𝕮𝖆𝖕𝖎𝖙𝖔𝖑𝖔 21 (Nicholas)

"𝔄𝔩 𝔟𝔞𝔪𝔟𝔦𝔫𝔬 𝔠𝔥𝔢 𝔳𝔬𝔩𝔢𝔳𝔞
𝔰𝔬𝔩𝔬 𝔲𝔫 𝔤𝔢𝔩𝔞𝔱𝔬. 𝔖𝔠𝔲𝔰𝔞,
𝔥𝔬 𝔩𝔞𝔰𝔠𝔦𝔞𝔱𝔬 𝔠𝔥𝔢 𝔱𝔦 𝔲𝔠𝔠𝔦𝔡𝔢𝔰𝔰𝔢𝔯𝔬"

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Ero rannicchiato all'interno della mia gabbia, con la testa appoggiata contro le robuste sbarre e le ginocchia nodose sollevate al petto. Non c'era abbastanza spazio per permettermi di distendere le gambe, e non avrei potuto comunque. Le corte catene che mi legavano le caviglie facevano capo allo stesso anello a cui erano assicurate le manette ai miei polsi, quindi ero quasi immobilizzato.

Il collare attorno alla mia gola era così stretto che respiravo a rantoli e gli spuntoni affilati, che ne ricoprivano l'interno, mi si erano ormai conficcati in profondità nella carne. Niente di tutto ciò però era insopportabile quanto la museruola di ferro che mi copriva la bocca, allacciata dietro la nuca con delle cinghie, per impedirmi di mordere.

Non sapevo quanto tempo fosse passato. Nemmeno mi importava, non più. Ogni tanto una guardia veniva a controllarmi e mi pungolava con un bastone, forse per accertarsi che fossi vivo o per puro divertimento, ma avevo smesso di reagire. Avrei lasciato che mi facessero ciò che volevano, qualsiasi cosa fosse.

Ero stanco.

Stanco di essere rinchiuso, incatenato, torturato, trattato come un animale. Non volevo più soffrire, non chiedevo altro. Ero davvero un mostro così orribile da non meritare neanche la pace? Ammesso che ci fosse questo, dopo la morte, per un abominio come me.

Speravo soltanto che i miei fratelli e le mie sorelle stessero bene, ovunque fossero. Era la sola cosa che contava. Forse sarebbero stati addirittura felici; era una sensazione che io non avrei mai conosciuto, neanche la meritavo, ma era bello che almeno loro l'avrebbero scoperta.

Dei passi attirarono la mia attenzione. Erano di più persone e piuttosto affrettati. Ad aprire il gruppetto c'era un uomo piuttosto elegante, con i capelli brizzolati e un ghigno sulla faccia che mi metteva i brividi. Lo seguiva un altro, tarchiato, che faticava a restare al passo sulle sue gambette tozze.

Poi c'era una ragazza dalla lunga treccia castana; nonostante il livido sulla guancia, camminava con una strana fierezza. Attorno a loro si dispiegava una schiera di guardie che imbracciavano le loro armi e le puntavano verso di me, puzzando di paura.

«Ronald, sono il tuo più vecchio amico. Lo dico per il tuo bene». L'uomo basso e grosso si stava rivolgendo a quello che aveva l'aria di essere al comando. «Tenere una delle bestie create da quella strega pazza è pericoloso. Sarebbe meglio abbatterlo».

«E sprecare un'opportunità del genere?» Il capo, Ronald, avanzò tra le cianfrusaglie che invadevano la stanza e si fermò davanti alla mia gabbia. Si inginocchiò per esaminarmi, mentre a fatica cercavo di trascinarmi nell'angolo più lontano, per quanto possibile. Fece un sorriso cattivo e una morsa di terrore mi serrò lo stomaco. «Guardalo, Gary. Guarda che meraviglia».

«È un bambino. Avrà quattordici anni, al massimo». A parlare era stata la ragazza, con la meraviglia di tutti i presenti. Mi stava fissando con un'espressione quasi di pietà. «Ti sei vantato tanto di aver catturato una delle terribili creature di Vivianne De'Ath, e alla fine è solo un moccioso magrolino e spaventato. Complimenti, papà. Grande impresa».

