝔫 𝔭𝔲𝔬𝔦 𝔞𝔤𝔤𝔦𝔲𝔰𝔱𝔞𝔯𝔢 𝔮𝔲𝔞𝔩𝔠𝔬𝔰𝔞
𝔠𝔥𝔢 𝔫𝔬𝔫 𝔢̀ 𝔪𝔞𝔦 𝔰𝔱𝔞𝔱𝔬 𝔠𝔬𝔪𝔭𝔩𝔢𝔱𝔬"
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«Sono in trepidante attesa, tesoro».
Picchiettavo il piede sul pavimento, tenendo i pollici agganciati alla cintura. L'eccitazione mi provocava ancora delle pulsazioni in corrispondenza del cavallo dei jeans e già sapevo che avrei avuto bisogno di un'altra sveltina per scaricarla. Prima, però, volevo capire che cosa volesse quell'angioletto rompiscatole.
Mi intrigava il modo in cui aveva giocato con me. Si nascondeva dietro un faccino innocente, ma la verità era che le piaceva avere il controllo della situazione. Avevo messo il mio corpo alla sua mercè ed era stato divertente vederla combattere tra il desiderio di avermi e l'apparente antipatia che provava nei miei confronti. Al contrario di quanto avesse affermato, anche se le cedevo le redini, il potere lo avevo comunque io.
Perché lei, a me, non interessava affatto. Mi incuriosiva, al massimo.
Arya rimase in silenzio. Era pallida come un cadavere - me ne intendevo in materia - e stava sudando. Un singulto le scosse il corpo e annunciò infine con voce stranamente acuta, portando una mano alla bocca: «Mi viene da vomitare».
«Tutto qui?» sbuffai seccato.
Lei mi ignorò e cominciò a barcollare in direzione dell'uscita d'emergenza. Sentivo il suo cuore battere all'impazzata. Quando inspirai a fondo, storsi il naso. L'aria era impregnata del suo odore, diverso da quello di qualsiasi essere umano avessi mai incontrato, più magnetico di una calamita. Eppure, mi sembrava di fiutare anche della paura.
Erano gli stessi sintomi che aveva Callum da bambino, durante i suoi attacchi di panico. Forse fu la ragione per cui mi ritrovai a seguirla lungo il corridoio, mentre la cingevo con un braccio per sorreggerla. Non la stringevo, tuttavia. Odiavo toccare le persone senza il loro permesso, o un invito esplicito... a meno che non fosse per ucciderle, certo.
Ma non sopportavo le molestie. Se non ci fosse stata così tanta gente nei paraggi, avrei sbranato il deficiente che aveva cercato di importunarla al bancone. Per fortuna mi ricordavo il suo volto, così avrei potuto rimediare in un'altra occasione.
Nutrirmi di anime era nella mia natura, gli abusi erano solo delle inutili crudeltà che si cucivano sulla pelle. Sebbene fossi un mostro al di là di ogni possibile redenzione, quello era l'unico crimine di cui non mi sarei mai macchiato.
Appena fummo sul retro del locale, Arya si liberò dalla mia presa e si gettò a testa bassa su uno dei cespugli. Prese a tossire, in preda ai conati. Mi avvicinai e le diedi una pacca leggera sulla schiena. «Forza, amore, butta fuori tutto».
«Chiudi il becco tu» boccheggiò, folgorandomi con lo sguardo. I suoi occhi verdi erano lucidi, velati di lacrime.
Sogghignai e mi stravaccai su una panchina con le ginocchia divaricate. Ispezionai i dintorni, fischiettando. Eravamo vicini al parcheggio, in una zona illuminata da uno dei lampioni posti a intervalli regolari. Il cielo era un uniforme oceano nero trapunto di frecce argentee e soffiava un vento freddo che mi pungeva la faccia.
Mi ripromisi per l'ennesima volta che, un giorno, avrei imparato da solo i nomi delle costellazioni.
