𝕮𝖆𝖕𝖎𝖙𝖔𝖑𝖔 22 (Callum)
"𝔄 𝔠𝔥𝔦 𝔰𝔬𝔣𝔣𝔯𝔢 𝔦𝔫 𝔰𝔦𝔩𝔢𝔫𝔷𝔦𝔬 𝔢
𝔪𝔲𝔬𝔯𝔢 𝔤𝔦𝔬𝔯𝔫𝔬 𝔡𝔬𝔭𝔬 𝔤𝔦𝔬𝔯𝔫𝔬"
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Kath attese che i nostri fratelli fossero usciti per venire a rimproverarmi. All'inizio mi limitai a ignorarla, limitandomi a sfogliare dei vecchi documenti di mia madre, ma a poco a poco la sensazione del suo sguardo accigliato premuto su di me divenne opprimente.
Sollevai la testa. Lei era lì, impettita di fronte alla porta, i pugni chiusi puntellati sui fianchi. Inarcai un sopracciglio. «Sì?»
«Ne vuoi parlare?» A giudicare dal suo tono, sembrava più una minaccia che una domanda.
«Non ti seguo».
Mia sorella si avvicinò, fermandosi dall'altra parte della scrivania. Adesso la sua espressione aveva iniziato a sciogliersi. «Sono preoccupata per te. Ultimamente non ti riconosco, ho l'impressione che non ti importi più di niente...»
«Scusa?» Aggrottai la fronte. Di tutte le cose di cui potevo essere accusato, l'egoismo era la sola che non mi sarei mai aspettato. «Passo giorno e notte a cercare di tenere al sicuro la nostra famiglia. Non è abbastanza? Che altro devo fare?»
«Non mi riferivo a questo». Kath spostò il peso da una gamba all'altra. Era ovvio che stesse tentando di trovare le parole giuste per essere sincera, senza ferirmi. «Il problema è il modo in cui lo fai. Sei distante, freddo, persino con noi. Lucius è un argomento delicato per Nik e tu prima glielo hai letteralmente sbattuto in faccia».
«Aggiungerò "mancanza di tatto" alla mia lista di difetti» replicai con una nota indignata. «Ma Nicholas era già giunto alla mia stessa conclusione su chi potesse esserci dietro lo pseudonimo di Uranus, te l'assicuro».
«E Keegan? Il Callum che conoscevo non avrebbe violato la mente di un ragazzino in coma, rischiando di procurargli danni permanenti. Sai che Nik odia usare i suoi poteri telepatici, che spesso sta male per giorni, ma glielo hai fatto fare comunque»
Rimasi in silenzio per un attimo, la bocca dischiusa dallo stupore. «Non l'ho costretto, non potrei neanche volendo. Quando il nostro fratellino non vuole fare qualcosa, si rifiuta e basta».
«Oh, per favore!» Lei piegò il capo di lato, facendo oscillare il ciuffo di capelli ramati. «Può anche fare lo sbruffone, ma Nik farebbe qualsiasi cosa se sei tu a chiederlo».
Mi lasciai sfuggire un verso sarcastico. «Mi confondi con Septimus» sbuffai in un sussurro.
Tornai a esaminare i fogli stropicciati tra le mie mani e rimasi interdetto. Mi raddrizzai di scatto sulla sedia, studiando ogni riga con attenzione. Era riportato dell'acquisto di un ranch in campagna, avvenuto decenni prima, sotto uno dei falsi nomi a cui ricorreva spesso mia madre. Non ne ricordavo l'esistenza. Forse era una copertura per un'altra delle strutture dell'Olympus, ma di sicuro non ci avevano mai portati lì.
«Sei geloso» commentò Kath all'improvviso, come se avesse avuto una grande rivelazione.
Presi a massaggiarmi le tempie con un profondo sospiro a metà tra la rassegnazione e il fastidio. «Ridicolo».
«Sei geloso. Ecco perché lo odi».
«Ancora con questa storia? Io non lo odio».
Mia sorella si chinò davanti a me, quasi fossi un bambino, e mi posò i palmi sulle spalle. Il contatto mi fece subito irrigidire. «Ascoltami. Il rapporto di Nik con Seth è di natura molto diversa da quello che ha con te, ma non significa che ti voglia meno bene ora che c'è lui».
«Okay, basta. Questa conversazione sta diventando assurda». La scansai con gentilezza e mi alzai. Lo sguardo mi cadde fuori dalla finestra. Il cielo si era tinto di un nero inchiostro e aveva cominciato a piovere piuttosto forte. «Vado ad allenarmi».