Ronald si drizzò e, con un gesto rapido, le mollò un manrovescio che le fece scattare la testa dall'altra parte. Lo schiocco dell'anello contro l'osso dello zigomo mi strappò un sussulto. Mi accoccolai nel mio cantuccio, il cuore che batteva all'impazzata. «Devi imparare a tenere a freno la lingua, Rosalie, o giuro che te la taglio prima o poi».

«Fidati, ho visto questa "cosa" in azione. Non è un ragazzino, è un cazzo di animale» intervenne l'uomo tarchiato di nome Gary, indicandomi con ribrezzo. «Era debole e affamato, quando lo abbiamo trovato. Ma è riuscito comunque ad ammazzare quattro dei nostri e a ferirne tre, prima che lo prendessimo».

Una risata rauca scaturì dalla gola di Ronald. Allungò il braccio tra le sbarre e mi acciuffò per il collare, strattonandomi verso di lui. I suoi occhi scuri brillavano avidi. «Mi sarai molto utile, piccolo mostro... devo solo addomesticarti un po'».

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«Non puoi evitare? Preferirei che tu fossi lucido, mentre parliamo».

«Sono di pessimo umore, fratello». Scoccai un'occhiataccia a Callum, che mi scrutava seduto dietro la scrivania. «E quando sono di pessimo umore, devo bere. Oppure uccidere, ma ultimamente non posso farlo senza beccarmi una delle tue insopportabili ramanzine. Cosa che mi rende ancora più nervoso».

Lui emise un sospiro esasperato. «Ritiro tutto. Bevi quello che vuoi».

Afferrai la bottiglia di gin, richiusi la vetrinetta e mi buttai sulla poltrona più vicina. Ne tracannai un lungo sorso, il ginocchio che tamburellava su e giù. Il liquido infuocato che mi scese giù per la gola inebriò i miei sensi, dandomi un attimo di pace, ma durò poco. Ero così arrabbiato che mi sentivo esplodere. Non ero fatto per starmene buono e calmo, la pazienza non era nella mia natura.

Ero un concentrato ambulante di cattiveria, odio e follia. Ogni volta che mi chiedevo che diavolo ci facessi ancora in vita, la vendetta era l'unica spiegazione. Esistevo per far pentire a coloro che ci avevano creati di averlo fatto, invece eccomi nascosto come un ratto a perdere tempo. Di nuovo una preda, di nuovo una cavia.

«Avete finito? A volte sembrate due bambini». Nonostante le sue parole, Kath non riusciva a trattenere un sorriso. Era in piedi davanti alla libreria, le braccia incrociate sul petto. «Dobbiamo decidere come comportarci con questa storia delle taglie».

«Già. A tal proposito». Mi raddrizzai, lo sguardo incollato su mio fratello. «Tu come l'hai scoperto?»

«Me lo ha riferito Rosalie Bailey. La pago per...»

All'improvviso Seth sputò la manciata di patatine che si era appena gettato in bocca e cominciò a tossire, sputacchiando ovunque. «Rosalie? Ti fidi di Rosalie?»

Callum lo guardò disgustato. «La conosci?»

Mi irrigidii. Quasi lo avesse percepito, gli occhi di Seth viaggiarono verso di me per un istante; erano neri come una notte senza stelle, ma dal modo in cui brillavano avrebbero potuto esserci dentro una miriade di comete. «No, ma è una Bailey. Sono dei criminali».

«Disse il ladro alla famiglia di psicopatici» commentò Callum ironico.

«Truffatore, prego».

«Chiarito che nessuno qui è un soggetto raccomandabile, passiamo alle cose importanti». Presi un altro sorso dalla bottiglia. «Come pensi di trovare questo Uranus, ad esempio?»

Callum si appoggiò appena allo schienale della sedia, i muscoli del collo e delle spalle che si tendevano. Sebbene si fosse appropriato dell'ufficio di nostra madre da settimane, e ci trascorresse gran parte delle sue giornate, era evidente che fosse a disagio a occupare quel posto. Forse temeva che l'arpia potesse strisciare fuori dalla sua tomba da un momento all'altro per punirlo. «Stando alle informazioni della Bailey, Uranus ha finanziato delle aste su di noi. Non so come o dove vengano organizzate, ma immagino che i cacciatori di taglie debbano contattarlo per poterci consegnare».