Aggrottai la fronte. «Quanto ci metti, dannazione? Devi sputare anche i tuoi organi interni?»
Arya si raddrizzò, ansimante. «Puoi stare zitto un secondo, per favore?» Si tirò indietro i capelli scompigliati con un gesto stizzito, cercando di riprendere fiato. Era scossa dai tremiti. «Odio vomitare».
«Un tantino melodrammatica, no?»
«Non capisci. È una fobia».
La fissai confuso. «Fobia di che? Di vomitare?» Quando annuì, rovesciai la testa all'indietro e scoppiai in una fragorosa risata. «È la fobia più assurda che abbia mai sentito».
«Va' al diavolo» borbottò, scuotendo il capo. La chioma corvina le oscillò in un'onda sinuosa.
Ridacchiai. «Avresti dovuto accettare quel bloody mary. Ti avrebbe fatto meno male».
«Non posso bere. E ho la nausea, perché...» Esitò un istante, poi concluse in un soffio: «Perché sono incinta».
Emisi un distratto mugolio d'assenso. Non ero neanche del tutto sicuro sul significato del termine "incinta". «Complimenti. O condoglianze». Scrollai le spalle. «Non capisco mai quando usare uno o l'altro».
Arya sgranò gli occhi. Rimase a osservarmi per una manciata di secondi, come in attesa di una mia reazione, poi esplose. «Ma sei serio? Io e te facciamo sesso da ubriachi, cinque settimane dopo ti vengo a dire di aspettare un bambino... quale pensi sia stato il tuo ruolo, genio?»
Le mie labbra si curvarono all'insù. «Ah, ma certo. Pensi che il semino sia il mio». Presi a sghignazzare, sollevandomi dalla panchina. «Bel tentativo, tesoro. Ma sono sterile».
Lei sussultò, quasi avesse appena ricevuto una mazzata nello stomaco. «Beh, dubito che sia stato lo Spirito Santo. Deve essere per forza tuo».
«Altamente improbabile. Invece, è molto più plausibile che te la sei spassata anche con qualcun altro e lo hai dimenticato».
«Aspetta, aspetta». Arya accorciò la distanza tra di noi, i pugni piantati sui fianchi. «Non puoi avere figli o le probabilità che tu ne abbia sono basse?»
Sospirai annoiato. «Infinitesimali, direi. Che differenza fa?»
«Al momento, per te, diciotto anni di alimenti da pagare».
«Questa conversazione mi ha stancato. Quella cosa non è mia, e se anche lo fosse non mi interessa». Abbozzai un sorrisetto. «Ora scusami, angioletto, ma mi hai lasciato con una gran voglia di scopare».
Lei rimase a bocca aperta, incapace di ribattere. Prima che mi potessi voltare, però, mi afferrò la manica per bloccarmi e mi tirò con irruenza. «Cosa credi di fare? Guarda che questo problema è tanto mio quanto tuo».
«Non sono d'accordo. È nella tua pancia, ergo è un tuo problema» replicai acido, liberandomi con uno strattone. «Ma se vuoi dei soldi, chiedili pure a mio fratello. Gestisce lui la contabilità».
Mi girai e rientrai dentro il night club. Giunto a metà del corridoio, udii dei passi frettolosi che mi rincorrevano e la voce furiosa di Arya mi richiamò: «Nicholas!»
Ebbi a malapena il tempo di fermarmi che uno schiaffo mi si impresse in faccia. Nonostante i miei riflessi, il gesto mi colse così alla sprovvista che non riuscii a fermarla. La guancia mi si scaldò. Non era abbastanza forte da farmi male, ma l'istinto da predatore mi fece comunque scattare in un riflesso automatico. Non avrei potuto evitarlo neanche volendo.