«Sei ancora il suo fratello preferito» mi gridò dietro Kath divertita, mentre mi indirizzavo verso la porta.
«E smettila!»
La sentii ridacchiare anche quando mi allontanai lungo il corridoio.
La palestra del castello non era una normale palestra. L'attrezzatura era stata creata su misura per noi e adattata alle nostre speciali abilità. Nostra madre l'aveva progettata per permetterci di sfogarci durante le pause estive, quando ogni tanto -se eravamo fortunati- interrompevano gli esperimenti e ci portavano via dal laboratorio.
Era stata un'idea di Lucius, l'unico che non ci trattava come delle cavie prive di sentimenti da smontare pezzo dopo pezzo. No, sapeva fin troppo bene che eravamo dei bambini. Da lui avevo imparato a non fidarmi della gentilezza.
Appesi la giacca, mi sfilai la camicia e la ripiegai accuratamente su una panca. Sotto indossavo una canotta bianca. Cercavo sempre di mettermi più strati che potevo addosso, in modo che ci fosse la maggior quantità possibile di tessuto a separarmi dalla pelle di chiunque mi sfiorasse. E soprattutto non volevo rischiare di vederle, le orribili cicatrici sul mio corpo. Le detestavo.
Mi avvicinai a un sacco da boxe e iniziai a tempestarlo di pugni. Anche se potevo lasciarmi andare senza fare troppi danni, dovevo comunque stare attento; tutto era calibrato per resistere a dei bambini e la mia forza era aumentata parecchio negli ultimi sei anni.
Nella mente continuavano a riecheggiarmi le parole di Kath. Ero riuscito a nasconderlo, ma mi avevano fatto davvero male. Perché notavano sempre e solo i miei errori, e non si accorgevano che stavo dando qualsiasi cosa per proteggerli? Per quale motivo ciò che facevo non era mai abbastanza?
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«Allora, Soggetto Uno?» mi incalzò mia madre in tono distaccato, facendomi tremare. «Sai o no chi è stato a fare quel disastro nella sala comune?»
Abbassai ancora di più il capo, le mani sudate intrecciate dietro la schiena e la schiena ritta. Il cuore mi batteva all'impazzata. Quell'ufficio mi terrorizzava, avrei soltanto voluto scappare e tornare dai miei fratelli.
Sospirai. «Sì, signora».
Non ero nemmeno presente in realtà, ma non mi era difficile indovinare chi potesse aver impiastricciato le pareti con dei pennarelli. Quattro aveva una vera e propria ossessione per i colori, da quando gli era capitato di vedere un arcobaleno in cielo.
«E hai intenzione di dirmelo?»
Trovai il coraggio di incrociare il suo sguardo per un istante. Aveva gli stessi occhi blu di Zero, ma i suoi erano cattivi e mi facevano paura. Deglutii, preparandomi a quello che mi aspettava. «No, signora».
Mia madre mi fissò con una maschera gelida, poi le sue labbra sottili si incurvarono appena. Inclinò la testa di lato e la crocchia in cui erano imprigionati i suoi capelli biondi si mosse appena. «Prima o poi, ti stancherai di prendere le punizioni al posto loro».
Mi osservai la punta delle scarpe, ammutolito. Le gambe minacciavano di cedermi e un nodo mi sigillava la gola, ma non avrei permesso che facessero del male a uno dei miei fratelli se potevo evitarlo. Di me non mi importava. Potevo sopportare di tutto finché ero sicuro che loro stessero bene.
Mio padre proruppe in una risata raschiante. Era in piedi accanto alla scrivania e giocherellava con la frusta arrotolata attorno al polso. Nonostante i frammenti affilati, non si faceva mai neppure un graffio. «Il marmocchio ci ha preso gusto».
«D'accordo allora». Vivianne gli fece un cenno per autorizzarlo. «Una per ciascuno dei suoi amati fratelli, direi. E una settimana in isolamento».
Un verso strozzato mi scaturì dalla bocca e dovetti mordermi la lingua per indurmi a tacere. Non ero mai stato così tanto nei sotterranei da solo. A Zero succedeva spesso di essere rinchiuso per lunghi periodi, a causa delle sue crisi, e diceva che dopo un po' il silenzio sembrava conficcartisi nei timpani, quasi gridando. Non c'era sensazione peggiore, mi ripeteva.