Kath si rivolse a Seth. «L'uomo che ti ha rapito. Com'era venuto a conoscenza delle taglie?»

«Non ne sono sicuro. Ero abbastanza impegnato a farmi pestare». Una ruga gli si formò in mezzo alla fronte, segno che si stava sforzando di ricordare. «Blaterava di un sito sul darkweb. Non credevo che si riferisse a un gruppo di spaccio di De'Ath, però».

«Il mio simpatico amico Frank». Sfoderai un mezzo sorriso. «Non proprio un genio del male, ma magari può esserci utile in questo specifico caso».

Callum inarcò un sopracciglio, scettico. «Il tuo simpatico amico Frank può ancora essere interrogato?»

«A meno che tra le tue infinite qualità non ci sia il potere di rianimare una testa decapitata, ne dubito». Estrassi dalla tasca dei jeans il telefono che avevo sottratto al cadavere e lo lanciai. Mio fratello lo afferrò al volo. «Ma questo era suo, di Frank. Dovrebbe esserci l'indirizzo e-mail a cui avrebbe scritto, dopo avermi catturato. Purtroppo, è protetto da una password e io non sono un guru della tecnologia».

«Possiamo farci aiutare da Will» suggerì Kath con entusiasmo. «È un hacker. Anche molto gentile».

Callum si rigirò il cellulare sul palmo. Restò in silenzio per qualche secondo, i meccanismi del suo cervello che lavoravano a ritmi così frenetici che mi sorpresi di non vedergli del fumo uscire dalle orecchie. Si voltò a fissarmi, rabbuiato in volto. «Vuoi contattare Uranus spacciandoti per Frank e dicendo di avere un De'Ath, giusto? Il tuo piano è fare da esca».

Scrollai le spalle. «Perché no? Non sono mai stato venduto a un'asta finora. È un'esperienza da aggiungere al mio curriculum».

«Assolutamente no». Kath scosse il capo più volte, facendo ondeggiare il ciuffo ramato sul suo volto. La sua espressione era di puro orrore. «È troppo pericoloso, Nik. Non conosciamo le intenzioni di Uranus, anzi non siamo neanche sicuri della sua vera identità».

Strinsi forte la bottiglia, ignorando gli sguardi che percepivo addosso. Anche se non lo nominavano, non ero così stupido da non intuire quale nome aleggiasse tra di noi come un'ombra. Una voce mi sussurrò all'orecchio, facendomi rabbrividire: "Sai che sono io, Zero. Siamo destinati a ritrovarci".

«Sarà del tutto irrilevante, quando lo ammazzerò» sbottai, alzandomi con veemenza. «Mettiamolo ai voti, va bene? Per adesso siamo due a favore di usarmi da esca e uno contrario».

«Septimus non è della famiglia. Non conta» replicò Callum gelido, contraendo la mascella.

«Ehilà, ci sono ancora!» Seth scattò in piedi, lasciando cadere il pacchetto di patatine per terra. Mi puntò un dito contro. «E, se vuoi saperlo, il tuo è un piano suicida di merda. Quindi no, non sono dalla tua parte. Se vuoi farti del male, te la cavi già benissimo da solo». Fece per abbandonarsi di nuovo sulla poltrona, ma esitò e si girò verso mio fratello. «Ah! E tu fottiti».

Quest'ultimo roteò gli occhi, ma ero certo di aver notato un guizzo quasi impercettibile nell'angolo della sua bocca. Era un maestro nel dissimulare le sue emozioni, tanto che nessuno avrebbe potuto accorgersene, escluso me. Lo conoscevo meglio di chiunque altro e sapevo che, nel profondo, era riconoscente a Seth per avermi aiutato a ritornare da loro.

«Comunque, sono d'accordo con loro. Non ti permetterò di fare da esca, Nicholas. Sei troppo impulsivo».

Il sangue mi ribollì nelle vene e scagliai la bottiglia di gin contro una delle specchiere alle pareti. Un'esplosione di vetri e frammenti riempì la stanza. Seth e Kath trasalirono entrambi, colti alla sprovvista.

Invece Callum si accomodò meglio sulla sedia, con l'aria di chi aveva atteso quella reazione dall'inizio della conversazione. Il suo atteggiamento tranquillo, addirittura annoiato, mi irritò ancora di più.