Le intercettai la mano a mezz'aria e la spinsi contro il muro, lasciandomi sfuggire un ringhio sommesso. «Questa volta ti perdono, angioletto» sibilai, a pochi centimetri dal suo volto. «Ma riprova a colpirmi e risolverò il nostro problema a modo mio».
Un guizzo di paura le balenò nello sguardo, ma non lo abbassò. Quando sciolsi la presa, mi diede uno spintone per farmi arretrare e prese a massaggiarsi il polso, dove erano comparsi i segni rossi delle mie dita. «Sai che c'è? Vai pure a scopare, ma ti do un consiglio: metti un preservativo, psicopatico arrapato del cazzo!» mi gridò addosso, per poi superarmi con una spallata.
Rimasi immobile per un attimo, mentre cercavo di regolarizzare il respiro. Non riuscivo a smettere di fremere dalla rabbia. La sentivo investirmi a ondate e più lottavo per riemergere, più mi sembrava di sprofondare.
Una presenza si materializzò al mio fianco e riecheggiò una risata sprezzante. «L'hai proprio combinata grossa stavolta, Zero» commentò Lucius beffardo. «Saresti un padre peggiore di me».
Sospirai. «A me non frega un accidenti».
«Sono frutto della tua mente, Zero. Non puoi ingannarmi».
«Tappati quella fogna».
Tornai spedito sulla pista da ballo e cominciai a perlustrare la sala, finché non individuai Seth seduto al bar. Era ben riconoscibile, grazie alla camicia satinata gialla.
Fu come essere avvolto da una bolla d'ossigeno: continuavo a scivolare negli abissi, ma non annegavo. Non se c'era lui a cui tenermi aggrappato.
Mi incamminai nella sua direzione, facendomi largo tra la folla. Appoggiai le mani al bordo del bancone, passandogli le braccia attorno al corpo, e mi sporsi sopra la sua spalla. «Non esagerare. Sappiamo che non reggi bene l'alcol».
Seth rabbrividì in maniera quasi impercettibile, ma si limitò a sorseggiare il suo cocktail. «Bevo quanto mi pare» bofonchiò imbronciato.
Decisi di ignorare il suo tono scontroso, forse gli era andata male con il gioco d'azzardo. Di solito ero bravo a fargli tornare il sorriso. Infilai il naso tra i suoi ricci mori, aspirai il suo profumo e scesi a baciargli il collo. O quantomeno ci provai, perché Seth si scansò e mi respinse con una gomitata.
Disorientato, mi ritrassi e presi posto sullo sgabello vicino. «Che cosa ho fatto di sbagliato adesso?»
«Se non lo sai tu».
«Non è la serata adatta per farmi gli indovinelli, Seth».
Lui vuotò il suo drink e sbatté il bicchiere sul bancone come se volesse spaccarlo. I suoi lineamenti erano contratti e le labbra arricciate, il che lo faceva apparire paradossalmente ancora più tenero. Era difficile prenderlo sul serio. «Qual era l'emergenza con Arya? È riuscita a parlartene tra un gemito e l'altro?»
Increspai le sopracciglia. «Non abbiamo fatto sesso». Controllai l'ora sul telefono. «Non siamo stati via neanche venti minuti. Mi offende che tu possa pensare che duro così poco».
Seth fece un cenno al barman, senza degnarmi di un'occhiata. «Potresti avere almeno la decenza di non mentire».
«Non sto mentendo!» protestai indignato. Iniziavo davvero a innervosirmi. «Anche se l'avrei preferito, piuttosto che sorbirmi le sue stupidaggini. Ha blaterato di una ridicola fobia del vomito e di aspettare un bimbo miracoloso da me...»
Non avevo ancora terminato la frase che Seth sputò lo shottino, il liquido che gli colava sul mento e sulla camicia. «Arya è incinta? L'hai messa incinta?» strillò, guardandomi con gli occhi fuori dalle orbite.
«Dovresti focalizzarti sulla parte in cui dico che non abbiamo fatto niente».