Mio padre sbuffò e mi spinse con veemenza fuori dall'ufficio. Barcollai per qualche passo, prima di recuperare l'equilibrio, ma lui mi stava già strattonando per la maglietta. Al nostro passaggio le guardie che si aggiravano per il castello ci adocchiarono, indifferenti.
Ci fermammo in fondo a un corridoio, di fronte all'enorme dipinto con una sagoma avvolta da un mantello che impugnava un'arma inquietante. August esercitò una lieve pressione con la mano in un punto ben preciso e il pannello si spalancò, rivelando dei contorti gradini pieni di crepe illuminati dal chiarore soffuso delle torce. Mi afferrò per la spalla e mi trascinò giù per le scale di peso.
Giunti nella mia cella, mi diede un calcio per costringermi a mettermi in ginocchio, il viso rivolto verso il muro. Intanto che mi legava i polsi con le catene assicurate al robusto anello nel pavimento, ringhiò la frase di rito: «Non un suono».
Annuii e mi sollevai il retro della t-shirt per esporgli la pelle nuda. Serrai la mascella, ignorando le gocce calde che mi rigavano le guance. Preferivo pensare che fosse sudore, anziché lacrime.
La vampata di dolore mi assalì all'improvviso. La frusta mi lacerò la carne con un sibilo e il sangue zampillò ovunque. Sussultai, trattenendo a stento un gemito, e mi sforzai di non pensare alla mia schiena in fiamme.
Mi concentrai invece sui latrati dei cani che sorvegliavano il giardino, sul ronzio degli insetti che svolazzavano tra la polvere, sull'odore di stantio che permeava l'aria umida...
Quando arrivò la seconda frustata, stavo trattenendo il fiato senza rendermene conto. Espirai bruscamente dalle narici e socchiusi le palpebre, cercando di visualizzare i volti dei miei fratelli per ogni colpo che ricevevo. Al terzo schiocco digrignai i denti in un ringhio. Al quarto conficcai gli artigli nella pietra. Al quinto crollai a carponi, boccheggiante.
«Tirati su» ordinò mio padre seccato.
Malgrado mi bruciassero tutti i muscoli del corpo, obbedii e tornai nella posizione di prima. La frusta riprese ad accanirsi di me, squarciandomi la schiena fino alle ossa. Potevo sentirla farmi a brandelli, così come percepivo i miei poteri prosciugarmi le energie nel tentativo di rimarginare le ferite.
Alla fine ero esausto e, all'ultima sferzata, mi abbandonai a un debole lamento. Avevo provato a reprimerlo, mordendomi a sangue il labbro, ma a lui non sfuggiva mai niente.
«Cosa ti avevo detto, Soggetto Uno? Neanche-un-suono». August scosse la frusta con un'espressione di sadico piacere, pronto a colpirmi di nuovo.
«Ora basta».
Una figura maschile entrò nella cella. Mi scoccò un'occhiata carica di compassione, poi si spostò davanti a me per farmi da scudo. Fronteggiò lo sguardo torvo di mio padre e, nonostante quest'ultimo lo superasse di stazza, sembrava incombere su di lui con un'aura autoritaria.
Era bizzarro vederli vicini, due esatti opposti: August era biondo, con gli occhi azzurri e la carnagione lattea; l'altro moro, con il fisico bronzeo e le iridi scure. Anche i loro caratteri erano completamente diversi, almeno all'apparenza, ma io avevo imparato che l'unica differenza tra di loro era che uno era più bravo a mentire.
«Lucius». Pronunciò il suo nome con disprezzo. «Sempre dalla parte delle nostre piccole cavie tu, vero?»
Lucius incrociò le braccia sul petto, accigliato. «Lo hai punito a sufficienza. Deve riposare».
Con un cipiglio infuriato, mio padre lo agguantò per il colletto e gli fece penzolare la frusta a pochi centimetri dalla faccia. Lucius rimase immobile come una statua. «Stai attento, bastardo. Uno di questi giorni, potrei anche decidere di usarla su di te».
«Fai pure, se vuoi divorziare».
Lui si irrigidì. «Tu sei solo un trovatello del cazzo. Io sono della sua famiglia, suo marito. È ovvio chi sceglierebbe».
Lucius abbozzò un sorrisetto sardonico, ma non disse nulla. August fremette di rabbia, gli sputò ai piedi e se ne andò sbattendo la porta.