Cominciai a gridare, camminando avanti e indietro a passo di marcia. «Mi sono rotto le palle di rispettare le tue dannate regole, fratello! Non posso nutrirmi, non posso uscire, non posso dare la caccia ai nostri nemici». Rovesciai la poltrona con un calcio. «Non sono un cazzo di cane da compagnia! L'inerzia mi sta uccidendo! Non ne posso più di giocare in difesa! HO BISOGNO DI TROVARLI!»

Kath si avvicinò e cercò di accarezzarmi un braccio, ma mi scansai e continuai a guardare Callum con odio. Lui rimase imperturbabile, le dita che tamburellavano sui teschi scolpiti nei braccioli. Fremevo dalla voglia di usare la sua cravatta per strangolarlo.

«Finito di sbraitare?» chiese poi con nonchalance.

Con un balzo raggiunsi la scrivania e gli sferrai un pugno in faccia. Mi protesi oltre il bordo, lo agguantai per il colletto della camicia e lo attirai a me, intanto che Callum sollevava la mano in direzione di Kath per fermarla. Il sangue gli colava dal taglio sulla guancia, dove l'avevo colpito, ma il suo sguardo era di ghiaccio.

«Siamo mostri, fratello» sussurrai, a pochi centimetri dal suo viso. «Non siamo fatti per coltivare fiorellini o sfornare biscotti, senza offesa per nostra sorella. E tantomeno per starcene rintanati come conigli. Ora siamo noi quelli potenti e loro quelli che devono avere paura».

Callum mi afferrò il polso e me lo piegò fino a che fui costretto a mollare la presa, gli occhi grigi ancora conficcati nei miei. «E quanti altri innocenti devono morire per questa crociata?»

«Non ci sono innocenti, solo vittime o carnefici. E io non sarò mai più una vittima». Arretrai, le braccia spalancate e una smorfia sprezzante dipinta sul volto. «Non vuoi coinvolgere gli altri? Va bene, lasciamoli a divertirsi con il loro fanclub di bambini esaltati e occupiamocene noi. Io e te insieme valiamo più di un esercito, fratello». Feci un sorrisetto. «Se solo la smettessi con la recita del cuoricino tenero».

«Sicuro che la vera ragione per cui hai tanta fretta di vendicarti non sia che abbiano osato minacciare Seth?»

Prima che potessi slanciarmi in avanti, Kath si frappose fra me e la scrivania e mi premette una mano sul petto per allontanarmi. «Niente violenza, Nik!»

Serrai i pugni con tale forza che gli artigli mi penetrarono nella carne. «Devi piantarla di metterlo in mezzo anche quando non c'entra».

«Io sarei ancora qui» disse Seth, sgranocchiando le patatine. «Ma sì, fate pure finta che non ci sia».

Callum si alzò. Sfilò la pochette dal taschino e si pulì la macchia cremisi sul viso, tutto ciò che era rimasto della ferita rimarginata. «Allora è perché pensi che Uranus sia Lucius, giusto?»

Mi paralizzai. Anche Kath sembrava scioccata e non molto entusiasta, a giudicare dall'occhiata di rimprovero che gli scoccò. Avrei voluto abbandonarmi all'ennesima sfuriata, ma ero inchiodato al pavimento. Digrignai i denti, tremando dalla collera. La tensione era palpabile.

«Ehm, okay. Abbiamo superato la dose consentita di drammi giornalieri persino per questa famiglia» soggiunse Seth, tirandomi indietro per la manica. «Vieni, Nik. Uscire un po' dal castello ti farà bene. Nessun problema per mamma e papà, no?»

Callum fece per aprire la bocca, ma Kath lo zittì. «Hai fatto abbastanza danni». Ci sorrise. «Andate pure. E portate anche il resto della ciurma, se vogliono».

«Ammetto che questa non era la mia idea di sballo». Joel fece vagare lo sguardo per la sala da bowling, i pollici agganciati alla cintura dei pantaloni. «Ma c'è un bar, quindi mi accontento».

Gabriel fece un verso lamentoso, lottando per aggiustare la gonna spiegazzata del suo lungo abito rosso. Sui folti ricci, spruzzati di una tinta arcobaleno, portava un sombrero messicano. «La prossima volta nel bagagliaio ci sta qualcun altro. Mi si è sgualcito tutto il vestito» brontolò.