Seth si alzò con tale veemenza da ribaltare lo sgabello. «Rispondi alla mia stramaledetta domanda!»
Esitai, stranito da quella reazione esagerata. «Boh, sì, è possibile. Non saprei. Il suo odore è... strano». Feci spallucce. «E allora? È solo un mucchietto di cellule che ha il mio DNA, o roba del genere. Che importa?»
«Fanculo, Nik! Vai a fanculo!»
«No, dai». Balzai in piedi e lo cinsi per i fianchi, attirandolo a me con disperazione. Il blu zaffiro delle mie iridi si incatenò al nero lucido delle sue. «Perché fai così? Hai scelto tu di essere solo amici, di togliere il sesso dal nostro rapporto...»
Seth proruppe in una risata aspra, priva di gioia. Sembrava un singhiozzo. «Certo, ovvio! Perché per te c'è solo il sesso, no? I sentimenti non contano un cazzo, vero?»
«Che?» chiesi interdetto.
«Non avrei dovuto seguirti a Notturn Hall. L'unica cosa che ti interessa è scopare e quello puoi farlo con chiunque. È inutile aspettarti». Seth tentò di spingermi via, ma non riuscì a smuovermi di un millimetro. «Non proverai mai nulla, non sai provare nulla».
Lo lasciai andare. «Aspetta, ti prego, io non...» sussurrai implorante, ma Seth aveva già pagato il conto e se ne stava andando. Rimasi imbambolato a fissarlo fino a perderlo nella confusione, con quello stupido organo difettoso che mi si contorceva nella gabbia toracica. «Non voglio stare da solo».
Non sai provare nulla.
A partire dalla mia nascita, avevo sperimentato il dolore in tutte le sue forme. Ero stato imprigionato, violentato, dissezionato, trattato alla stregua di un animale e torturato in ogni modo possibile. Alla fine, mi ero convinto di essere diventato invulnerabile a qualsiasi cosa.
Invece quelle parole erano riuscite a farmi male, a ferirmi nella maniera più profonda in cui si possa ferire qualcuno.
Mi sporsi oltre il bancone e strappai una bottiglia di mano al barman. Nonostante fosse quasi piena, ne tracannai il contenuto in pochi lunghi sorsi. La scia infuocata dello scotch mi bruciava la gola, stordendomi. La scagliai a terra in un'esplosione di frammenti. «Un'altra. Della cosa più forte che hai» farfugliai.
L'uomo dietro al bancone fece una smorfia. «Non credo che...»
Lo agguantai per la giacca. «Dammela, o giuro che ti ammazzo» sibilai, e gli ficcai una banconota da cento dollari nel taschino. Lo mollai. «Molto gentile».
Presi la bottiglia e mi allontanai barcollando verso l'entrata d'accesso all'ala riservata del Coin. Avvertivo gli sguardi della gente puntati su di me; non mi dava fastidio, adoravo essere al centro dell'attenzione. L'addetto alla sicurezza si accinse a sbarrarmi la strada, ma notò il ciondolo sul mio petto e si fece da parte.
La sala sul retro era speculare alla discoteca in ogni dettaglio, fatta eccezione per il ring che sostituiva la pista da ballo. Ah, e per la clientela: era frequentata esclusivamente dalla feccia dell'umanità. Criminali ricconi che nascondevano i loro affari sporchi e vizi immorali dietro il denaro. In un certo senso, lì ero tra i miei simili.
Continuando a bere, presi a salire le scale. Mancai un gradino e dovetti tenermi stretto al corrimano per non cadere. Rosalie era appoggiata alla balaustra, intenta a godersi lo scontro che si stava consumando nell'Arena, anche se era evidente che si fosse accorta del mio arrivo. Doveva aver ordinato alle sue guardie del corpo di non intervenire, cosicché si limitarono a rivolgermi occhiate cariche di ribrezzo.