Solo allora scivolai a terra e mi rannicchiai su me stesso, esausto. Ogni movimento era pura agonia e avevo l'impressione di avere tutta la schiena ustionata. Non osavo neanche guardare in che condizioni fosse.
«Tranquillo, Uno». Lucius si chinò su di me e mi liberò dalle manette. I polsi erano scorticati e gonfi. Sobbalzai quando mi prese in braccio con cautela. «Mi prendo cura io di te, adesso».
Rabbrividii. «G-guariranno da sole. Non serve» balbettai sofferente.
«Lo so. Ma medicate faranno meno male e resteranno meno cicatrici».
Con un sorriso dolce, Lucius mi depositò delicatamente sul letto e mi tolse la maglietta zuppa di sangue. Rabbrividii, e non per il freddo. Dato che ero troppo debole per stare seduto diritto, mi ritrovai ad appoggiarmi contro la sua spalla, intrappolato nella sua presa.
Lucius estrasse dalla tasca un tubetto di disinfettante, lo versò su delle garze e prese a ripulirmi i profondi tagli sulla mia schiena. Feci una smorfia e lo udii ridacchiare. «Scusa. Brucia un po'».
Odiavo la sua gentilezza. Odiavo che non fosse reale. Odiavo che continuavo a illudermi che potesse esserlo.
La sua mano libera cominciò ad accarezzarmi lungo il costato e si posò sul mio fianco. Accorgendosi che tremavo come una foglia, mi diede un bacio rassicurante sulla nuca e prese a cullarmi con fare protettivo. Un singhiozzo mi scosse e lui mi attirò a sé con maggior fermezza. Volevo solo che smettesse di toccarmi. Volevo che il dolore finisse.
«Stai diventando un bellissimo ometto, sai?» mi bisbigliò, strusciando il naso tra i miei capelli.
Quando le sue dita si insinuarono sotto i miei pantaloni, lo stomaco mi si contrasse in uno spasmo. Strinsi le ginocchia d'istinto, ma poi Lucius mi sussurrò all'orecchio: «Se non gioco con te, Uno, gioco con uno dei tuoi fratelli». Fece una breve pausa in cui avvertii il calore del suo respiro sul collo. «E tu sai chi è il mio preferito».
Pensai a Zero, al mio fratellino speciale che dovevo difendere persino più degli altri. E, con la vista annebbiata, allargai docile le gambe.
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Il tonfo del sacco da boxe mi riportò nel presente. Lo avevo scaraventato a una decina di metri di distanza, nonostante avessi fatto del mio meglio per contenermi. Ma non ero ancora soddisfatto. Mi girai e con la mano sinistra colpii con forza il muro. Poi lo feci ancora e ancora, senza sosta.
Sentivo le ossa che si rompevano, le nocche frantumate e dei crampi atroci che si riverberavano per tutto il braccio. Non me ne preoccupai, sarei comunque guarito entro un paio d'ore. Avevo bisogno di sfogarmi, di provare un dolore fisico che mi facesse dimenticare l'altro, quello che nemmeno i miei poteri sarebbero mai riusciti a risanare.
Perché se il corpo si rigenerava, un'anima spezzata era condannata a rimanere tale. Ammesso che noi mostri ne avessimo una, certo.
Alla fine mi lasciai scivolare sul pavimento, grondante di sudore. Fissai il solco che avevo scavato nel duro marmo e poi la mia mano sfracellata, ridotta a un deforme ammasso sanguinolento.
Storsi il naso, presi il flacone dai pantaloni e mi ficcai in bocca una pastiglia. La ingoiai e rovesciai il capo all'indietro, esalando un sospiro. Quanto avrei voluto potermi strappare la pelle di dosso, magari così mi sarei finalmente liberato anche del male di cui portavo ancora i segni. Non tutti visibili.
Il mio telefono vibrò. Per un secondo sperai che fossero i miei fratelli, magari per aggiornarmi su dove fossero andati e non perché si erano cacciati nell'ennesimo casino.
Appena lessi il nome del mittente però, feci uno sbuffo. Non avrei dovuto darle il mio numero.
"Hai un debito, pezzo di ghiaccio".
Esitante, iniziai a digitare una risposta con il pollice sano, ma mi affrettai a cancellarla. Che cosa avrei dovuto dirle?
Non feci in tempo a elaborare un pensiero sensato che lei mi inviò un altro messaggio. "Lo sai che si vede quando stai scrivendo, vero?"