Sky si pettinò la chioma bionda. «Io cosa dovrei dire?» Prese lo specchietto, schioccò le labbra coperte dal rossetto e lo ripose nella borsetta. «Mi si sono scompigliati i capelli per colpa di quella cavolo di moto».

Joel gonfiò il petto. «Non insultare la mia baby».

«Siamo in otto, con Seth. L'auto è da cinque posti». Remiel si strinse nelle spalle. «E poi sono io quello che sfruttate sempre per farvi da autista».

«Che comitiva di rompicoglioni» sbuffai.

Seth mi circondò i fianchi con un braccio, attirandomi a sé. «Prima della fine della serata, ti avrò tolto quel broncio» bisbigliò.

«Se non hai in mente un massacro coi fiocchi, ne dubito».

Dopo aver noleggiato l'attrezzatura al bancone, ci cambiammo e andammo a posizionarci davanti a una delle piste in legno lucido. E ovviamente, essendo la mia una famiglia di emeriti cretini, non poteva che scoppiare una discussione anche sulla cosa più inutile.

«Io voglio fare il capitano!» esclamò Gabriel saltellante.

Joel scosse il capo. «No, i capitani siamo io e Nik».

Sky si accigliò. «Perché proprio voi?»

«Perché siamo i più bravi. E i più belli».

«Non è vero!» protestò Remiel. «I più egocentrici al massimo».

Isaac tossì. «Ci stanno guardando tutti».

«A me basta stare in squadra con Nik» commentò Seth, stringendomi più forte. Il suo profumo così vicino mi mandò in estasi e desiderai che non si staccasse mai più.

«Ma certo». Joel sghignazzò. «Non oserei separare i due fidanzatini».

«Fratellino, ci tieni al tuo intestino? Perché potrei usarlo come sciarpa». Gli rifilai un'occhiataccia. «Ho già dovuto mettere delle schifose scarpe puzzolenti che chissà quanta gente avrà indossato prima di me, non ti consiglio di testare ulteriormente la mia pazienza».

«Avete rotto». Alexander sollevò una palla color indaco come se pesasse quanto una piuma - in effetti, per noi era così - e la lanciò con un movimento fluido. Strike.

Joel fischiò ammirato. «Lui è con me!»

«No, faccio il capitano. Nella mia squadra voglio solo i membri della famiglia con un cervello».

«Dovremmo dare un nome alle squadre» propose Gabriel, prendendo una palla verde lime. Piroettò su sé stesso un paio di volte, quindi la lasciò andare con fin troppo slancio... dalla parte sbagliata. Atterrò con un tonfo in mezzo a un gruppetto di ragazzi. «OPS, SCUSATE! QUALCUNO È MORTO?» strillò a squarciagola.

«Santo cielo» gemette Sky. «Hai la coordinazione di un tricheco ubriaco».

Il turno dopo fu di Isaac, che però era piuttosto goffo e centrò in pieno il canale laterale. Joel mise a segno uno strike e Remiel rovesciò metà dei birilli. Toccava a me. Mi feci avanti mentre il macchinario sputava fuori una grossa sfera nera e mi resi conto che non sapevo neanche come prenderla. Non ci avevo mai giocato.

Gli altri lo avevano fatto apparire così semplice, maledizione!

«Che c'è, Nik? Ansia da prestazione?» mi punzecchiò Sky.

Mi agitai, spazientito. «No, pensavo che sarebbe fantastico usare una di queste palle per fracassare qualche cranio». Almeno avrebbe distolto l'attenzione dal gioco.

Forse ero ancora in tempo per dire che preferivo restare a guardare, senza rischiare di fare la figura del codardo.

Poi però Seth comparve dietro di me. La sua mano si chiuse attorno alla mia e mi guidò con delicatezza, facendomi infilare le dita nei tre fori della boccia. Sollevandola, mi voltai per incrociare il suo sguardo e mi sorrise rassicurante. Il mio cuore mancò un battito. Sarei andato fino all'inferno o avrei scalato una montagna, pur di guadagnarmi un suo sorriso.

«Stai dritto e tieni i piedi leggermente distanti» mormorò da sopra la mia spalla, allargandomi le gambe con il ginocchio.