«Sei ridotto male» esordì lei, facendo una smorfia. Indossava un abito scuro attillato che le metteva in risalto il seno e le lunghe gambe erano coperte dai collant. «Che c'è, hai litigato con il tuo fidanzato?»
Mi abbandonai sul divanetto. Buttai la bottiglia vuota, mi allungai per afferrare la fiaschetta sul tavolino e iniziai a ingollare anche quella. Whiskey. «Ho bisogno di scopare. Ti va?» le ammiccai. «Sarebbe una nuova esperienza».
«Passo. Non sei il De'Ath che voglio».
Ridacchiai di gusto. «Il mio fratellone non è una preda facile. Non avrai tanto presto ciò che vuoi».
«Neanche tu, a giudicare dall'assenza del ladruncolo». Prima ancora che aprissi la bocca, aggiunse con un gesto noncurante: «Truffatore, lo so. Lo faccio apposta».
«Voglio combattere nell'Arena, come ai vecchi tempi». Quando mi alzai, la testa mi vorticò e per un attimo tante chiazze sbadite invasero il mio campo visivo. «Sguinzagliami contro tutti gli idioti così stupidi da volermi affrontare. Insieme. Se riescono a stendermi, darò un milione di dollari a ciascuno di quelli ancora in vita».
Rosalie mi scrutò corrucciata. «Sei completamente impazzito? Non approvo spargimenti di sangue nel mio locale, dovresti saperlo».
«Divertente. Tuo padre ha passato settimane a farmi bastonare per costringermi a entrare in quell'Arena».
«Io non sono mio padre» esclamò gelida.
«Non ti stavo chiedendo il permesso». Sfoderai un sorriso. «In alternativa, posso sempre fare un massacro».
Durante l'attesa, ne approfittai per scolarmi alcuni Sazerac. Ormai scivolava come acqua, non ne sentivo più nemmeno il sapore. Nel momento in cui mi trascinai nell'enorme gabbia, uno scroscio di grida e fischi mi accolse.
La maggior parte di quelle persone mi aveva già visto in azione, sebbene all'epoca ero un ragazzino tremante tenuto al collare. Non sapevano che cosa fossi, né se lo chiedevano. Per loro ero solo il campione imbattuto di Ronald Bailey, la sua belva addomesticata che faceva a pezzi gli avversari.
Non mi preoccupava il pensiero di attirare l'attenzione dell'Olympus. La mia famiglia stava per lasciare Notturn Hall, anzi a quest'ora era probabilmente già partita. Ed era un rischio remoto, comunque. Ero stato prigioniero in quel tugurio per mesi e non lo avevano mai scoperto. Se Seth non mi avesse liberato, avrei passato il resto della mia esistenza in cattività.
Magari sarebbe stato meglio per tutti.
Furono sei uomini a salire sul ring per affrontarmi. Quattro erano imponenti come armadi, con i muscoli così gonfi che sembravano degli orangotanghi, mentre i restanti due erano più smilzi ma slanciati. Erano a torso nudo e chiaramente dopati.
«La bestia è tornata» sogghignò uno di loro, coperto di tatuaggi.
I primi colpi mi investirono da tutte le direzioni, uno dopo l'altro. Non riuscii a reagire. Avevo la vista annebbiata e il mondo continuava a vorticare attorno a me, popolato da ombre e sagome sfocate. I miei movimenti erano scoordinati, rallentati dall'alcol. Il dolore si impadronì del mio corpo, una sensazione piacevole e famigliare che mi fece sentire più vivo che mai.
Ero una cavia, un mostro. I miei fratelli erano stati adottati, io invece ero nato in provetta. La sofferenza non era solo ciò che meritavo, ma l'unica cosa che avrei dovuto conoscere dall'istante in cui ero venuto alla luce. Nessuno poteva voler bene a un topo da laboratorio, dopotutto.