Contro la mia volontà, un sorriso mi affiorò sulle labbra. "Una scommessa è una scommessa. Sei impegnata?"
"Sto lavorando". Mandò una faccina ammiccante e aggiunse: "Gestisco un night club, ricordi?"
Quando arrivai all'ingresso vip del Coin, l'addetto alla sicurezza mi si parò davanti bloccandomi per un braccio. Mi squadrava con un atteggiamento tronfio, probabilmente convinto che il suo fisico possente bastasse a intimorirmi.
«Questa è un'ala riservata» gracchiò in tono burbero. «Se non hai il biglietto, ti consiglio vivamente di andartene».
Guardai la mano con cui mi stava stropicciando la giacca e lo fulminai con un'occhiataccia. «E io ti consiglio vivamente di non toccarmi».
Il buttafuori notò il ciondolo che mi pendeva sul petto e, impallidito, si affrettò a lasciarmi andare. Farfuglio qualcosa, ma non ci badai. Una ragazza dai ricci rossi era sbucata dalla porta, rivolgendomi un sorriso smagliante. «Prego, signor De'Ath».
La seguii dentro il locale. Immediatamente i miei sensi si misero in allerta, la mano destra che guizzava in preda a un tic nervoso. La musica era sparata a tutto volume e le luci stroboscopiche si inseguivano in una gara di bagliori colorati per la sala affollata.
Nel ring si stava svolgendo un combattimento piuttosto agguerrito mentre al di là delle sbarre si ammucchiavano persone in abiti eleganti che assistevano allo scontro esultando o brindando. Ballerini e ballerine si esibivano in danze ipnotiche su dei tavoli e volteggiavano con eleganza attorno a un palo; una di loro mi individuò e si sollevò l'orlo della gonna già corto in un saluto non proprio convenzionale.
Non era il mio ambiente. Affatto.
Rosalie Bailey mi aspettava in un privé appartato su uno dei balconi interni. Indossava un tubino nero che le metteva in risalto gli occhi scuri da cerbiatto, con la treccia castana a coprirle la profonda scollatura. Era seduta all'estremità di un divanetto di velluto, come per lasciarmi lo spazio.
Gliene fui grato, perché il solo pensiero di averla troppo vicino era... poco piacevole. Più o meno.
Ancora prima che mi accomodassi, accennò alla mia mano fasciata. «Voglio saperlo?»
«Non credo che ti riguardi» replicai con cortesia.
La ragazza che mi aveva accompagnato pose sul tavolino un margarita e un piatto con un tortino al cioccolato, poi si congedò. Con un movimento meccanico, sistemai il posacenere in modo che formassero un triangolo perfetto.
Rosalie sorseggiò con calma il suo drink, depositando tracce di rossetto sul calice. «Sembri di cattivo umore. Problemi con i bambini?»
«Una cosa del genere». Il mio sguardo continuava a posarsi sulla sua lunga gamba che ciondolava verso di me. «Non pensavo che ci fosse così tanta gente».
«La maggior parte dei miei clienti non sono di Notturn Hall. Sanno che la merce che acquistano da me possono trovarla solo qui».
La guardai. «Voglio saperlo?»
Il suo sorriso divenne affilato. «Non credo che ti riguardi».
«Touché». Mi protesi in avanti e raccolsi il bicchiere con la fetta di lime sul bordo cosparso di sale. Di solito evitavo di bere in pubblico, ma era stata una pessima giornata e forse mi avrebbe aiutato a sciogliere i nervi. Non capivo nemmeno la ragione per cui ero agitato.
«Wow. La scorsa volta hai rifiutato il mio eccellente rum» commentò Rosalie ironica, attenta a ogni mia azione. «O stai prendendo confidenza o i tuoi fratelli ti hanno proprio portato alla disperazione».
Dovetti fare una gran fatica per rimanere serio. «Tu, invece? Sei figlia unica?»
Lei esitò. Durò solo un attimo, ma per la prima volta scorsi una crepa d'incertezza nella sua spavalderia. «Ho una sorellina» ammise infine. La malizia sul suo volto era stata rimpiazzata da un'insolita dolcezza. «Sorellastra, per la precisione. Piccola, di sei anni».
Feci un'espressione sorpresa. «E sta con te, oppure...?»
«Magari». Il suo sguardo, perso nel vuoto, era velato di malinconia. «No, vive con sua madre e il patrigno. Le spedisco dei regali per il compleanno o per le feste, ma non ci siamo mai incontrate. Probabilmente è convinta di avere una lontana cugina molto generosa».