Ero certo che i miei fratelli ci stessero prendendo in giro, ma la mia mente annebbiata riusciva a concentrarsi soltanto sul tocco di Seth che mi bruciava la pelle. Il suo petto era premuto contro la mia schiena; anche se questo mi innervosiva un po', risvegliando brutti ricordi, con lui non avevo paura. Non mi aveva mai fatto del male, a differenza del resto del mondo.

«Hai capito come si tira?»

Mi riscossi. Seth mi stava fissando, gli occhi neri che brillavano. Annuii. «Lo sapevo fare anche da solo».

Lui ridacchiò. «Piccolo bugiardo» sussurrò in tono dolce, togliendomi il respiro. Depositò un lieve bacio nell'incavo del mio collo e si ritrasse.

Seguendo le sue indicazioni, presi una breve rincorsa e feci oscillare la palla prima di lanciarla. Con mia sorpresa, non feci del tutto pena e potei ritenermi soddisfatto, sebbene mi bruciasse l'idea di essere stato il peggiore. Escluso Gabe, certo.

Mentre mia sorella prendeva il mio posto, mi sedetti sul divanetto accanto ad Isaac, che era intento a leggere un libro. Quando Seth si buttò vicino a me, appoggiai la testa sulla sua spalla e mi godetti le morbide carezze che mi diede tra i capelli biondi.

Socchiusi le palpebre, dimenticandomi dei rumori della sala da bowling. «Posso dormire con te, stanotte?»

Lui si bloccò. Pregai che non mi facesse domande sui miei incubi, non volevo parlarne, ma non ero mai stato bravo a negargli niente. «Dipende. Con "dormire" intendi dormire

Sollevai il capo e abbozzai un sorrisetto. Vidi il suo pomo d'Adamo fare su e giù, odorava di eccitazione. «Tu vuoi dormire?»

«Mi dispiace disturbare, piccioncini» irruppe Joel sogghignando. «Ma abbiamo una partita da vincere!» E gettò la boccia in grembo a Seth, che imprecò con una smorfia di sofferenza.

«Vi ricordo che io non ho la superforza alla Hulk, cazzo!»

Lanciai un'occhiata a Isaac. Era paonazzo e mi stava sbirciando da sopra il libro. «Non vi ho origliati, giuro» bisbigliò timidamente.

Gli feci un sorriso sghembo e andai a prendere qualcosa da bere. Il bar era dalla parte opposta rispetto alla nostra pista, quindi colsi l'occasione per starmene un po' per conto mio. Ordinai una birra e mi sedetti a un tavolino, osservando la mia famiglia da lontano. Nelle varie corsie le palle battevano di continuo sul legno e i birilli crollavano a terra, anche se quei rumori si fondevano in una miscela confusa e ovattata alle mie orecchie.

«Che bel posticino».

Per poco non accartocciai la lattina nella mano.

Spaparanzato sulla sedia di fronte a me, Lucius stava facendo roteare il drink nel proprio bicchiere con un sorriso serafico impresso sulle labbra. Indossava un maglione di lana, le maniche ripiegate fino ai gomiti a esibire la carnagione abbronzata delle sue robuste braccia. Aveva qualcosa di diverso dal solito, ma ero troppo preso a trattenere i conati di vomito per badarci.

«Non sei reale». Mi sforzai di tornare a respirare. «Devi andartene. Vattene».

L'uomo mi guardò perplesso. «Sono appena arrivato».

«Devi smetterla di tormentarmi». Voleva essere un ordine, ma la mia voce uscì flebile come una patetica supplica.

Mi ignorò. «Sono felice che ti sia riunito a loro. So quanto li ami, nonostante la tua tendenza ad allontanarli». Accennò ai miei fratelli con il mento, senza distogliere gli occhi scuri da me neanche per un attimo. «Ma quanto ci metteranno a stancarsi, Zero? Di te, dei tuoi sbalzi d'umore, delle tue paranoie... perché diciamocelo, non è facile volerti bene».

Balzai in piedi, rabbioso. «Adesso basta! Non starò ad ascoltare la predica di un morto! Tu non sei qui!»