Mi bloccarono le braccia dietro la schiena, tenendomi fermo, poi ripresero ad attaccarmi. Un pugno mi arrivò in faccia, uno allo stomaco, un altro agli stinchi, un altro ancora mi incrinò una costola. Un manrovescio mi spaccò il labbro, seguito dall'ennesimo pugno che mi fece scattare il capo dall'altra parte. Venni scaraventato sul pavimento e cominciarono a prendermi a calci.
"Perché sono incinta"
"Saresti un padre peggiore di me"
"Non sai provare nulla"
"Adorerai giocare con me, Zero"
Cacciai un urlo furioso. Afferrai una caviglia e tirai, facendo ruzzolare giù l'omone con i tatuaggi. Gli sventrai la pancia come se fosse un pupazzo, ma al posto del cotone ne fuoriuscirono le sue viscere. Balzai addosso al secondo e gli squarciai la gola, strappandogli la carne con un morso. Il sapore metallico mi inebriò.
Mentre masticavo, agguantai la testa di un altro con entrambe le mani e strinsi fino a frantumargli il cranio. Un boato di applausi si levò dal pubblico, mentre le cervella sanguinanti si spargevano ovunque.
Qualcosa di pesante mi si abbatté sulla schiena. Da sobrio lo avrei schivato senza problemi, ma in quello stato a malapena mi accorsi che uno degli avversari mi stava caricando alle spalle. Mi atterrò con il suo peso e cominciò a sbattermi ripetutamente la fronte a terra, tenendomi per i capelli.
Per un attimo rimasi paralizzato, assalito dagli incubi. Era a cavalcioni sulla mia schiena, esattamente come si metteva Lucius.
Poi mi riscossi. Me lo scrollai da sopra e ribaltai le posizioni, avventandomi su di lui. I miei denti gli dilaniarono la carotide, mentre gli artigli scavavano nel suo petto in cerca del cuore. Alla fine lo trovai e ne divorai un boccone, suscitando negli spettatori un misto di raccapriccio e di entusiasmo.
D'altronde, erano anni che Rosalie li teneva in astinenza dal sangue e dalla violenza. Le emozioni date dagli incontri di boxe non erano paragonabili a quelle di una lotta per la sopravvivenza.
Mi raddrizzai, il volto e i vestiti grondanti di sangue. I miei occhi saettarono per tutto il ring, ma scoprii che ne era rimasto solo uno. L'altro doveva aver approfittato della mia distrazione per darsela a gambe.
L'uomo sollevò le braccia in segno di resa. «H-hai vinto» balbettò, troppo spaventato per scappare. «Non c'è bisogno di...»
Ricoprii la distanza che ci separava con un salto e gli lacerai la giugulare. La sua voce si spense in un rantolo strozzato, il corpo che si afflosciava esanime ai miei piedi. L'eccitazione mi pulsava nelle vene, ferina e brutale.
Seth aveva ragione: non ero in grado di provare nulla. Solo quell'odio cieco mi apparteneva.
Lucius apparve di fronte a me, con il solito ghigno stampato sulle labbra. «Guardati, Zero. Guarda l'abominio che sei. Cosa mai potrà generare un essere disgustoso come te?»
Scossi la testa per scacciarlo. Eppure, le sue parole non cessarono di rimbombare nella mia mente. Allargai le braccia, oscillando per mantenere l'equilibrio. «Avanti il prossimo».
Una figura entrò nell'Arena. Dovetti strizzare le palpebre per mettere a fuoco l'immagine di Callum. Camminava verso di me, la postura ritta e i muscoli delle spalle in tensione. Apriva e chiudeva le dita della mano destra, tenendo però lo sguardo incollato su di me.
«È ora di tornare a casa, Nicholas. Stai esagerando. Nostra sorella è preoccupata».