Malgrado il suo tono beffardo, capii che quell'argomento non le piaceva. Picchiettava l'indice sul vetro del bicchiere, chiaramente nervosa. Decisi di non approfondire e presi un sorso di margarita. Appena il liquido mi bruciò la gola, venni colto da un attacco di tosse.
Rosalie sorrise, quasi con tenerezza. «Non sei un'amante dell'alcol, immagino».
«Perspicace» borbottai, strizzando le palpebre.
«Meglio questo?» Lei indicò il tortino. Ne prese un cucchiaino e me lo avvicinò alla bocca, riducendo la distanza sul divano.
Mi pietrificai sul posto, incapace di distogliere gli occhi dai suoi. Non potei fare a meno di pensare che fossero belli, grandi e di un marrone intenso, contornati da lunghe ciglia. Non smisi di fissarli neppure quando assaggiai il dolce che mi stava porgendo, chinandomi un poco visto che lo teneva sospeso all'altezza del mento.
Mi schiarii la voce. «Buono» farfugliai insicuro, anche se avevo sentito a malapena il sapore. Ero troppo concentrato a ricordarmi di respirare. Il silenzio calato tra di noi era insopportabile, perciò mi affrettai a frugare nella mia mente in cerca di qualcosa da dire. «Avrei bisogno di un favore. Per la faccenda delle taglie».
Rosalie leccò il cioccolato rimasto sul cucchiaino, provocandomi un fremito. «Un altro?»
Mi ci volle qualche secondo a interpretare bene la sua domanda. Favore, intende favore. «Già, ehm, ti darò un aumento». Fantastico, adesso balbettavo anche come un cretino.
«Non voglio un aumento».
Mi schiacciai un po' di più contro il bracciolo, teso. «Eh?»
Rosalie mi fissò le labbra con un ghigno sfrontato e ridacchiò. Malgrado la vicinanza, la sola cosa che mi sfiorava era il suo fiato caldo sul viso. «È troppo facile innervosirti, pezzo di ghiaccio. Devi imparare a rilassarti».
«E tu a rispettare gli spazi personali» ribattei scontroso, sostenendo a fatica il suo sguardo.
Il suo sorriso si allargò. «Scusa» ammiccò. Scivolò al capo opposto del divanetto e mangiò un altro boccone di tortino. «D'accordo. Ti farò anche questo favore».
«Non sai ancora di che si tratta».
Lei scrollò le spalle, lasciate scoperte dall'abito. I fasci colorati sfrecciarono nella nostra direzione, gettandole delle ombre sul volto, e la mia attenzione venne attratta dalla cicatrice pallida sulla sua guancia. Mi chiesi come se la fosse fatta. «Almeno sarai di nuovo in debito. E stai certo che riscuoterò».
Lanciai un'occhiata alla sala gremita e rumorosa. C'era troppo disordine. «Se devi insistere nel provarci con me, magari la prossima volta in un posto più tranquillo» bofonchiai, aprendo e chiudendo le dita della mano in maniera spasmodica.
Rosalie scoppiò a ridere. Non si rendeva conto che, dal momento in cui ero entrato, stavo combattendo la voglia irrefrenabile di sbranare tutti, pur di porre fine a quel caos infernale.
D'un tratto un ometto paffuto e quasi calvo, piuttosto anziano, ci raggiunse. Mi sbirciò con una smorfia di inequivocabile disgusto, poi mormorò qualcosa all'orecchio della donna. Malgrado sapessi che non era molto corretto, acuii comunque l'udito per origliare.
«Non so se questo sia di tuo interesse, ma avevi ordinato che ti fosse riferita qualsiasi novità...»
«Che c'è, Gary?» tagliò corto Rosalie. Avevo la sensazione che non nutrisse grande simpatia nei suoi confronti.
«Il ragazzo in ospedale si è svegliato. Stando a quanto ho sentito, ha preso a pugni i medici che hanno cercato di fermarlo ed è scappato via. Nessuno sa dove si trovi».
Mi alzai di scatto, biascicai un saluto frettoloso e presi il telefono per avvisare i miei fratelli. Appena uscito dal night club, mi trovai sotto un temporale con la pioggia fittissima e i lampi che squarciavano il cielo nero. Pochi attimi dopo, tutti i lampioni si spensero e fui avvolto dalle tenebre.
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