«Forse sì. Forse no». Lucius vuotò il liquido ambrato in un sorso e arricciò il naso. «È tutta la vita che cercano di uccidermi, ma me la cavo sempre. Come quando la mia madre biologica mi ha smollato in mezzo al nulla a crepare di fame, invece sono rinato. Sono un sopravvissuto, Zero. È questo che ci rende anime affini».

Un brivido mi fece accapponare la pelle. «Non abbiamo nulla in comune io e te». La mia vista iniziava ad annebbiarsi ed ero scosso dai tremiti. «Non ho mai fatto a nessuno quello che tu hai fatto a me. A noi».

«Certo». Il suo sorriso di distorse in un ghigno sarcastico «Vai a raccontarlo alle centinaia di persone del cui sangue grondano le tue mani. Sono sicuro che sarà per loro di grande conforto».

Come una mazzata in pieno stomaco, capii che cosa ci fosse di strano. Il suo volto era segnato da più rughe di quante ne ricordassi e aveva degli aloni violacei sulle guance. I capelli carbone tradivano dei pelucchi bianchi. Ma le mie visioni non invecchiavano. Era sempre uguale all'ultima volta che lo avevo visto, la notte stessa della sua morte, steso nel letto nudo e inerme.

Il gelo si impossessò delle mie ossa. «Tu non...» ansimai, incapace di muovermi. Scossi il capo. Mi sentivo sospeso in un sogno dal quale non riuscivo a destarmi. «Non puoi essere reale».

Lucius si alzò e mi si fermò davanti, scavalcando la pozza bagnata sul pavimento. Non mi ero accorto di aver fatto cadere la lattina. «Speravo che la prendessi meglio, in realtà. Ma va bene, aspetterò che sia tu a trovarmi». Passò un dito sulle mie cicatrici, facendole ardere di un dolore vivo, concreto. Poi mi tenne stretto per la gola e spinse con foga la sua bocca sulla mia in un bacio soffocante. Si ritirò così in fretta che ebbi a malapena il tempo di capire cosa stesse succedendo. «Sei mio, Zero. Non suo. Non dimenticarlo mai».

Attorno a me piombò l'oscurità. Per la sala si diffusero dei gridolini e delle esclamazioni concitate, più di sconcerto che di spavento.

Mi girai di scatto e mi precipitai a gran velocità dai miei fratelli, non prima di aver ispezionato un'ultima volta il punto in cui era scomparso Lucius. Non sapevo cosa pensare. Lo avevo immaginato? E se non era un'allucinazione, com'era riuscito a dileguarsi in un battito di ciglia? Era comunque solo un umano, in caso contrario lo avrei percepito dal suo odore...

«... blackout generale» stava dicendo Remiel, al mio arrivo.

Isaac annuì, le ombre che danzavano sul suo viso cereo. «A Notturn Hall la corrente salta spesso con i temporali» balbettò ansioso.

Mi accostai a Seth, che aveva il respiro pesante ed era pietrificato dal terrore. Sapevo che il buio era la sua più grande paura, insieme agli insetti. Infilai la mano nella sua, così che la mia presenza lo calmasse. Poi controllai a uno a uno che gli altri fossero incolumi, soffermandomi sulla mia sorellina.

Alexander mi precedette per un soffio e chiese: «State tutti bene?» Dal suo tono, abbastanza burbero, trapelava una nota di preoccupazione.

«No, Gabe mi ha fatto cadere la palla sul piede» bofonchiò Joel, dandogli un calcio.

«Ahia, non è colpa mia! La gente si è messa a strillare "AAAHH" all'improvviso e mi sono agitato!»

Un fascio di luce illuminò le tenebre. Sky aveva acceso il telefono e aveva lo sguardo fisso sullo schermo. «Callum ha mandato un messaggio anche a voi?»

Remiel prese a sua volta il proprio apparecchio. «Credo lo abbia inviato a tutti».

Feci spallucce. «Sì, poco fa. Non l'ho letto».

«A me no» obiettò Seth indignato. «Non ha il mio numero o è solo stronzo?»

Gabriel schioccò la lingua. «Continuo a dire che dovremmo creare un gruppo di famiglia».

«Che cosa dice? Non mi va di prendere il telefono» borbottai stizzito. «Se non sono delle sue eclatanti scuse, non mi importa».

«Il ragazzo, Keegan». Alexander assunse un'espressione corrucciata. «È scappato dall'ospedale durante la notte».

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