«Che bimbo cattivo che sono». Mi girai verso Rosalie. Era affacciata sul balcone, dietro alla balaustra, nello stesso punto in cui suo padre la obbligava a stare anni prima. Allora provava compassione per me, adesso era solo schifata. «Dammi qualcuno che posso uccidere» le gridai.
Callum arrotolò una manica della camicia fino ai gomiti, poi l'altra. I suoi gesti erano spasmodici, nervosi; percepivo lo sforzo che stava facendo per non perdere il controllo in mezzo a quel caos. «Perché? Hai paura che possa batterti?»
Gli rivolsi un sorrisetto insanguinato. «Sappiamo entrambi chi vincerebbe tra noi due».
«Con te in questo stato, ci sono pochi dubbi. Ma non voglio farti male, quindi andiamocene».
Gli sferrai un pugno in faccia. Con un movimento fluido, lui si abbassò e mi passò sotto il gomito. Pur essendo in una posizione di vantaggio, non tentò di fare nessuna mossa. «D'accordo» sospirò rassegnato. «Se proprio vuoi sfogarti, meglio che tu lo faccia su chi può guarire».
Mi avvicinai a passi malfermi e lo colpii con tutta la forza che riuscii ad accumulare. Stavolta Callum non si scansò. L'osso della mandibola si spaccò all'impatto con le mie nocche, mandandolo a carponi.
Non ebbe il tempo di rialzarsi che gli diedi una ginocchiata così violenta da scaraventarlo contro le sbarre della gabbia, che si piegarono appena. Delle esclamazioni elettrizzate riempirono l'aria e scorsi con la coda dell'occhio Rosalie che trasaliva.
Callum si mise in ginocchio e sputò un grumo rossastro, strusciando il dorso della mano sulla bocca per pulirsi. Quando avanzai verso di lui, il suo corpo si irrigidì come per prepararsi al prossimo colpo, ma di nuovo non accennò a volersi difendere.
«Non ci stai nemmeno provando» sbuffai.
«Te l'ho detto, non ti faccio del male. Non te ne farò mai».
Trattenni una risata e allungai il braccio. Callum esitò per un istante, poi lasciò che lo aiutassi a rimettersi in piedi. Lo fissai in viso, chiedendomi che diavolo avessi mai fatto per meritarlo.
Mio fratello. Il mio eterno guardiano. Se ero sopravvissuto alla nostra infanzia, era soprattutto merito suo.
Avrei voluto sapergli dimostrare quanto gli volevo bene, avrei voluto stringerlo e ringraziarlo per l'incrollabile fiducia che riponeva in me. Era strano, perché di solito odiavo gli abbracci. Ma in quel momento ne avrei tanto desiderato uno, anche se non avevo il diritto di riceverlo. Non dopo quello che gli avevo fatto.
«Okay, vi siete divertiti abbastanza» intervenne Rosalie, salendo sul ring. Mi lanciò un'occhiata di disprezzo, poi si rivolse a Callum. «Io mi occupo dei cadaveri. Tu porta via il tuo cane rognoso».
La rabbia tornò a montare dentro di me. «Come mi hai chiamato?» E feci per scattare verso di lei.
Callum fu più rapido di me. Mi circondò la gola con un braccio e mi tenne stretto, mozzandomi il respiro. Le mie cicatrici presero a bruciare al contatto. Cercai di dibattermi per liberarmi, ma invano.
«Perdonami, fratellino» bisbigliò al mio orecchio, prima di spezzarmi il collo.
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Angolo Jedi
Scusate, mi fa ridere Callum che non vuole fare del male al fratello, ma poi gli spezza il collo (ovviamente non è fatale per i De'Ath, eh💃🏻).
Questa è una delle famose "crisi" di Nicholas. So che al momento lo state odiando, e non ha ancora toccato il fondo come sapete dal prologo. Ma giuro che il suo personaggio è più complesso di quanto appare. In certi punti, potrebbe persino piacervi.
Abbiate pazienza.
Grazie per leggermi.
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